Sezioni
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31 gennaio 2021
La misura è colma: l'inaugurazione dell'anno giudiziario vista dal Direttivo della Camera Penale di Trapani
30 gennaio 2021
Novità dalle Sezioni Unite - La deflazione e la fuga dal processo penale: le Sezioni unite scartano al civile il giudizio di rinvio a seguito di impugnazione della parte civile
Quando ci eravamo occupati del tema della rinnovazione dell'istruttoria in appello (link), avevamo anticipato la pendenza di una questione controversa innanzi le Sezioni Unite.
Il tema controverso era: se, in caso di annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna, pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o a quello penale.
All'udienza del 28 gennaio 2021, le Sezioni Unite hanno dato al quesito la seguente soluzione (informazione provvisoria): il rinvio deve essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen., che così dispone con riferimento a tutti i casi di annullamento che abbiano ad oggetto esclusivamente le statuizioni ad effetti civili. Riferimenti Normativi: cod. proc. pen. artt. 576, 578, 622, 623. Relatore: P. PICCIALLI
APPELLO PANDEMICO: IMPUGNAZIONE A MEZZO PEC E NUOVE INAMMISSIBILITÀ – L'INTERVISTA DI IUS LAW WEB RADIO ALL’AVV. MARCO SIRAGUSA
Il 30 gennaio si celebrano, presso i distretti di Corte d'appello, le cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario.
29 gennaio 2021
Differimento sine die dei colloqui con i detenuti: quali rimedi per la difesa?
L'emergenza Covid impone di fare i conti con provvedimenti amministrativi in forza dei quali, in alcune realtà detentive, i colloqui dei legali con i detenuti sono differiti sine die, potendo però ricorrersi a colloqui telefonici. Si tratta di una situazione fin qui ignota e, salvo nostre sviste, non oggetto di apposita disciplina emergenziale, che invece ha riguardato il differimento dei colloqui dei detenuti con i familiari. Nè, nel caso di specie, si può ricorrere alla deroghe, ex art. 104 c.p.p., al diritto di interlocuzione col difensore.
28 gennaio 2021
Il processo "segreto" e in "assenza" dei protagonisti. Come le riforme Covid muteranno il processo. Riflessioni a margine degli ultimi interventi normativi - di Daniele Livreri
27 gennaio 2021
CONTRASTO ALLA VIOLENZA DI GENERE: IL DIFFICILE BILANCIAMENTO TRA I DIRITTI DELLA PERSONA OFFESA E QUELLI DELL’INDAGATO – IMPUTATO - di Vincenzo Catanzaro
26 gennaio 2021
Per la Cassazione la consulenza tecnica del p.m. ha una valenza probatoria superiore a quella della difesa: una pronuncia dai contenuti eccentrici che misconosce contraddittorio e parità delle parti - della prof.ssa Caterina Scaccianoce (*)
Secondo i giudici di legittimità (Cass., pen., Sez. 3^, n. 16458, del 18.02.2020, dep. 29.05.2020, Pres. Ramacci, Rel. Galterio, Barbone) è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso presentato per violazione di legge e vizio di motivazione, con cui si contestava alla corte d’appello di non avere tenuto in debito conto, ai fini della verifica delle effettive difformità delle opere realizzate rispetto al manufatto originario, le considerazioni tecniche provenienti dal consulente della difesa alle quali è stata preferita, in modo apodittico, la “perizia” del consulente del pubblico ministero.
La pronuncia merita più di una riflessione contenendo affermazioni assai eccentriche che catapultano l’interprete nella dimensione inquisitoria del vecchio sistema. Un vero e proprio abbaglio, sganciato dalla realtà, ma soprattutto foriero di insidiose suggestioni che finiscono con il trasfigurare i principi della parità delle parti, del contraddittorio e dell’imparzialità del giudice.
Venendo al ragionamento della Corte, emergono sin da subito le stramberie impiegate per sostenere l’insostenibile, ossia la superiorità probatoria della consulenza tecnica del pubblico ministero rispetto a quella della difesa.
Di questo, infatti, si tratta.
Partiamo dal lessico utilizzato: scorrendo il testo della motivazione ci si imbatte più volte nella espressione <<perizia disposta dal p.m.>>. Lapsus che, volendo essere magnanimi, potrebbe attribuirsi a una ingenuità lessicale che esprime soltanto poca attenzione e pogo rigore nella scelta delle parole, se non fosse che proprio su tale “strafalcione” i giudici di legittimità hanno fondato le ragioni delle proprie conclusioni, ovverosia che <<di nessuna censura è passibile la sentenza impugnata per essersi allineata alle conclusioni tratte dal consulente PM, […] che, comunque, pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa>>.
Muovendo dal ben noto art. 358 c.p.p., sul quale non è possibile in questa sede soffermarsi con la opportuna severità, la Corte ne propone una lettura tratta da un precedente arresto (Cass. pen., Sez. II, 24 settembre 2014, n. 42937), ove si afferma che, se è vero che il consulente è ausiliario del pubblico ministero in quanto nominato da questi, è parimenti vero che il p.m. <<ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità>>, raggiungibile concretamente attraverso <<una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico-scientifiche espressive di competenza e imparzialità>>. Ne consegue che il consulente, da lui nominato, deve necessariamente operare in sintonia con tali indicazioni, come del resto si desume dalla sua qualifica di pubblico ufficiale, <<il cui elaborato, pur non potendo essere equiparato alla perizia disposta dal giudice del dibattimento, è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale che perciò non corrisponde appieno a quella del consulente della parte privata>>. La Corte, pertanto, conclude che, proprio in ragione della funzione ricoperta dal pubblico ministero, il quale, sebbene nell’ambito della dialettica processuale, <<non è portatore di interessi di parte>>, gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 c.p.p. rivestono <<una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti private>>, e, per di più, laddove si tratti di apprezzamenti <<non intrinsecamente illogici o contraddittori, in sé non inattendibili>> e, comunque non specificamente confutati dal consulente della difesa, come nel caso di specie, ai sensi del combinato disposto degli artt. 224 e 508 c.p.p., il giudice non è tenuto a disporre alcun accertamento peritale, che si rivelerebbe <<del tutto inutile per l’accertamento dei fatti e per la speditezza del processo>>.
Ebbene, invocare la ricerca della verità e considerarla il fine primario del pubblico ministero fa parte di un retaggio culturale incompatibile con l’attuale modello di processo penale, che prevede un antagonismo dialettico tra due soggetti davanti al giudice situato in posizione equidistante dagli stessi. Vero è che una asimmetria di poteri e facoltà non può non riconoscersi nella fase delle indagini, tuttavia in dibattimento, dove gli esiti delle indagini serviranno per formare le prove, non c’è alcuna norma che attribuisce ai risultati probatori pesi diversi a seconda che provengano dall’accusa o dalla difesa, non c’è una gerarchia probatoria fissata dalla legge perché il nostro sistema ha ripudiato le prove legali. Del resto, parità delle parti (art. 111, comma 2, Cost.) significa parità dialettica, uguaglianza dei “diritti”, e in particolare del diritto alla prova, all’interno del processo.
Il messaggio della Corte, invece, sottende una anacronistica commistione di funzioni tra giudice e p.m., presente, come noto, nel vecchio sistema, ma neutralizzata dal legislatore del 1988.
Intendiamoci: il p.m. persegue un interesse pubblico e propone una ipotesi di ricostruzione dei fatti a conclusione delle indagini che, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., devono essere complete includendo anche gli accertamenti a favore dell’indagato per evitare l’instaurazione di processi superflui (Corte cost. n. 96 del 1977). Il giudice dovrà accertare la fondatezza della ricostruzione dei fatti, così come formulata dal p.m., al di là di ogni ragionevole dubbio.
Qui, invece, l’aprioristica maggiore affidabilità attribuita da questa Corte alle valutazioni dell’esperto nominato dal p.m. è fatta derivare da una concezione, ormai superata, del p.m. come organo prossimo al giudice, che ha come scopo la ricerca la verità. In vero, quale organo pubblico, il p.m. ha il dovere di svolgere le attività inquirenti nel segno dell’obiettività. Ciò vuol dire che egli non può tacere eventuali risultati a favore dell’indagato e che deve operare a trecentosessanta gradi, essendo suo interesse non trascurare alcuna traccia, a fortiori se sollecitato dalla “controparte”. Una regola ovvia che collima con quella “imparzialità istituzionale” propria dell’organo inquirente, costretta tuttavia a convivere con una “parzialità funzionale”, derivante dall’essere il processo di oggi un processo di parti, in cui accusa e difesa devono, in modo uguale, potere influire sul convincimento del giudice. In totale dissonanza rispetto a tale cultura processuale, il consulente del p.m. viene, invece, descritto dalla Corte come organo ausiliario dell’accusa che agisce con imparzialità e il cui elaborato ha natura giurisdizionale: ecco il secondo errore concettuale commesso dai giudici di legittimità che restituisce <<l’idea nefasta e aberrante di una sovrapposizione del pubblico ministero al giudice>> (Kostoris).
Vale la pena indugiare qualche istante nel passato. Il legislatore del 1930 scelse di affidare la risoluzione di questioni di natura tecnica al solo perito nominato dal giudice, prevedendo al contempo che l’imputato fosse assistito tecnicamente da soggetti esperti, assimilati, quanto a posizione processuale, ai difensori. Veniva così estromessa dal processo la discussa categoria dei “periti di parte” (presenti nel sistema del 1913) e s’introdusse, per la prima volta, la figura del consulente tecnico. Nondimeno, la facoltà di nominare propri consulenti tecnici venne riconosciuta alle sole parti private, dando spazio, in tal modo, a un contraddittorio tecnico, seppure posticipato e meramente cartolare: era, infatti, precluso un controllo contestuale alle operazioni peritali potendosi procedere alla nomina dei propri esperti solo dopo il deposito in cancelleria della perizia. Tali soggetti erano assimilati, sotto il profilo del carattere giuridico e della funzione processuale, ai difensori, e non ai periti, con la conseguenza che le loro osservazioni avevano carattere difensivo. Come accennato, al pubblico ministero non era riconosciuta la facoltà di avvalersi dell’ausilio di propri esperti e la scelta era giustificata dalla sua posizione istituzionale, che, escludendolo dal novero delle parti, lo dislocava su una linea parallela a quella del giudice. Non gli restava altro che fare affidamento al perito di nomina giudiziale, sia nell’istruttoria sommaria sia in quella formale. Il che, però, incoraggiava l’operazione di screditamento dei consulenti tecnici delle parti private: si registrava, invero, una diffusa diffidenza nei confronti della figura del consulente tecnico, privilegiandosi piuttosto il perito di nomina giudiziale ritenuto unico depositario di attendibili responsi scientifici.
Cosa cambia con l’adozione del modello del 1988? L’attenzione al diritto delle prove penali non poteva non incidere anche sulla disciplina della prova tecnica, il cui riordino postulava un allineamento alla nuova dimensione accusatoria inaugurata con il neo codice di procedura penale: in un quadro generale di recupero della legalità probatoria, il ruolo delle parti nel procedimento di formazione della prova tecnica viene fortemente potenziato, con la novità di affiancare alla tradizionale figura del consulente endoperitale, al quale è più o meno largamente concesso di intervenire nei vari momenti costruttivi della prova per periti, quella, assolutamente inedita, del consulente che può operare indipendentemente sia da una perizia sia da un’attività di accertamento o di indagine tecnica del pubblico ministero (la consulenza extraperitale).
Il sapere tecnico entra, quindi, nel processo veicolato dagli esperti, sia di parte che di ufficio, i quali sono <<organi utili alle parti prima che al giudice>>, apportando <<sugli argomenti esorbitanti dal consueto scibile, le premesse necessarie al contraddittorio>> (Cordero). Infatti, in dibattimento, il confronto tra tesi (accusa) e antitesi (difesa), anche sul piano tecnico-scientifico, si esprime nel contraddittorio, come miglior metodo per accertare i fatti. Sicché, l’attività dialettica impegna le parti contrapposte, costituendo al contempo la tecnica di ricostruzione del fatto e la condizione di garanzia di un giusto processo, di un giusto accertamento e di una giusta decisione. La conoscenza processuale è veicolata attraverso gli strumenti conoscitivi offerti dalle parti al giudice in un quadro di precise regole probatorie e indiscutibili garanzie difensive, connaturali a quella tensione dialettica tra le parti che informa di “giustezza” il metodo di formazione delle prove. Ma la specificità della prova tecnica, come è intuibile, pone il problema del controllo delle conoscenze tecnico-scientifiche immesse nel processo attraverso la deposizione di periti e consulenti. Queste, infatti, costituendo ipso iure le premesse per il contraddittorio tecnico, divengono patrimonio conoscitivo comune alle parti e al giudice, i quali, tuttavia, saranno in grado di controllarle solo se adeguatamente e in misura eguale attrezzati culturalmente, dovendo partecipare in modo attivo e non passivo alla dialettica dibattimentale. Che il “sapere comune” debba essere un ingrediente fondamentale del rapporto tra le parti, e tra queste e il giudice, è richiesto proprio dalla funzione che il contraddittorio svolge nella concezione dialettica della prova. Il controllo del giudice, invero, avviene in contraddittorio al quale partecipano periti e consulenti di parte, replicando così la dialettica propria della medesima ricerca scientifica. Tale situazione mette l’organo giudicante in condizione di valutare l’operato dell’esperto, verificare, quindi, se egli ha applicato in maniera coerente alle risultanze processuali un criterio ritenuto affidabile in quanto rispondente a certi standard minimi di razionalità epistemica. In definitiva, il giudice accoglie la soluzione accreditata che resiste ai tentativi di falsificazione condotti col contributo di tutti gli specialisti intervenuti in giudizio.
25 gennaio 2021
Attenzione al ricorso per cassazione pandemico: quando un legislatore distratto partorisce norme cieche. Le linee guida del primo Presidente della Corte di Cassazione
Il decreto legge n. 2/2021 (convertito dalla L. 29/2021), in vigore dal 14 gennaio, ha differito lo stato di emergenza sanitaria al 30 aprile 2021.
Per effetto degli “incastri” normativi ciò comporterà il differimento a tale data della disciplina pandemica del processo penale, secondo quanto previsto dalla legge 176/2020 di conversione dei decreti legge Ristori.
La proroga dello stato di emergenza interviene tempestivamente rispetto al giudizio di appello, nel quale la richiesta di discussione orale va presentata quindici giorni liberi prima dell’udienza. Pertanto, sin dalle udienze dell’1 febbraio (recte sin da quindici giorni prima) essa consente la piena applicazione del regime eccezionale e pandemico e offre la possibilità di chiedere la discussione orale del processo.
Diverso è il discorso quanto al giudizio in Cassazione, nel quale l’assenza di una disciplina transitoria e un “tempo” diverso rispetto all’appello (la richiesta di discussione va presentata 25 giorni liberi prima), creerà non pochi problemi ai giudizi fissati dall’1 all’8 febbraio.
L’Ufficio del Massimario e del Ruolo prova a mettere ordine con la relazione che potrete scaricare al 👉🏻 link.
Per noi avvocati - o tempora o mores - merita cenno la prima delle soluzioni considerate, quella cioè seguita diligentemente da molti colleghi di avanzare comunque istanza di discussione orale al “buio”, confidando e/o scommettendo che l’emergenza sarebbe stata prorogata dal Governo (in tutt’altre faccende affaccendato) con i consueti ritardi ai quali ci ha abituati.
In seguito alla relazione del Massimario, il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha adottato le linee guida che pubblichiamo al 👉🏻 link.
Nel documento del Primo Presidente, per le sole udienze fissate dall'1 all'8 febbraio è prevista la possibilità di chiedere la discussione orale con istanza da depositare 5 giorni liberi prima dell'udienza. Ciò in coincidenza con il termine, illo tempore, previsto da D.L. 137/2020. La soluzione del Presidente Curzio appare tempestiva e lodevole, ma lascia traccia indelebile della crisi del nostro sistema, dove un legislatore distratto altera gli equilibri tra poteri dello Stato. Per utilizzare le parole del Prof. Andrea Castaldo nel suo intervento di ieri su questo blog <<in ogni ordinamento, maggiore è la porosità del tessuto testuale delle fattispecie penali d’avamposto, in quanto cerniera dello specifico sistema repressivo (come nel caso dell’abuso d’ufficio), maggiore sarà la discrezionalità e l’interpretazione creativa della giurisprudenza>>. Qui ovviamente non si tratta di giurisprudenza (le linee guida non lo sono) né di discrezionalità, ma di necessaria funzione vicaria alle inefficienze del legislatore.
Ciascuno ha ormai consapevolezza di quanto incerta e complessa stia divenendo la professione ...
24 gennaio 2021
5 domande "a tutto campo" al Professore Andrea Castaldo - di Daniele Livreri
1) 1) Andrea, sei stato tra gli accademici che più hanno
sostenuto l’esigenza di una riforma del delitto di abuso di ufficio, coordinando anche un team di ricerca per la
riforma dell’art. 323 c.p. e avanzando proposte di riforma, che giudizio
esprimi della recente novella che ha riformato l’abuso di ufficio?
La riforma va nella giusta
direzione di circoscrivere la fattispecie penale attraverso una migliore
definizione del fatto tipico. Così, la sanzione penale recupera il ruolo di extrema ratio, censurando i comportamenti
realmente offensivi, residuando per gli altri i rimedi di natura civile o
disciplinare.
Permane tuttavia qualche
perplessità sulla combinazione tra la corposa ‘sforbiciata’ operata sulla
condotta e il mantenimento dei precedenti requisiti strutturali, in particolare
il dolo intenzionale.
Se da un lato, infatti, l’art. 23
del D.L. “cd. Semplificazioni” propone la sostituzione della locuzione “di
norme di legge o di regolamento” dell’art. 323 c.p. con le parole “di specifiche
regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, dall’altro
lascia invariati, invece, l’evento e l’elemento soggettivo.
Con la Commissione da me
presieduta si era addivenuti ad una proposta di riforma tale da consentire al
pubblico ufficiale, costantemente preoccupato dal pericolo di incorrere in una
violazione avente rilevanza penale, di agire liberamente e serenamente. Il
timore infatti genera i fenomeni della fuga dal potere di firma,
dell’amministrazione difensiva e, conseguentemente, della scarsa efficienza
della Pubblica Amministrazione.
2 2) Ti pare che anche altri delitti dei pubblici
ufficiali andrebbero riformati per una migliore efficienza della pubblica
amministrazione?
Migliorare la performance della Pubblica
Amministrazione è un tema a me molto caro. A mio modo di vedere è opportuno
scindere interventi legislativi con finalità meramente repressive da quelli
aventi come scopo la reale risoluzione, o quanto meno l’attenuazione, del
fenomeno della maladministration.
La legge n. 3 del 9 gennaio 2019
“cd. Spazzacorrotti” ha orientato la lotta al fenomeno corruttivo latu sensu verso l’aspetto repressivo
con l’inasprimento sanzionatorio sic et
simpliciter. Basti pensare all’inserimento di alcuni delitti contro la p.a.
nel catalogo dei reati sottoposti al regime di cui all’art. 4-bis, co. 1 ord.
penit. Tale disposizione, come è noto, prevede l’esclusione dall’accesso ai
benefici penitenziari per coloro che abbiano commesso i reati ivi elencati.
Tuttavia, numerosi dati ed
indicatori hanno dimostrato l’effetto solo temporaneo e insoddisfacente della
mera “repressione”.
Con la precedente L. 190/2012,
“cd. Severino”, sembrava, invece, essersi invertito il trend promuovendo una strategia di prevenzione. E così anche le
successive riforme. Cito, a mo’ di esempio, il d.l. 97 del 2016 intervenuto per
incentivare la trasparenza amministrativa e il processo di “eticizzazione”
della P.A., rafforzando la protezione del whistleblower.
3 3) Da accademico che esercita anche la professione
forense ti pare che la giurisprudenza talora tenda a interpretazioni delle
norme nell’ottica di “tenuta del sistema”?
Consentimi di fare una doverosa
premessa. Il “mestiere” di avvocato è un ottimo banco di prova e una
formidabile palestra per un approccio concreto, direi pragmatico, alle numerose
criticità che affliggono il sistema penale e soprattutto quello processuale.
Proprio da tale osservatorio
privilegiato, siamo in grado di verificare come la giurisprudenza abbia
assunto, non da poco, un ruolo vicariale o correttivo dell’intervento
legislativo. Mi riferisco ad interpretazioni disinvolte che sembrano premiare
una giustizia declinata secondo parametri di equità più che di rigida
applicazione della legge. Un trend
che diventa particolarmente preoccupante laddove avvenga a scapito del divieto
di analogia in materia penale.
4 4) Hai una vasta esperienza processuale in altri
stati, soprattutto di lingua tedesca, cogli una tendenza europea per la quale
il Giudice, più del Legislatore, è diventato il signore del diritto?
È quello che osservavo prima.
In Germania, dove mi capita, come avvocato iscritto al Foro
di Monaco di Baviera, di esercitare la professione, il “mondo” giudiziario non
è comparabile, né per numero di procedimenti penali, né per qualità, né per
durata alla realtà italiana. Per quanto riguarda le riforme penalistiche, sono
molto limitate e ispirate ad una linea di politica criminale più coerente in
termini di razionalità.
In linea di massima, comunque, e semplificando non poco, in
ogni ordinamento, maggiore è la porosità del tessuto testuale delle fattispecie
penali d’avamposto, in quanto cerniera dello specifico sistema repressivo (come
nel caso dell’abuso d’ufficio), maggiore sarà la discrezionalità e
l’interpretazione creativa della giurisprudenza.
Seppure ci troviamo in un sistema di Civil Law, la prassi giudiziaria, se consolidata, può assumere
senza dubbio una portata legiferatrice, idonea, talvolta, a creare più che ad
interpretare.
5 5) In queste esperienze fuori dai confini italiani cogli
un ruolo diverso dell’avvocatura rispetto all’Italia?
Trovo che il diritto penale conservi, per fortuna, la
solennità e il rispetto che gli è proprio. Non ho avuto al di fuori dei confini
italiani la percezione di un ruolo diverso dell’avvocatura. Fare di tutta
l’erba un fascio, tuttavia, è sempre sbagliato e le generalizzazioni al
contempo lo sono.
Purtroppo penso che un problema serio, in Italia, sia quello
del numero eccessivo di avvocati, che produce non soltanto conseguenze negative
sul piano reddituale, ma anche sulla qualità del professionista e, non da
ultimo, tende a determinare uno scadimento delle relazioni interpersonali con
gli altri “attori” del processo penale, quali il Pubblico Ministero ed il
Giudice.