Abrogare o no il reato di
abuso d’ufficio?
Sul piano divulgativo, come
si sa, la quaestio è stata rappresentata così.
Il Governo ha proposto di
abolire il delitto di abuso d’ufficio, in quanto figura “evanescente”, per la
quale assai raramente si giunge ad una condanna.
Si è subito sollevata la
protesta che una simile abrogazione aprirebbe una voragine, ossia un vuoto di
tutela tale da permettere ai pubblici amministratori ogni sorta di illegalità.
Spiccano in effetti tanto la
fragilità giustificatrice della proposta abolitiva, quanto la poca
conseguenzialità della obiezione alla stessa. Quest’ultima invero, lungi
dall’appuntarsi sulla addotta evanescenza dell’ipotesi delittuosa di che
trattasi (o comunque sull’assunto che ogni ipotesi evanescente debba essere
eliminata dall’ordinamento), lamenta in definitiva che tale evanescenza debba
essere invece mantenuta, dacché ci si preoccupa proprio del fatto che i
pubblici amministratori potrebbero ora commettere senza controllo penale quelle
stesse illegalità che, per i proponenti la riforma, quasi mai finirebbero poi
per centrare il reato.
A meno di non voler
concludere, quindi, che la disputa sul tema confermi tristemente il dramma
della incomunicabilità dell’uomo contemporaneo – come se a parlare fossero, ad
esempio, Vladimiro ed Estragone – s’impone uno sforzo di intelligenza maggiore.
Può forse ravvisarsi un
nesso tra le due posizioni, per come manifestate, se si assume che entrambi gli
interlocutori condividano in fondo la concezione diffusa per cui amministrare
giustizia, nel settore penale, significhi sostanzialmente aprire un
procedimento a carico di un determinato soggetto al fine di verificare se
egli abbia commesso un reato, oppure no.
Come avvocati siamo invero i
primi a contribuire al radicarsi di questa, errata, visione. Quando un processo
termina con un’assoluzione piena annunziamo, magno gaudio, che “Giustizia
è stata fatta” (o, peggio, che il processo è stato “vinto”). Ogni assoluzione
è, al contrario, proprio l’attestazione che un processo non avrebbe dovuto
neppure essere iniziato, e quindi che non sia stato affatto “giusto” che quella
persona vi sia stata sottoposta (magari anche molto a lungo). Ma se la cultura
della giurisdizione che ci guida è quella pervasiva sopra detta – un costo che chiunque
deve mettere nel conto di dover affrontare prima o poi nella vita
– il termine per definire questo evidente giro a vuoto dell’accertamento
giurisdizionale viene del tutto invertito, come si vede. Ecco che dunque, per
chi deve esercitare la giurisdizione intesa in questo modo, risulta più
funzionale che la fattispecie astratta sia abbastanza ampia (al limite
dell’evanescenza), perché ciò consente facilmente di intitolarvi un certo
fatto, e poterne iscrivere la relativa notizia nell’apposito registro, a carico
di qualcuno.
Certo, per effetto di tale
ambiguità concettuale se ne genera inesorabilmente un’altra, e questa volta
però di natura terminologica: perché abolire l’abuso d’ufficio produrrebbe non
già un vuoto di tutela – come pure, a parole, lo si chiama – ma piuttosto un vulnus
alle possibilità di controllo, da parte delle Procure, sull’operato dei
pubblici amministratori.
Sarebbe quest’ultimo,
allora, il risultato che vorrebbe di contro conseguire il riformatore?
Sembrerebbe proprio di si, sicché
anche lui, a dispetto di quel che a parole proclama, in effetti accetta l’idea
che chiunque possa essere sottoposto a procedimento penale perché si accerti se
abbia commesso o meno un reato, e si preoccupa quindi di togliere dal
campo una tra le ipotesi delittuose in cui più facilmente potrebbe incapparsi.
A segnale, però, che neppure da questa parte, ed appunto, il senso della
giurisdizione (penale) sia esattamente quello che vorrebbe la nostra Carta
Costituzionale (artt. 24, 25, 27, 111, 112, etc.).
Le parti che si
contrappongono. –
Entrambi i contraddittori si
intestano comunque propositi di stampo liberale. Eppure non sono minimamente
d’accordo. Com’è possibile?
Si osserva in effetti che la
schiera degli oppositori risulta guidata da quegli stessi giuristi (magistrati
e accademici) distintisi in questi anni, piuttosto, per aver dato o preteso di
dare sostegno giuridico a concezioni del diritto e della procedura penale
alquanto illiberali, come ad esempio quella di abolire la prescrizione (portata
a termine), o di consentire la reformatio in peius in appello (non
ancora riuscita). Stride dunque un po’ con il principio di non contraddizione
che proprio costoro si propongano invece oggi come paladini del cittadino,
dichiarandosi preoccupati di volerlo proteggere dagli abusi che contro di lui
potrebbero essere consumati da rappresentanti dello Stato, ossia da quello
stesso Stato che si vorrebbe tuttavia abbastanza autoritario (e perché no,
anche un po’ prepotente) quando amministra Giustizia.
Con pari stonatura
finalistica, del resto, chi propone la riforma si proclama mosso dall’intento
di recuperare il sacrosanto principio di determinatezza in materia penale,
nonché lo spirito accusatorio con cui era stato disegnato in origine il nostro
processo.
Il principio di
determinatezza però – vien subito da rilevare – avrebbe più costrutto
invocarlo ove si trattasse di configurare una nuova fattispecie di reato, non
tanto quando se ne volesse eliminare una. Con un simile movente infatti,
l’argomento si presta alla facile obiezione che, allora, si proceda ad una
migliore definizione del delitto in parola, invece di abrogarlo; oppure a
quella, altrettanto facile ma ben più polemica, che si elimini anche, e per
l’identica ragione, l’ipotesi di recentissimo conio di adunanza illegale (art.
633-bis c.p.), ad esempio, parecchio indeterminata, e che si deve
proprio ad una delle primissime iniziative del Ministro della Giustizia
attualmente in carica. Avversare l’indeterminatezza di una fattispecie o
costruirne una assai sfuggente, secondo le occasioni, denota in effetti pur
sempre una fede (forse inconscia) nel principio di autorità (la verità è
quella come tale di volta in volta affermata da chi detiene il potere) più che
in quello dialettico (alla migliore approssimazione della verità può
giungersi solo dopo un confronto serrato tra visioni divergenti).
Quanto al carattere accusatorio
che si vorrebbe far assumere davvero e finalmente al nostro giudizio penale,
non può non rilevarsi che tale connotato attiene semmai al metodo di
accertamento della verità in giudizio, e non c’entri gran chè con la quantità
di reati che debbano essere previsti in un dato momento storico (né, se non
molto alla lontana, con il modo in cui essi siano formulati). Del resto, gli
oppositori alla riforma non sono ispirati affatto da una cultura inquisitoria
della giustizia penale, casomai, come detto, da un malinteso senso dello
scopo del processo.
Le parole che più spesso
ricorrono nel dibattito. –
Anche questo, a dire il
vero, non è un segnale confortante. La scelta delle parole è infatti sempre
illuminante di come la si pensi. Di quale vuoto dicano – o abbiano in
effetti – paura gli oppositori, abbiamo appena visto. Ma anche “evanescente”,
guarda caso, deriva da “vanus”, che significa pur sempre “vuoto”, come
si sa. Qui però è un vuoto che non alluderebbe all’assenza di appigli (horror
vacui), piuttosto è uno spazio dai contorni del tutto indefiniti che
preoccuperebbe proprio perché lo si può riempire a piacere. Dunque, può
cogliersi un ulteriore elemento che accomuna le due posizioni (e i due
linguaggi), e consiste nel pari richiamo ad una paura – una pulsione che è
sempre l’istinto a generare, non la Ragione – che, solo, è evocata in forme
diverse.
Ma fa paura a chi?
A sindaci e amministratori
locali in genere di quasi tutta la penisola – si sostiene – esausti di dovere
convivere con la spada sul collo dell’abuso d’ufficio ogni volta che tocchi
loro di firmare un qualsiasi atto.
Eppure – a quanto sembra – non altrettanto timorosi di dichiararsi
pubblicamente e irrimediabilmente insicuri di non sapere mai prima se, firmando
un atto, stiano violando la legge oppure no: ossia di mostrarsi niente affatto
padroni delle regole (sia pur spesso farraginose, d’accordo) che disciplinano
le materie di cui dovrebbero occuparsi giornalmente. La prima che di solito
calpestano o ignorano – e che in realtà, non pare nemmeno troppo complicata – è
giusto quella che impone agli organi politici di dettare solo le linee di
indirizzo dell’azione amministrativa senza intromettersi nell’assunzione di
atti amministrativi (al di fuori di quelli strettamente loro riservati), e che
assegna invece ai dirigenti il compito esclusivo di emettere questi ultimi,
anche in attuazione dei sopra detti indirizzi (c.d. principio di separazione:
mi sia perdonata la pedanteria). Se solo la rispettassero, non potrebbero mai
rischiare di commettere alcun abuso d’ufficio. La “firma”, infatti, si mette
solo negli atti amministrativi.
In effetti, com’è stato già
segnalato, evocare la paura dei sindaci costituisce tutt’al più una sineddoche,
dacché il reato di abuso d’ufficio può essere commesso da qualsiasi funzionario
pubblico, e quindi non solo dagli amministratori di enti locali, ma anche da
chi appartiene al campo della istruzione pubblica, oppure a quello della sanità
pubblica, della giustizia, e così via.
Pure, in proposito, ci si
guardi da fin troppo facili equivoci. La portata liberale dell’intervento
abrogativo in parola – quale viene ampiamente sbandierata – sarebbe qui a tutto
concedere solo parziale, per non dire assai discutibile. Innanzitutto, ciò che
verrebbe meno sarebbe infatti pur sempre un reato proprio, e dunque
l’alleggerimento del peso dell’autorità rispetto alle libertà individuali
andrebbe a beneficio in questo caso, ed appunto, solo di pubblici ufficiali ed
incaricati di pubblico servizio (che, se pur non comprendono solo i sindaci,
non sono comunque la generalità dei cittadini). Ma soprattutto,
l’abrogazione dell’abuso d’ufficio favorirebbe giusto coloro che, a livello
centrale o periferico, e per ogni articolazione delle materie possibili, sono
comunque espressione della pubblica amministrazione. Vale a dire, andrebbe a
vantaggio di chi ha un potere nelle mani, un’autorità, una supremazia nei
confronti del semplice cittadino.
Gli argomenti degli
oppositori: a) il vuoto normativo. –
Ma prendiamo a questo punto
in esame, come ci compete meglio per mestiere, le argomentazioni più
schiettamente giuridiche avanzate da entrambe le parti: la particolare
fragilità delle quali, si deve subito anticipare, risulta tanto evidente quanto
inaspettata, data la conclamata competenza nella disciplina posseduta da
ciascuno degli attori che si affrontano. Ed è soprattutto questo aspetto,
appunto, che mi lascia perplesso.
Partirei proprio dalla
contrarietà alla riforma manifestata ad esempio dall’attuale Presidente della
ANM (dott. Giuseppe Santalucia), limitatosi invero a lamentare – per esigenze
comunicative, certo, e tuttavia in un modo che finisce per essere niente più
che tautologico – che il comportamento del funzionario pubblico descritto
dall’attuale testo dell’art. 323 c.p. non può non essere considerato grave, e
quindi meritevole di sanzione penale.
Insomma, un rifiuto sine explicatio non troppo dissimile da quello che
soleva opporre il meraviglioso scrivano di Melville al proprio datore di
lavoro: “preferirei di no”.
Uno sforzo argomentativo di
maggior respiro, perché fondato almeno su qualche esemplificazione, lo ha
offerto invece il Procuratore Aggiunto di Roma Paolo Ielo, tra altri. Nel corso
di un’intervista rilasciata il 18 giugno 2023 alla giornalista Giulia Merlo,
sul quotidiano Domani.it (link), l’autorevole pubblico ministero
ha infatti indicato alcuni possibili casi che, pur apparendogli gravi,
diventerebbero a suo giudizio penalmente leciti ove si abolisse il reato di cui
all’art. 323 c.p.:
“… la condotta di un
magistrato, il quale violi consapevolmente la legge per favorire o danneggiare
ingiustamente qualcuno, perché suo amico o suo nemico, riconoscendogli ragione
o torto, commette un fatto grave o no? Un decisore pubblico, che affidi appalti
deliberatamente violando le leggi che impongono gare a un imprenditore perché
suo amico o perché a lui vicino politicamente, garantendogli vantaggi economici
che non gli spettavano e danneggiando altri, commette un fatto grave o no? Un
funzionario di uffici edilizi che violando consapevolmente la legge blocchi la
ristrutturazione di casa di una sua vicina perché la considera sua nemica,
commette un fatto grave o no? Con l’abolizione del reato d’abuso, i fatti non
sarebbero punibili penalmente”.
Si tratta
senz’altro di condotte disdicevoli (forse un po’ meno “grave” appare l’ultima,
ma non è questione di misure, qui). Ma anche senza indulgere – come pure si
dovrebbe – sul principio per cui non ogni condotta che appaia disdicevole debba
necessariamente essere punita penalmente (c.d. sussidiarietà del diritto
penale),
non me la sentirei comunque di convenire che i fatti come sopra esemplificati
non sarebbero punibili in forza di altre norme (e ad essere sincero, se anche
così ritenessi, forse non lo direi apertamente in pubblico, pure in qualità di
avvocato: non sia mai che qualcuno mi credesse…).
È possibile naturalmente che
io mi sbagli, ma nel primo esempio proposto mi pare che la regola di condotta
senza margini di discrezionalità violata dal magistrato sia, a monte, quella
che impone a quest’ultimo, secondo entrambi i codici di procedura, di astenersi
dal trattare una causa riguardante un suo amico o un suo nemico. Il caso
rientrerebbe perciò, già per questo aspetto, sotto la previsione dell’art. 328,
comma 1, c.p., potendo ben sostenersi che quel magistrato abbia
(implicitamente, ma deliberatamente) rifiutato di compiere un atto che doveva
essere compiuto per evidenti “ragioni di giustizia”, e sicuramente “senza
ritardo” (ossia, prima che la causa assegnatagli avesse inizio). Del resto, la
violazione di una regola rigida tra quelle applicate o no da tale ipotetico
giudice per decidere la controversia non la troveremmo mai, per com’è
altrettanto ovvio, essendo l’attività decisoria sempre frutto di molteplici (e
variabili) valutazioni.
Il secondo esempio, per come
sinteticamente (e velocemente) prospettato dal dottor Ielo, si può ritenere
comprenda due possibili casi: che la gara – imposta dalle norme in ragione
della soglia o della tipologia dell’appalto – vi sia stata, ma il funzionario
infedele la abbia illegittimamente indirizzata verso la vittoria del suo
conoscente; oppure che nessuna gara sia stata in concreto bandita, l’ufficiale
procedente avendo proceduto ad affidamento diretto dell’appalto all’amico,
nonostante l’importo, o il tipo di appalto, non lo consentissero. Ebbene, nella
prima eventualità vedrei chiaramente un turbamento dell’incanto, di cui si è
alterato il normale svolgimento, sicché l’ipotesi ricadrebbe (quanto meno)
sotto la specifica disposizione di cui all’art. 353 c.p. La seconda evenienza,
invero assai meno probabile della prima (perché implicherebbe di necessità il
concorso o quanto meno la connivenza non solo di tutti i componenti
dell’ufficio cui sia assegnato il procedimento, ma anche di quelli degli uffici
di ragioneria addetti al controllo preventivo della regolarità contabile e
amministrativa per approvare la spesa), deve comunque indurci a considerare che
un favore di tale enormità non è ragionevole immaginare che il funzionario
pubblico possa arrischiarsi a farlo per mera simpatia nei confronti
dell’imprenditore favorito, ossia senza ricevere (o pretendere) nulla in cambio
da parte di quest’ultimo: sicché – ed è questo, a mio giudizio, il punto
essenziale – il caso ricadrebbe tra le ipotesi (ben più gravi) di corruzione.
L’esperienza (negativa) insegna, è vero, che favori simili vengono ripagati a
distanza di tempo, rimanendo l’imprenditore avvantaggiato “debitore” del
pubblico ufficiale; ma l’invio di un “cadeau” subito dopo
l’aggiudicazione immeritatamente ottenuta – il biglietto omaggio per una
partita di calcio, un orologio di pregio, ecc. – segue almeno altrettanto quasi
sempre.
Anche il terzo esempio
proposto, infine, è difficile che integri (solo) un abuso d’ufficio. Poiché
infatti l’esercizio del potere di sospensione dei lavori (previsto, com’è noto,
dall’art. 27, comma 3, t.u. n. 380/2001) presuppone il compiuto accertamento da
parte dei funzionari del comune che l’opera in corso violi una legge, o le
prescrizioni o le modalità stabilite per l’esercizio della relativa attività
edilizia, l’uso intenzionalmente illegittimo di tale potestà non può che
consumarsi mediante una falsa attestazione (dello stato dei luoghi o del
contenuto di una perizia, o delle prescrizioni dettate da altra autorità di
tutela, e così via): il caso ricadrebbe pertanto in una (o più) falsità in atto
pubblico. Se poi la pretesa violazione edilizia che abbia funzionato da
pretesto per la disposta sospensione dei lavori fosse una di quelle sanzionate
anche penalmente, il funzionario avrebbe dovuto per ciò stesso trasmettere la
relativa informativa alla Procura della Repubblica competente (in difetto
incorrendo nel reato di omessa denuncia), perciò la malcapitata signora del
nostro esempio sarebbe perfino vittima di calunnia (o di simulazione di reato),
e comunque pienamente tutelata dal fatto che nella sua vicenda verrebbe
comunque coinvolta l’Autorità Giudiziaria.
Questi tre esempi, dunque, per quanto mi
è stato possibile contro dedurre, non mi persuadono ancora che l’abrogazione
del delitto di abuso d’ufficio possa determinare un vuoto di tutela tale da
legittimare una pericolosa zona franca per i pubblici funzionari infedeli, a
danno degli amministrati.
Casomai
– ribadisco – mi preoccuperebbe di più venire veramente a scoprire che la
maggior parte dei nostri funzionari e amministratori pubblici sarebbero
tendenzialmente propensi al delitto, oppure, al contrario, tutti poveri diavoli
votati al sacrificio che, se non li si tranquillizzasse con uno scudo penale
per i loro comportamenti, rimarrebbero – come sarebbero stati finora –
sostanzialmente inoperosi (per paura della firma). Ritengo entrambe le
conclusioni, per la mia esperienza, dei veri e propri (e persino pericolosi)
luoghi comuni.
segue: b) Il contrasto con norme
internazionali. –
Ancor
meno solido sotto il profilo giuridico – per quanto certamente assai potente
nell’ingenerare timore (o nel fornire una scusa) – è l’argomento secondo cui
l’eliminazione del reato di abuso d’ufficio rischierebbe addirittura di essere
dichiarata incostituzionale perché in conflitto con la Convenzione di Merida,
avendo ratificato la quale l’Italia si è impegnata a sanzionare penalmente
condotte del genere di quelle fino ad ora previste dall’art. 323 c.p.
In effetti, aderendo alla Convenzione di Merida, l’Italia ha assunto a livello internazionale l’impegno di assicurare copertura penale (soltanto, però) al c.d. abuso di vantaggio, per sé o per altri (v. art. 19, legge di ratifica 3 agosto 2009, n. 116).
Sommessamente rilevo, in generale, che quello della pretesa illegittimità costituzionale di una norma condenda è un tipo di argomento che – al di là di casi ictu oculi evidenti – prudenza imporrebbe di non spendere mai, appunto perché la declaratoria in questione è (altissimo e niente affatto automatico) compito riservato istituzionalmente alla Corte Costituzionale, e chiunque la auspica in genere non solo non ne ha mai fatto parte, ma non può evidentemente farne parte nel momento in cui compie una simile previsione. Ma soprattutto direi che tale argomento non è minimamente appropriato spenderlo proprio in questo specifico caso, dato che si tratterebbe qui – ove venisse adottata – di una norma penale di favore, ed essendo noto ad ogni addetto ai lavori che la Consulta ha ormai da tempo chiarito quali siano i limiti del proprio sindacato riguardo a simili norme. Anzi, proprio di recente e proprio con riguardo all’ultima modifica (restrittiva) intervenuta sul reato di abuso d’ufficio, lo ha ribadito ancora una volta, e in questi inequivocabili termini: “Viene di conseguenza in rilievo il costante indirizzo di questa Corte, secondo cui l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, rimettendo al «soggetto-Parlamento» (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n. 46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004; ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007)” (così, C. Cost., 18 gennaio 2022, n. 8). Ora, la Convenzione di Merida – come tutte le convenzioni internazionali – obbliga gli Stati firmatari ad adempierla “in modo compatibile” con la loro, invalicabile, sovranità (art. 4 della legge di ratifica 3 agosto 2009, n. 116). Sicché, essendo appunto prevista nel nostro ordinamento costituzionale una riserva di legge in materia penale, l’allineamento della nostra legislazione ai contenuti della Convenzione è un obbligo che ricade sul Parlamento e non può essere adottato, in via sostitutiva, dalla Corte Costituzionale.Meno che mai può dirsi persuasiva l’ulteriore postilla a detto argomento, per cui lo stesso testo di cui all’art. 19 della Convenzione di Merida anche la Comunità Europea avrebbe in programma (a breve) di adottarlo, come direttiva rivolta agli stati dell’Unione: sicché depenalizzando l’abuso d’ufficio, l’Italia si metterebbe poi a rischio di una procedura di infrazione.Si tratterebbe dunque di un rischio che verrebbe in essere a condizione che si verificasse prima una certa eventualità: un rischio a catena, in sostanza. L’argomento è comunque inaccoglibile, dacché oltre al fatto che la temuta direttiva ancora non esiste (né francamente ne vedrei l’utilità, essendovi appunto già la Convenzione ONU firmata a Merida da più di 180 Paesi, tra cui il nostro), proprio una “direttiva” europea in materia penale è ben noto che per l’Italia non sarebbe affatto vincolante, né sulla base del trattato istitutivo né per la nostra carta costituzionale. Per come risulta articolata, peraltro, la proposta di direttiva in parola appare contraddire su più punti persino la stessa Carta europea, contenendo ad esempio anche la previsione – che equivale ad una inammissibile presunzione di colpevolezza, in contrasto con l’art. 48, comma 1, della CEDU – che ogni persona soltanto accusata di corruzione non possa candidarsi a nessuna elezione interna. Coltiverei per parte mia di più la speranza, quindi, che tale direttiva alla fine non venisse adottata dall’Unione. Ma al netto di ogni considerazione su chi e a che cosa davvero vincolino le superiori disposizioni internazionali (esistenti o paventate), a voler comunque affrontare il tema sollevato dall’obiezione che le richiama, il punto rimane, mi pare, il medesimo di quello precedentemente emerso: ossia, se le altre norme penali diverse da quella di chiusura di cui all’art. 323 c.p. siano in grado o no, nel nostro ordinamento, di punire ogni condotta riconducibile alle ipotesi di abuso d’ufficio (o quanto meno a quelle di abuso di vantaggio).
Qui,
invero, si finisce comunque per ritornare. E lo dimostra proprio l’ultima
obiezione avanzata da chi è contrario alla riforma, ossia che l’abrogazione
dell’abuso d’ufficio non farebbe comunque venire meno nei sindaci la paura
della firma, dacché essi sarebbero in ogni caso esposti a denunce per gli altri
reati contro la pubblica amministrazione, che prevedono pene anche più gravi
rispetto a quella di cui all’art. 323 c.p.. Un simile rilievo
finisce evidentemente per contraddire proprio la ragione di partenza avanzata
nell’opporsi: se infatti pur abolendo l’abuso d’ufficio i sindaci dovrebbero
comunque avere paura di incappare in una (persino più grave) contestazione di
concussione o di corruzione, allora si sta ammettendo che eliminare la
fattispecie in parola non produrrebbe nessun vuoto di possibile intervento da
parte della magistratura inquirente, sì da lasciare scoperte ampie zone di
illegalità e di malaffare.
Le ragioni di chi propone l’abolizione. –
Né invero migliore esercizio
persuasivo, sul versante opposto, hanno finora offerto i promotori della
abrogazione in parola, i quali hanno invero scelto di esordire protestando
proprio, in chiave tristemente autoritaria, che i magistrati (o meglio i
rappresentanti di essi) non dovrebbero permettersi di criticare le leggi, così
come i politici non dovrebbero permettersi di criticare le sentenze.
Anche a voler sorvolare sul
dato che non si tratterebbe di critiche rivolte ad una “legge”, perché
tale essa ancora non è,
non può comunque evitarsi di rilevare che entrambe le proposizioni sono
invero profondamente errate (e rattrista già il solo fatto di averle sentite
pronunciare da chi faccia parte del Governo del Paese, e ha quindi giurato
fedeltà alla Costituzione). Se c’è infatti una regola fondamentale su cui si
costruisce un ordinamento democratico – e il nostro così è costruito –
questa è proprio quella di riconoscere a chiunque la libertà di manifestare il
proprio pensiero, soprattutto – aggiungerei anche – se difforme rispetto ad una
posizione, in un certo momento storico, predominante. Criticare, sollevare
dubbi, formulare rilievi, è giusto un esercizio di pensiero, non è mai
l’esercizio di un munus che competerebbe ad altri. E serve sempre tenere
conto delle critiche, delle visioni contrarie, per migliorare le scelte da
prendere (o per verificare la resistenza di quelle già prese).
Poiché però questa
fondamentale libertà consiste appunto nel poter “manifestare” ciò che pensiamo,
affinché essa non rimanga vuota o fine a sé stessa è indispensabile che il
nostro pensiero sia sorretto da argomenti, risultando invece del tutto inutile
se si ferma sulla soglia di un mero dissenso: perché non potrà essere in alcun
modo considerato ed eventualmente tenuto in conto. Opponendosi e basta, in
sostanza, ritengo si invochi a sproposito l’art. 21 della Costituzione.
Anche argomentando male,
però – ed è questa l’implicazione inevitabile della democrazia come metodo
– si finisce per non convincere, e per dare quindi forza alla tesi contraria.
Ora, i
sostenitori della riforma abolitiva – come anticipato – hanno scelto di porre
soprattutto l’accento sulla enorme sproporzione registratasi negli ultimi
decenni tra il numero di procedimenti avviati sotto il titolo dell’art. 323
c.p. e quello (percentualmente minuscolo) delle decisioni di condanna avutesi.
Al netto di ogni possibile obiezione circa la esattezza o l’interpretazione di
tali cifre,
deve dirsi che un rilievo di tipo numerico è in realtà, ed appunto, solo la
fornitura di un dato, non è un argomento. E questo dato, in particolare, non
pare neppure gran che persuasivo, di per sé. Espresso solo nella sua crudezza
aritmetica sembrerebbe infatti voler alludere alla conseguenza che debbano
essere mantenuti in vita solamente quei reati che tali risultassero sentenziati
con una certa frequenza. Che sarebbe naturalmente un’idea balzana.
Nel solco della
tradizione liberale. –
Mi sarebbe piaciuto, lo
confesso, sentirne esprimere magari un’altra. Ossia che, come spiegava Cesare Beccaria
a fine settecento, è già l’avvio di un procedimento penale a costituire una
punizione per la persona, e che tale pena risulterà del tutto immeritata ove
egli dovesse essere poi persino assolto. Oltre ad essere, ogni assoluzione, un
costo inutile per il sistema. Mi avrebbe senz’altro persuaso di più, allora, un
ragionamento del genere: a fronte di detti ingenti svantaggi (per le casse
dello Stato e per la credibilità della Giurisdizione), se pure abolendosi una
singola fattispecie risultata poco incline a giungere ad una condanna si
dovesse lasciare un residuale vuoto di tutela, tale prezzo sarebbe comunque
ragionevole pagarlo.
Tuttavia, ogni tesi che si
basi su una comparazione tra costi e benefici deve essere sottoposta ad un
calcolo quanto più esatto possibile, e degli uni e degli altri. Viceversa si
rischia di incorrere in errori cognitivi che, di solito, producono poi
conseguenze irrimediabili nel predisporre le soluzioni. Appare indispensabile
quindi acquisire innanzitutto il dato se davvero un vuoto di tutela si verrebbe
a determinare abolendo l’abuso d’ufficio, e, se del caso, in quali specifiche
condotte esso consisterebbe.
Il modo più immediato per
compiere una verifica del genere, credo, sia quello di esaminare analiticamente
le fattispecie concrete per cui, sia pur in pochi casi come si dice, si è avuta
nel nostro ordinamento una condanna definitiva per il solo reato di abuso
d’ufficio. In sostanza si tratta di ricostruire, nella stessa ottica
meritoriamente assunta dal dottore Ielo, tutti gli ulteriori esempi che la
pratica ha generato oltre quelli da lui di necessità velocemente indicati,
offrendo così più esaustiva e numerica risposta al quesito se vi siano
condotte, e quali siano, che, abolendo hoc criminem, rimarrebbero
certamente senza la tutela penale che fino ad oggi avrebbero invece avuto.
Trovate eventualmente le
quali, sarà poi una questione di bilanciamento. Spetta – questa sì – unicamente
al potere Legislativo affrontarla, dacché andranno valutati e soppesati
vantaggi e svantaggi derivanti dal lasciare nell’ordinamento una figura di
reato destinata (in ipotesi) a punire condotte molto residuali (solo in questo
caso il Parlamento non violerebbe l’art. 19 della Convenzione di Merida), e che
tuttavia consentisse eventualmente, prima facie, di aprire un
considerevole numero di procedimenti penali.
Il vero terreno di confronto
sembrerebbe, alla fine, essere in effetti proprio questo. E, se tale è, esso
finisce evidentemente per riguardare anche, e più a monte, l’equilibrio – o il
riequilibrio – tra due poteri dello Stato, quello giurisdizionale (o meglio, la
componente di quest’ultimo addetta alla direzione delle indagini penali) e
quello esecutivo. L’abuso d’ufficio è infatti una chiave – un passepartout,
com’è stato definito – che attribuisce alle Procure il potere di aprire
procedimenti penali contro funzionari pubblici in presenza di una qualsiasi, e
meramente ipotizzata, violazione di legge. Essendo stata usata questa chiave
(da taluno si ritiene) con troppa disinvoltura – come dimostrerebbero le
numerosissime indagini chiamate “ad orologeria” – quell’equilibrio appare
essersi da tempo spezzato, sicché adesso il potere più schiettamente “politico”
sentirebbe la necessità di rimetterlo a bilancia. Per distogliere il pubblico
amministratore dai suoi compiti o dai suoi propositi elettorali è infatti
sufficiente aprire un procedimento penale contro di lui, il clamore mediatico
che ne consegue facendo il resto.
Conclusioni. –
Ho però delle riserve anche
riguardo a questo modo di guardare alla questione.
La morbosa caccia al
politico indagato è senz’altro una patologia, ormai persino cronica, del nostro
sistema, ma mi pare sia fuorviante, e comunque inutile, additare come
responsabili della diffusione di tale morbo – sia pur solo – alcuni Procuratori
(e certamente non la maggior parte di essi). Non c’è invero bisogno di
immaginare una mala fede dei pubblici ministeri nell’aprire indagini “ad
orologeria” per abuso d’ufficio, proprio perché esiste una norma come quella
dell’art. 323 c.p., e quindi ogni Procuratore della Repubblica non può esimersi
dall’iscrivere nel registro delle notizie di reato qualsiasi esposto
che riguardi un pubblico funzionario e che richiami la violazione di detta
disposizione. Personalmente, peraltro, non ho mai avuto la sventura di
constatare con certezza una premeditazione malevola del genere da parte dei
magistrati inquirenti, sicché alla stessa, in generale, non sono disposto a
credere.
A dire le cose come stanno,
se si vuole, l’art. 323 c.p. è stato usato finora (fin troppo) facilmente come
“chiave”, non già dai pubblici ministeri, ma piuttosto dagli avversari politici
di questo o quel personaggio da colpire, semplicemente presentando appunto una
denuncia (ad orologeria, certo) contro di lui. Questo, almeno, mi indica la mia
– oramai, ahimè, non troppo breve – esperienza.
Ora, se il tema fosse stato
apertamente affrontato in questi termini, l’idea di togliere dall’ordinamento
questa “chiave” che consente di presentare (anche pretestuosi) esposti “a
tempo”, sarebbe apparsa una soluzione – per quanto indotta da una disfunzione,
tuttavia – non irragionevole a cui pensare di mettere mano. Una rimodulazione
della fattispecie di abuso d’ufficio si presterebbe invero allo stesso distorto
utilizzo. Come dimostra la immutabile casistica registratasi negli anni,
sebbene l’art. 323 c.p. sia stato riformulato già ben tre volte a partire dal
1930. E certamente non è in grado di limitare le iscrizioni di ogni esposto che
evochi un abuso d’ufficio la nuova norma introdotta dalla c.d. legge Cartabia,
che con formula invero degna di Monsieur de la Palisse, prescrive semplicemente
che la notizia di reato da iscrivere debba contenere: “…la rappresentazione
di un fatto determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie
incriminatrice” (art. 335, comma 1, c.p.p., nuovo testo).
E però, se così si guarda al
problema, abrogare la fattispecie in parola non appare affatto l’unica
soluzione possibile, anzi sicuramente non è quella che investirebbe
direttamente la causa del problema stesso.
La causa del quale non sta
in effetti né nella paura dei sindaci né nell’esistenza in sé dell’art. 323
c.p. (vi sono infatti tanti altri reati, nel nostro ordinamento, previsti con
“norme di chiusura”, e quindi con formule ampie). Sta invece nel fatto che
dell’apertura di un procedimento di questo tipo, nei confronti di una persona
esposta, si sappia subito. La causa risiede, quindi, nel clamore mediatico che
immediatamente si scatena.
Che però non dovrebbe
affatto scatenarsi.
Ritengo allora che potrebbe
senz’altro tralasciarsi, per ora, se e come intervenire sul reato di abuso
d’ufficio, impegnandosi piuttosto ad evitare davvero, e con strumenti
sensibilmente più efficaci, la diffusione della notizia dell’avvio di un
procedimento penale a carico di qualcuno, anche – anzi soprattutto – se
personaggio di rilievo pubblico. Arrivo persino ad immaginare la possibilità
(per accondiscendere, sia pur di malavoglia, allo “spirito” della c.d. legge
Severino) che della conclusione delle indagini a carico di una persona
impegnata in politica si obblighi il Pubblico Ministero a informarne,
riservatamente, il partito di cui quegli eventualmente faccia parte, affinché
quest’ultimo, secondo le sue regole interne, possa adottare le valutazioni che
dovesse ritenere opportune, esclusivamente politiche, in merito al detto
iscritto.
Si tratta in fondo di una
garanzia basilare, da sempre posta (anche se non solo) a presidio della
presunzione di non colpevolezza, non certo di un bavaglio alla stampa. E ciò non
solo perché il divieto di pubblicizzare notizie relative a procedimenti ancora
in fase di indagine (e per cui non sia stata emessa un’ordinanza di custodia
cautelare) già esiste, e da tempo (per quanto in pratica soltanto sulla carta,
nonostante siano notizie riguardanti il contenuto di atti coperti anche, e per
legge, da segreto). Ma soprattutto perché il diritto di cronaca non comprende
di certo il diritto di informare i lettori di fatti che, dal punto di vista
della Giustizia, ancora fatti non è stato accertato che siano (e tanto
meno di esiti di indagine, che in un processo appunto accusatorio, diverranno
prove, eventualmente, solo a seguito di un contraddittorio svoltosi davanti a
un giudice).
In questo modo soltanto,
ritengo, si può togliere davvero di mano quella chiave a chi potrebbe essere
tentato di usarla per ben altri scopi. Ma è una questione – mi rendo
perfettamente conto – più culturale che giuridica.
(*) Luigi Tramontano: avvocato del Foro di Palermo dal 1998, iscritto all’Albo dei Cassazionisti
dal 2010 e socio di Camera Penale di Trapani, ha collaborato, per diversi anni, con la rivista “Il Foro
Italiano”, sezione penale, sotto la direzione del Prof. Giovanni
Fiandaca, pubblicando diverse note a sentenze e
una decina di articoli.
Dal
1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la
Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione
di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la
Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università
di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo quello
organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso
l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo
“La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facoltà di
giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo
“Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la
vicenda Diciotti”.