Sezioni

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29 aprile 2022

L'aspecificità dei motivi è causa di inammissibilità dell'appello.


 

Con recente arresto la Corte regolatrice (Sez. 4 Num. 15204 Anno 2022 data udienza: 07/04/2022, sentenza al link ) ha confermato la pronuncia della Corte di appello di Palermo con cui era stato dichiarato inammissibile, per aspecificità, l'appello dell'imputato, che aveva riportato condanna per furto dacché aveva realizzato un allaccio abusivo in un immobile occupato sine titulo

Nel caso di specie la Corte territoriale ha dichiarato l'appello inammissibile perchè il prevenuto, adducendo l'inesistenza di una prova certa della sua responsabilità, pur a fronte di elementi probatori assai preganti, tra cui la confessione dell'imputato, aveva del tutto ignorato le risultanze dibattimentali.

Analogamente per la Corte distrettuale, il motivo di censura con cui si invocava lo stato di bisogno non si confrontava con le risultanze della prima sentenza.

Avverso la sentenza il difensore dell'imputato interponeva  un motivo unico di ricorso, con il quale  deduceva <<inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità, inutilizzabilità, nullità o decadenza, sia in relazione al motivo con il quale si era invocata l'assoluzione dell'imputato, che avuto riguardo alla censura con la quale si era invocato lo stato di necessità>>. 

Nel dichiarare la inammissibilità del ricorso, la Corte ha osservato che  <<in linea generale, deve dirsi ormai definitivamente chiarito che l'appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell'impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato [cfr. Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016 Cc. (dep. 22/02/2017), Galtelli, Rv. 268822, richiamata anche nel provvedimento censurato]>>.

Nel caso di specie, per la Corte di cassazione il giudizio di inammissibilità del giudice distrettuale era immune da censure poichè <<la Corte territoriale ha rilevato il vizio di aspecificità dell'appello, partendo dalla dirimente considerazione che il gravame non rassegnava alcuna critica effettiva rispetto alle ragioni della decisione contestata, del tutto pretermesse nell'esposizione difensiva ed era come tale inidoneo a instaurare il contraddittorio nel giudizio di impugnazione>>.

 

27 aprile 2022

Questione Bajrami: la soluzione del Tribunale di Ragusa. Da Dasgupta e Patalano a Bajrami: la modifica della composizione di un collegio giudicante non comporta nullità della sentenza. Stravolto il senso dell’art. 525 c.p.p. - di Michele Sbezzi (*)

 


Ci eravamo già occupati dell'eccezione c.d. Bajrami, divulgando il documento della Camera Penale di Trapani (al link).

Diamo adesso notizia di una questione che su quella falsariga è stata eccepita ed è stata accolta dal Tribunale di Ragusa. A seguire pubblichiamo il commento dell'Avvocato Michele Sbezzi.

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Da Dasgupta e Patalano a Bajrami: la modifica della composizione di un collegio giudicante non comporta nullità della sentenza. Stravolto il senso dell’art. 525 c.p.p.

Resta però inopportuno che alla decisione finale partecipi chi non ha avuto contatto diretto con le fonti di prova.

Ordinanza del Tribunale di Ragusa nel proc. penale 1509/18 RGNR. Udienza dell’1.4.22

Di Michele Sbezzi (*)

Com’è noto, il codice di rito penale impone, purtroppo ormai solo formalmente, il rispetto della immediatezza della deliberazione, pretendendo tanto che non vi sia soluzione di continuità tra conclusione del dibattimento e redazione della sentenza, quanto imponendo che quest’ultima sia redatta esclusivamente dai giudici che hanno partecipato al dibattimento.

La ratio che anima il duplice principio in esame sembra del tutto evidente:

1) appena terminato il dibattimento, il giudice ha un ricordo più fresco della massa di dati da utilizzare e delle sottolineature offerte dalle parti; non rischia di perdere gli uni e le altre se evita di impegnarsi in altri dibattimenti, nei quali andrebbe a incamerare altri dati e altre sottolineature tra cui dovrà discernere ciò che gli serve per decidere un processo da ciò che gli serve per l’altro;

2) la sentenza è frutto dell’istruttoria dibattimentale; è quindi logico che a redigerla sia chiamato solo chi a quell’istruttoria ha partecipato, traendone sensazioni e convincimenti che non possono derivargli dalla semplice e arida lettura di verbali, peraltro spesso zeppi di errori, di frasi sconclusionate, di parole incomprensibili.

Entrambi tali principii dovrebbero apparire irrinunciabili perché di grande civiltà giuridica, espressione di massimo rispetto della presunzione di innocenza che va superata solo quando nessun dubbio ragionevole residui a contrastare il convincimento di colpevolezza.

Eppure, entrambi tali principii sono stati sostanzialmente superati, se non cancellati, da una giurisprudenza certamente autorevole (per la caratura di chi la esprime) che ha mirato e mira, però, più alla miglior organizzazione del lavoro che alla qualità delle decisioni.

E’ esperienza giornaliera di ogni Avvocato che il giudice si ritiri in camera di consiglio per deliberare, tutte insieme, le decisioni incamerate nel corso della giornata di udienza. Così come esperienza comune, illogica e contraria alla lettera dell’art. 525 c.p.p., è ormai l’interpretazione secondo cui la sentenza può ben essere redatta anche da chi al dibattimento non ha partecipato affatto. La nullità assoluta che dovrebbe presidiare la norma viene bellamente superata da una pretesa di ragionevolezza della durata del processo che, però, stravolge tanto il senso della stessa ragionevolezza quanto l’evidente differenza che c’è tra ascoltare la deposizione di un teste e leggerne il resoconto stenografico. Ma tant’è …

Come si arrivati a tutto ciò?

La soluzione di continuità tra dibattimento e redazione della sentenza discende direttamente da un’esigenza, sentita però solo dai giudici, di ottimizzazione dei tempi dell’udienza: andare in camera di consiglio solo una volta, al termine di tutte le attività, sembra garantire un minor tempo di permanenza e, forse, una più breve durata della giornata di lavoro.

Quanto alla possibilità che la sentenza sia redatta da chi è rimasto estraneo al dibattimento, va fatta una breve cronistoria.

La sentenza Marchetta, (2° sezione penale della Corte di Cassazione – 20 giugno 2017, n. 41571/17) ha esaminato il caso di una condanna di primo grado riformata in appello sulla base di una rilevata contraddittorietà della prova sull’elemento soggettivo. Con diffusa motivazione, la Corte ha sottolineato e confermato l’assoluta necessità che il giudice dell’appello, per ribaltare la sentenza di primo grado, deve profondersi in una “motivazione rafforzata” in applicazione del noto canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Afferma la Corte che, in caso di ribaltamento della prima decisione, il giudice dell’impugnazione deve “scardinare l’impianto argomentativo-dimostrativo della decisione assunta da chi ha avuto contatto diretto con le fonti di prova.”

Con ciò, la Corte ha anche affermato e sottolineato che la partecipazione al dibattimento conferisce al primo giudice consapevolezza e conoscenza dei fatti che il giudice dell’impugnazione, non partecipando all’istruttoria, non può avere.

A conclusione conforme era già giunta la CEDU quando affermava (5.7.2011 Dan Moldavia) che il giudice, il quale valuti diversamente dal precedente l’attendibilità di un testimone, deve poterlo ascoltare direttamente.

Stiamo trattando del principio di immediatezza tra assunzione della prova e sentenza in un rapporto privo di intermediazioni, secondo il quale il giudice che voglia correttamente valutare l’attendibilità del teste deve avere con lui un contatto diretto.

Per questa via si è giunti, in Cassazione, ad affermare l’obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria nei casi di modifica della persona del giudice, da eseguirsi risentendo i testi già escussi.

La sentenza in esame fa chiaro riferimento alla sentenza Patalano (SSUU, n. 18620 del 19.1.2017), che a sua volta aveva scolpito su pietra, in poche frasi, il portato dell’art. 525 c.p.p.:

“la percezione diretta è presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa. L’apporto informativo che ne deriva è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova.”

Il canone <<oltre ogni ragionevole dubbio>> assume veste di criterio generalissimo del processo penale, direttamente collegato alla presunzione di innocenza.”

Va fatto ricorso al metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile.”

Ancor prima, con la nota sentenza Dasgupta, le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano affermato l’obbligo di motivazione rafforzata in capo al giudice dell’impugnazione che operi un overturning, nel particolare caso in cui una condanna venga riformata in senso assolutorio. Nella sentenza in argomento, la Corte ha operato un ragionamento approfondito che riguarda il principio di legalità e la funzione del magistrato, dati per i quali qualsiasi ribaltamento della sentenza impugnata pretende una motivazione rafforzata come conseguenza del solito, e fin lì indiscusso, principio per il quale la sentenza resa dal giudice che ha avuto contatto diretto ed immediato con la fonte di prova diviene per ciò solo più autorevole; il suo ribaltamento non può dunque prescindere dalla necessità di esaminare punto per punto ogni passaggio, per contestare – fino a scardinarlo – il convincimento di fondatezza, attendibilità e credibilità della fonte di prova. L’ovvia conseguenza dell’obbligo di rinnovazione della prova mediante nuova audizione del teste già esclusso veniva a confermare il principio espresso dal 525 cpp e munito di sanzione di nullità assoluta.

Sempre nello stesso senso va rammentato che la Corte di Strasburgo ebbe ad affermare che esaminare la questione della colpevolezza o dell’innocenza non è possibile se non valutando direttamente la prova. “La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante la semplice lettura delle sue parole verbalizzate”.

E’ peraltro principio sempre accolto dalla giurisprudenza, almeno fino a qualche tempo fa, quello secondo cui il diritto all’ammissione della prova avanti il giudice che sarà chiamato a decidere è uno degli aspetti essenziali del modello accusatorio, espresso dal codice che conosciamo ed il cui stravolgimento non possiamo che contestare come illogico e potenzialmente dannoso. A sottolinearlo, la Cassazione ha più e più volte affermato l’obbligo di rinnovazione della prova orale come fondato sull’opportunità di mantenere un rapporto diretto tra giudice e prova, rapporto che non può essere assicurato dalla lettura dei verbali.

Anche la Corte Costituzionale (ordinanza 205/2010) ha chiaramente affermato che il giudice deve cogliere tutti i connotati espressivi, anche non verbali, prodotti dal metodo dialettico dell’esame e controesame. E che ciò può fare solo partecipando direttamente all’escussione del teste.

Purtroppo, tutto quanto abbiamo argomentato finora è stato superato dalla nota sentenza Bajrami (SSUU 41736/2019), dalla cui lettura traiamo preoccupazione e sgomento.

L’antefatto della decisione riguarda un annullamento in appello di sentenza redatta da chi ha partecipato all’intera istruttoria senza però partecipare al momento dell’ammissione delle prove richieste dalla parti. La sentenza ora in commento nasce dall’esigenza di chiarire se la modifica della composizione del giudice, determinatasi dopo l’ammissione delle prove, possa comportare l’obbligo di rinnovazione dell’intero dibattimento.

Bajrami, stravolgendo tutti i principi fino a quel momento espressi dalla Suprema Corte, non giunge a dichiarare che la rinnovazione dell’istruttoria non occorra, bensì che essa deve esser richiesta da chi aveva regolarmente e tempestivamente proposto lista testi. Da ciò fa discendere che la rinnovazione – nel caso muti la composizione del giudice – non è strettamente obbligatoria; e, quindi, che la nullità assoluta postulata dalla norma che ben conoscevamo non è conseguenza necessaria ed automatica. Infatti, argomentando dalla necessità che la rinnovazione istruttoria debba essere espressamente chiesta, giunge ad affermare che, così come dispone l’art. 468 c.p.p., esiste un termine decadenziale per la richiesta, che in essa va indicato quale prova debba rinnovarsi e per quale motivo; e, infine, che la richiesta può ben essere respinta dal giudice.

In buona sostanza, con ciò si è cancellato un caposaldo del principio di legalità, del diritto alla prova nonché della logica ferrea che anima il principio secondo cui ascoltare il teste non è paragonabile a leggerne le parole trascritte a verbale.

Al momento, dunque, la sentenza redatta da chi non ha partecipato al dibattimento non è più affetta da nullità assoluta.

Capita, però, che giudici di merito la pensino diversamente e decidano quindi di usare meglio il tempo a loro disposizione per giungere alla conclusione del processo.

Così il Tribunale di Ragusa nel procedimento penale 1509/18 RGNR, all’udienza dell’1 aprile 2022.

In occasione di quel processo, si è determinata la temporanea assenza di uno dei magistrati che avrebbero dovuto comporre il collegio giudicante. E quindi la sua sostituzione.

Si prevedeva peraltro che il magistrato in questione sarebbe rientrato prima della udienza successiva e sarebbe tornato a comporre il collegio; in buona sostanza, l’organo giudicante avrebbe dovuto esser modificato due volte.  L’istruttoria sarebbe stata condotta da magistrati diversi, alcuni dei quali avrebbero infine concorso a redigere la sentenza.

A ciò uno dei Difensori si è riferito per eccepire la violazione del disposto dell’art. 525 cpp nell’interpretazione che riteniamo più corretta e che prevede una nullità assoluta.

Si è dunque eccepito che le sentenze a sezioni unite Dasgupta e Patalano danno chiaro il quadro di un’interpretazione assai più convincente di quella espressa nella Bajrami. Che la Suprema Corte, con la sentenza Marchetta, aveva riaffermato l’obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria e che anche Corte Costituzionale e CEDU si erano più volte espresse in tal senso.

Il Collegio, pur preoccupandosi di sottolineare che l’interpretazione fornita da ultimo dalla Suprema Corte avrebbe reso legittimo l’organo giudicante in composizione modificata e consentito una dichiarazione di utilizzabilità degli atti assunti anche in vista della sentenza da emanare, ha purtuttavia ritenuto di dover sottolineare che la complessità del procedimento e la già espletata attività istruttoria prima della modifica della composizione rendevano opportuna la prosecuzione del procedimento in composizione originale.

Con ciò, il Collegio ha certamente evitato di affrontare la irrisolta questione della possibile nullità assoluta della sentenza da redigere, ma al contempo ha affermato il principio che in un procedimento complesso e che occuperà più udienze è opportuno che la composizione del Collegio giudicante non venga modificata. Seppure non sembri dare completa ragione all’interpretazione che con tutta evidenza preferiamo, la decisione assunta dal Tribunale rappresenta comunque un buon compromesso: a parere di quel Tribunale, la composizione di un collegio giudicante può anche subire modifiche senza che ciò comporti nullità della sentenza; ma opportunità vuole che un processo complesso, che duri per più udienze, sia condotto e partecipato sempre dagli stessi componenti del collegio, i quali potranno così avere contatto diretto con le fonti di prova e valutarne più compiutamente l’attendibilità.


Scarica l'ordinanza al link

Scarica la memoria difensiva al link




(*) Michele Sbezzi:
Avvocato del Foro di Ragusa. E' stato Vice pretore onorario dal 1996 al 2004. Ha rivestito il ruolo di Presidente della Camera Penale di Ragusa per otto anni non consecutivi fino al 2021. Attualmente è coordinatore nazionale del LaPEC e Giusto Processo.

26 aprile 2022

La Corte costituzionale scivola verso funzioni legislative


Con la sentenza n. 95/22 (ud. 09.03.2022- dep. 14.04.2022, relatore F. Viganò), la Corte Costituzionale ha dichiarato  <<l’illegittimità costituzionale dell’art. 726 del codice penale, come sostituito dall’art. 2, comma 6, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» anziché «da euro 51 a euro 309>>(sentenza al link). 

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Giudice di pace di Sondrio, sub specie di lesione dell' art. 3 della Costituzione

In particolare il Giudice a quo aveva lamentato che l'attuale sanzione amministrativa prevista per gli atti contrari alla pubblica decenza,  tra 5000 e 10.000 euro (nel caso di specie l'atto consisteva nell' avere orinato in luogo pubblico all’interno del parcheggio di una discoteca) risultasse sproporzionata rispetto a quella prevista per la più grave fattispecie colposa di atti osceni in luogo pubblico, sanzionata, dopo la trasformazione in illecito amministrativo, con una pena pecuniaria compresa tra euro 51 e 309. 

La Corte ha condiviso l'assunto del Giudice di pace, poiché la scelta sanzionatoria operata dal legislatore è risultata <<macroscopicamente incoerente rispetto ai livelli medi di sanzioni amministrative previste per illeciti amministrativi di simile o maggiore gravità>>, quali la perpetrazione (colposa) di atti osceni in luogo pubblico oppure l'aver violato di oltre 60 km orari il limite massimo di velocità consentito, condotta punita con una sanzione amministrativa compresa tra 845 e 3.382 euro.

Ciò posto, quel che rileva sono le considerazioni spese dalla Corte per giustificare la sua scelta sanzionatoria.

I Giudici delle leggi hanno anzitutto osservato che la recente giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto che, una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione,  «non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 62 del 2022), risultando a tal fine sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018).

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la soluzione, suggerita dal remittente, di equiparare la sanzione della condotta di atti contrari alla pubblica decenza a quella prevista per la peculiare ipotesi di atti osceni realizzati per colpa, possa ritenersi costituzionalmente adeguata.

Il dato che interessa gli operatori di ogni ramo del diritto è l'evidente e costante trasformazione del Giudice della costituzionalità delle leggi in una sorta di legislatore         

22 aprile 2022

❌ NOVITÀ SEZIONI UNITE - Regola Dasgupta sulla rinnovazione dell'istruttoria in appello: depositata la sentenza delle Sezioni Unite n. 11586/2022

 





Avevano già dato notizia dell'informazione provvisoria (link).

Pubblichiamo adesso la sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 11586/2022, al link.

I termini della questione, in sintesi:Come avevamo anticipato (link), la V Sezione della Corte di Cassazione aveva rimesso alle Sezioni Unite il seguente quesito di diritto: "Se, in caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive, l’impossibilità di procedere alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa per il decesso del soggetto da esaminare precluda, di per sé solo, il ribaltamento del giudizio assolutorio".

Decidendo sulla questione, le Sezioni Unite (sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 11586/2022, al link) hanno adottato la seguente soluzione: <<La riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso, irreperibilità o infermità del dichiarante. Nondimeno la motivazione della sentenza che si fondi sulla prova già acquisita, deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori - idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio - che il giudice ha l'onere di ricercare e acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all'art. 603 cod. proc. pen.>>.

21 aprile 2022

Da giudice ho conosciuto l'imputato. In carcere ho incontrato l'uomo - di Bernardo (Dino) Petralia (*)




Con il consenso dell'Autore, che ringraziamo, pubblichiamo l'intervista al dott. Bernardo Petralia, già Capo del DAP, di Lavialibera.

L'intervista al link



Bernardo Petralia: entrato in magistratura nel 1980, la sua carriera si è articolata attraverso le tappe che seguono: Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani fino al 1985; Giudice del Tribunale di Sciacca fino al 1990; Giudice del Tribunale di Marsala fino al 1996; Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca fino al 2006; Componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 2006-2010; Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala fino al settembre 2013; Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo fino al luglio 2017; Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria fino al maggio 2020; Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia fino al 1 marzo 2022, data del suo collocamento a riposo. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

20 aprile 2022

Il modello per la presentazione dell'istanza di discussione orale innanzi la Corte di Cassazione

 



Diciamoci la verità: ci siamo tutti un po' confusi a causa dell'avvicendamento della normativa pandemica che obbliga a chiedere la discussione orale della causa.

Al link potrete trovare la raccolta della normativa in materia.

Di seguito, proponiamo invece un modello dell'istanza di discussione orale da presentare, almeno 25 giorni prima dell'udienza, a mezzo pec e con documento pdf nativo firmato digitalmente, alla Corte di Cassazione, utilizzando gli indirizzi che abbiamo indicato al link.

Udienza: ...

Rg. Giudicante:  ... (num ord: ...)

Imputato/i:  ...



ALLA SUPREMA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sezione ... penale


(Collegio ...)

a mezzo pec


Istanza di discussione orale

(ai sensi dell'art. 23 comma 8, quinto periodo, del D.L. 137/2020 convertito in L. 176/2020 e ss.mm.i.. e dell'art. 16 D.L. 228/2021 convertito in L. 15/2022 - in vigore sino al 31 dicembre 2022)



Signori Giudici della Corte,


con inerenza al procedimento indicato in epigrafe nel quale assisto il Signor ... e per l’udienza del ... ai sensi dell'art. 23 comma 8, quinto periodo, del D.L. n. 137/2020 convertito in L. n. 176/2020 e ss.mm.i.. e dell'art. 16 D.L. n. 228/2021 convertito in L. n. 15/2022, formulo istanza di discussione orale della causa.


Allego il decreto di fissazione dell'udienza.


Con riguardo


Lì, la data di spedizione a mezzo pec


Avv.. ...

(firmato digitalmente)


19 aprile 2022

Corte di Cassazione: i servizi pec per i depositi degli atti e gli indirizzi pec per le comunicazioni con la cancelleria


Per il deposito degli atti presso le sezioni penali della Corte di Cassazione, secondo le modalità che abbiamo spiegato al link, utilizzare i seguenti indirizzi pec (vedi foto ed inoltre il documento al link)

Ricordiamo che l'utilizzo attiene alla partizione interna (link) degli indirizzi per il deposito atti rilasciati dal DGSIA (link).

Tutte le utilità sulla nostra pagina dedicata al link

Per le comunicazioni con la cancelleria, diversi dai depositi, utilizzare i seguenti indirizzi pec





16 aprile 2022

Modello 45 e diritto di difesa: un ossimoro? Il video del convegno





Con la partecipazione di oltre 1.200 avvocati e magistrati si è svolto ieri il Convegno della Camera Penale di Trapani, con il patrocinio del Coa di Trapani, dal titolo la "Modello 45 e diritto di difesa: un ossimoro?".

Con la regia de Il tuo Webinar dell'avvocato Samuele Fazzolari, ne hanno discusso il Professor Avvocato Cristiana Valentini e il Procuratore della Repubblica di Trapani, dott. Gabriele Paci, moderati dall'avvocato Daniele Livreri, responsabile di questo blog.

Dopo i saluti dell'avvocato Marco Siragusa, presidente della Camera Penale di Trapani e dell'avvocato Vito Galluffo, presidente del COA di Trapani, i Relatori hanno affrontato tutti gli aspetti, pratici e giuridici.




Al link è possibile il video del convegno.




Alcune foto











15 aprile 2022

Nessuna nullità per l'erronea indicazione del giorno della comparizione, se l'errore è riconoscibile e non suscita incertezze

 

Con la sentenza che si annota (Sez. 4 Num. 13215 Anno 2022) la Corte, dando continuità ad un precedente arresto, ha ritenuto che l'erronea indicazione, contenuta nel decreto di citazione a giudizio, del giorno della comparizione non causa nullità se è pienamente riconoscibile e non sorga alcuna incertezza in ordine alla data effettiva di comparizione (sentenza al link). 

Nel caso di specie nel decreto di citazione a giudizio era indicata quale data di comparizione quella del 13 febbraio 2016, lì dove il decreto era stato emesso ad agosto 2016. Peraltro nel caso di specie l'udienza del 13 febbraio 2017 non si tenne per un impedimento del giudice e fu rinviata d'ufficio al 15 maggio 2017 con provvedimento del 2 febbraio 2017 che, il 9 febbraio 2017, la cancelleria consegnò in copia al difensore di fiducia in proprio e quale domiciliatario dell'imputato. 

  

14 aprile 2022

Non ricorrere una nullità assoluta per l'omessa contestazione al detenuto, prima dell'udienza disciplinare, dell'addebito: è sanabile



Il Tribunale di sorveglianza di L'Aquila, riformando il dictum del Magistrato di sorveglianza,  accoglieva il reclamo proposto da un detenuto che contestava la decisione del Consiglio di disciplina dell'istituto penitenziario, con cui era stata inflitta la sanzione disciplinare dell'esclusione dalle attività ricreative e sportive per giorni tre

In particolare il Tribunale di sorveglianza riteneva violato il diritto di difesa del detenuto, poiché l'addebito disciplinare era stato contestato lo stesso giorno in cui era stato convocato il Consiglio di disciplina.  

Il Ministro della Giustizia interponeva ricorso avverso la predetta ordinanza, lamentando la violazione ed erronea applicazione delle norme che regolano il procedimento disciplinare. Più esattamente il ricorrente adduceva che non è previsto uno specifico termine a difesa tra la contestazione e la vocatio innanzi all'organo di disciplina, essendo <<sufficiente che il lasso di tempo consenta di predisporre una difesa>>. E che nel caso specifico il tempo concesso fosse sufficiente sarebbe desumibile proprio dalla  <<mancata contestazione di un tempo insufficiente per discolparsi, avendo il detenuto soltanto negato l'addebito nel merito>>. Inoltre il Tribunale di sorveglianza avrebbe errato nel ravvisare una nullità assoluta del procedimento, giacché la Suprema Corte con la sentenza n. 30038 del 2020 ha affermato che l' invocata nullità dovesse essere eccepita prima dell'udienza dinanzi al Consiglio di disciplina, cosa che nel caso non si era verificata. 

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 13197 Anno 2022 (sentenza al link ), ha accolto il ricorso.

Al riguardo il Collegio ha sì riconosciuto il diritto del detenuto incolpato a <<disporre di un congruo termine per preparare le proprie difese>>, tuttavia la violazione di siffatto termine non integra una nullità assoluta e pertanto <<la violazione deve essere eccepita dalla parte che abbia patito una lesione delle sue facoltà prima del compimento dell'attività processuale cui essa si riferiva>>. 

Il presupposto degli argomenti dispiegati dalla Corte è che <<la sottoposizione del procedimento disciplinare alle disciplina delle nullità processuale comporta anche l'applicazione delle regole generali dettate in materia di deducibilità delle nullità, tra le quali vanno ricordate le disposizioni dettate dall'art. 182, commi 2 e 3, cod. proc. pen.>>. 

Orbene, v'è da chiedersi se tale applicazione delle regole generali sulle nullità, compresa la rinuncia ad eccepirle, possa prescindere dalla circostanza che nel procedimento penale il quisque de populo è assistito da un difensore. Nel caso di specie è avvenuto altrettanto ? Oppure il recluso cui la contestazione è stata mossa lo stesso giorno del giudizio disciplinare neppure ha potuto consultare un avvocato ? Ove così fosse, dal verbale del collegio di disciplina risulta che qualcuno si è dato carico di informarlo che se avesse ritenuto il termine concesso non congruo avrebbe avuto diritto ad un differimento ?  

 

13 aprile 2022

Successione di leggi penali e tempus commissi delicti, con particolare riguardo ai reati a evento differito, ai reati di durata e al concorso di persone - di Mariangela Miceli (*)


La corretta individuazione del tempo in cui il reato è commesso riguarda questioni sia di carattere processuale, che sostanziale.

Sotto il profilo processuale, il tempo di commissione del reato rileva ai fini della decorrenza del termine di prescrizione ed individua il dies a quo di decorrenza di tale termine.

Sotto il profilo sostanziale, il tempus commissi delicti pone peculiari problematiche nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo e nei reati caratterizzati dalla discrasia temporale fra momento consumativo e momento perfezionativo.

Quanto al rapporto fra tempus commissi delicti e la successione di leggi penali nel tempo, il problema che si è posto è quello degli effetti intertemporali destinati a prodursi in seguito alla successione normativa.

La disciplina generale in materia di successione di leggi penali è regolata da due principi: il principio di irretroattività della legge penale ed il principio di retroattività della legge penale più favorevole.

Il principio di irretroattività della legge penale trova il suo fondamento nell’articolo 2 codice penale e risponde al principio secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.  E’ principio mutuato anche dall’ordinamento sovranazionale (art. 7 CEDU e articolo 49 della Carta di Nizza) di carattere cogente, fondamentale e, soprattutto, inderogabile.

Il principio di retroattività della legge penale più favorevole, invece, trova il suo fondamento indiretto nell’articolo 3 Cost. ed anche dall’articolo 7 CEDU. Nel rispetto del principio di uguaglianza, il principio di retroattività è destinato ad operare nell’eventualità in cui la legge posteriore, rispetto a quella vigente nel momento in cui fu commesso il reato, è più mite. Tale principio, come pacificamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale, non ha carattere inderogabile e l’eventuale deroga è soggetta al sindacato di costituzionalità sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevolezza.

Circa il regime giuridico applicabile nelle ipotesi di successione di norme penali, l’articolo 2 del codice penale, in tema di successione di leggi penali nel tempo, distingue fra l’ipotesi di “mutatio criminis” ed “abolitio criminis”.

La prima ipotesi, contemplata dal comma 4 dell’articolo 2 cp, stabilisce che, nell’eventualità in cui la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

In caso di abolitio criminis invece, il comma 2 del medesimo articolo dispone che se vi è stata condanna per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

Si tratta, quindi, di stabilire se il legislatore, qualora sia intervenuto per modificare il precetto penale, abbia provveduto all’abolitio della norma previgente e all’entrata in vigore di una nuova norma incriminatrice, ovvero abbia modificato il precetto penale, con conseguente applicazione del regime giuridico previsto dal comma 2 o dal comma 4 dell’articolo 2 del codice penale. 

Per stabilire l’applicabilità del comma 2 o del comma 4 dell’articolo 2, secondo una prima tesi, deve aversi riguardo al fatto concreto posto in essere dal reo.

In altre parole, se la condotta punibile nella previgente formulazione della norma è punibile anche a seguito della vicenda successoria, allora si è di fronte ad una ipotesi di successione normativa e si applica il comma 4 dell’articolo 2 cp. Qualora, invece, la riformulazione del precetto priva di rilevanza penale la condotta del reo, allora si tratta di un’abolitio criminis, con conseguente applicabilità del comma 2 del medesimo articolo.

La seconda tesi, invece, accolta dalla giurisprudenza pressoché pacifica, richiede di porre a raffronto, in astratto, le fattispecie penali oggetto di successione.

Si tratta, in definitiva, di stabilire in quale momento il reato è stato commesso.

Una premessa è d’obbligo e concerne la distinzione fra momento perfezionativo dal momento consumativo del reato.

Il momento perfezionativo del reato, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, coincide con il momento in cui il reo pone in essere tutti gli elementi essenziali della fattispecie criminosa.

Il momento consumativo del reato, invece, coincide con il momento in cui termina l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma e cessa l’integrazione del reato.

Da qui la distinzione fra reati istantanei, nei quali momento perfezionativo e consumativo coincidono, e reati ad evento differito e reati di durata.

Il problema che pone l’individuazione del tempus commissi delicti nei reati istantanei non è tanto quello di stabilire quando il reato è stato commesso. Tale verifica appare piuttosto agevole attesa la coincidenza fra momento perfezionativo e consumativo del reato. In tal caso, con l’esaurimento della condotta criminosa perpetrata dal reo, si perfeziona il reato.

Per cui l’individuazione del tempo di commissione del delitto coinciderà con il momento di consumazione della condotta.

Sotto tale profilo, il problema che si è posto è invece quello di verificare gli effetti della successione di norme penali in relazione al reato già perfezionato. Si devono distinguere due ipotesi e cioè il caso in cui il fatto di reato si sia verificato in epoca pregressa o in epoca concomitante l’entrata in vigore della norma penale più favorevole e/o più grave.

Nella prima ipotesi, se il fatto è commesso nella vigenza della norma penale più mite, che è stata poi riformulata dal legislatore e sottoposta ad un trattamento sanzionatorio più grave, allora troverà applicazione il regime giuridico di cui all’articolo 2, comma 4 del codice penale con la conseguenza che il reo sarà sottoposto al trattamento sanzionatorio della norma più favorevole. E ciò trova il suo fondamento anche nel rispetto dei principi di prevenzione generale e speciale atteso che al reo non possono imputarsi le conseguenze sanzionatorie di un reato che, al momento in cui l’ha commesso, erano previste in misura meno grave.

Nella seconda ipotesi, se il fatto è commesso nella vigenza della norma penale che impone l’irrogazione di un determinato trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello che è stato poi successivamente previsto dal Legislatore, allora si rientra nell’ambito di applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole. Il reo sarà sottoposto al trattamento penale più mite mediante un’applicazione retroattiva della norma più favorevole entrata in vigore in epoca successiva alla commissione del fatto di reato, salvo che tale retroattività non sia esclusa da ragioni di politica criminale, sindacabili, come sopra dedotto, nell’ottica del rispetto del principio di ragionevolezza. 

Maggiori sono le problematiche poste con riferimento alle ipotesi in cui la successione di norme penali insista su fattispecie di reato caratterizzate da uno iato temporale fra momento perfezionativo e consumativo del reato.

E ciò si verifica con riferimento ai reati ad evento differito e nell’ambito dei cd. reati di durata.

Con riferimento ai reati ad evento differito, una premessa è d’obbligo. Si tratta di fattispecie di reato nelle quali la condotta, omissiva o commissiva, si è perfezionata in epoca antecedente alla verificazione dell’evento dannoso o pericoloso; evento che può verificarsi, come nell’ipotesi di danni cd. lungolatenti, anche a distanza di molti anni dalla commissione della condotta.

La tematica è destinata ad avere importanti conseguenze anche sul piano processuale, in tema di individuazione del dies a quo del termine prescrizionale, nonché ai fini della competenza territoriale.

Tralasciando la problematica relativa all’accertamento del nesso eziologico fra condotta ed evento differito verificatosi, sul tema della individuazione del tempo di commissione del reato si sono contrapposte due tesi.

La prima tesi, cd. dell’evento, ritiene che nei reati ad evento differito, ai fini della individuazione del tempus commissi delicti, debba farsi riferimento al momento di verificazione dell’evento dannoso o pericolo, traslando, di fatto, il momento perfezionativo in epoca anche molto successiva a quello di integrazione della condotta criminosa.

La seconda tesi, cd. della condotta, ritiene invece che non possa essere assunto a criterio quello della verificazione dell’evento differito ma deve aversi invece esclusivo riguardo a quello della commissione della condotta dannosa e/o pericolosa. La seconda tesi in commento appare più persuasiva nella parte in cui fornisce all’interprete un più agevole e certo criterio di individuazione del tempus commissi delicti.

Con riferimento, invece, ai reati di durata, si deve distinguere fra reati abituali e reati permanenti.


I reati abituali si perfezionano con la reiterazione nel tempo, per un numero di volte determinato, della condotta tipica prevista dalla fattispecie penale. Si pensi al reato di atti persecutori (cd. stalking) previsto dall’articolo 612bis del codice penale che prevede, ai fini dell’integrazione del reato, la reiterazione delle condotte di minaccia o molestia e la verificazione alternativa di uno dei tre eventi previsti dalla norma e cioè un perdurante stato di ansia o di paura, un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, ovvero l’alterazione delle abitudini di vita.

Il tempus commissi delicti va individuato nell’ultima condotta abituali posta in essere dal reo ed offensiva del bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice.

I reati permanenti, invece, si perfezionano nel momento in cui è integrata la condotta prevista dalla fattispecie incriminatrice e si perfezionano nel momento in cui si esaurisce l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma penale. Si pensi all’ipotesi del reati di sequestro di persona previsto dall’art. 605 codice penale. Il reato permane finché la condotta della privazione della libertà personale non si esaurisca.

In tal caso, il tempus commissi delicti va individuato nell’ultima condotta posta in essere prima della desistenza del reo.

Si è posto il problema di stabilire, ai fini della determinazione del tempus commissi delicti in caso di successione di leggi penali, se l’abitualità e/ la permanenza vadano verificate solo tenendo in considerazione le condotte poste in essere dal momento di entrata in vigore della nuova norma incriminatrice, ovvero se vadano considerate anche le condotte criminose abituali/permanenti poste in essere nella vigenza della precedente norma incriminatrice.

La tesi accolta dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritarie, previa verifica in astratto delle fattispecie in successione e del rapporto fra le norme incriminatrici succedutesi, ritengono che l’abitualità/permanente va verificata tenendo conto delle condotte poste in essere dal momento di entrata in vigore della nuova norma incriminatrice in poi, specie se più grave. Se l’abitualità/permanenza della condotta persiste nella vigenza della nuova fattispecie incriminatrice più grave, allora nulla osta affinché al reo possa addebitarsi la commissione del reato di nuova introduzione, anche se in concreto soggetto ad un trattamento sanzionatorio aggravato.

Per quanto attiene il concorso di persone, è necessario richiamare l’art. 110, il quale può ritenersi a tutti gli effetti una norma incriminatrice, in quanto consente di estendere la punibilità di determinati fatti di reato per cui di regola è prevista l’esecuzione mono-soggettiva a tutti i casi in cui si riscontra una pluralità di soggetti attivi. Senza di esso, alla stregua dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, il quale stabilisce che “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”, moltissime norme incriminatrici sarebbero applicabili soltanto nel caso di realizzazione mono-soggettiva. L’analogia è quel procedimento mediante il quale si estende la disciplina prevista dalla legge ai casi simili, da quest’ultima trascurati (analogia legis), o mediante cui si risolvono gli stessi attraverso i principi generali del diritto (analogia iuris). Pertanto, anche nel caso di concorso di persone, deve tenersi conto ai fini della individuazione delle legge penale applicabile della c.d. teoria della condotta, la quale, considera il reato commesso nel momento in cui si realizza l’azione o l’omissione. La ratio della predetta teoria trova fondamento proprio nella condotta, ovvero, il momento in cui il soggetto mette in atto il proposito criminoso, si tratta di un frangente temporale decisivo anche rispetto alla funzione di prevenzione generale connessa alla sanzione punitiva.




(*) Mariangela Miceli: Avvocato del Foro di Trapani. Già dottoranda di ricerca in diritto commerciale e docente a contratto presso l'Università di Roma Unitelma Sapienza. Autrice di pubblicazioni scientifiche.  Contributor per il blog Econopoly24 del Sole24ore

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