Qualche mese fa avevamo dato notizia delle ultime due pronunce sulla norma più incostituzionale di tutto il codice di procedura penale, l'art. 34 c.p.p. (link1 e link2).
Diamo ora notizia di una sentenza che ha dichiarato non fondata la q.l.c. della norma.
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale ordinario di Spoleto, con ordinanza del 7 gennaio 2020, e dal Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza del 14 gennaio 2021, iscritte, rispettivamente, al n. 93 del registro ordinanze 2020 e al n. 75 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2020 e n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2021, La Corte costituzionale con la sentenza 10 marzo 2022, n. 64 (link) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova non possa partecipare al giudizio che prosegue nelle forme ordinarie.
Si osserva in sentenza:
Pur in assenza di affermazioni espresse sul punto da parte del giudice rimettente, la rilevanza delle questioni emerge in modo immediato dalla descrizione della vicenda concreta contenuta nell’ordinanza di rimessione, ove si riferisce che il giudice a quo ha rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova per ragioni non meramente formali e che si trova ora di fronte all’eccezione del difensore di incompatibilità a proseguire la trattazione del giudizio nelle forme ordinarie
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Se pure dunque ammissibili, nel merito le questioni non sono tuttavia fondate.
5.1.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).
L’imparzialità del giudice richiede, in specie, che «la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996).
In quest’ottica, l’art. 34 cod. proc. pen. – dopo aver regolato, al comma 1, la cosiddetta incompatibilità “verticale”, determinata dall’articolazione e dalla consecutio dei diversi gradi di giudizio – si occupa, al comma 2 (oggi censurato), della cosiddetta incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede.
La disposizione, costruita secondo la tecnica della casistica tassativa («[n]on può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere»), è stata notoriamente oggetto, nel corso del tempo, di numerose declaratorie di illegittimità costituzionale di tipo additivo, che hanno dilatato significativamente l’elenco delle ipotesi di operatività dell’istituto.
In tale contesto, questa Corte ha da tempo chiarito come la previsione dell’incompatibilità del giudice debba ritenersi costituzionalmente necessaria nel concorso di quattro condizioni (sentenze n. 16 del 2022, n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996).
1. In primo luogo, presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda.2. In secondo luogo – benché l’architettura del nuovo rito penale richieda, in linea di principio, che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – non basta a generare l’incompatibilità la semplice conoscenza di atti anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione di essi, strumentale all’assunzione di una decisione.3. In terzo luogo, tale decisione deve avere natura non “formale”, ma “di contenuto”: essa deve comportare, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi di accusa, e non già al mero svolgimento del processo.4. Da ultimo (e soprattutto, per quanto qui rileva), affinché insorga l’incompatibilità, è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante, a partire almeno dal 1996, nel ritenere del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva –, resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999). In questi casi, «il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato: anzi è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l’incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa» (sentenza n. 177 del 1996).
5.2.– Alla luce dei principi ora ricordati, le censure dei giudici a quibus non possono essere condivise. Con le questioni sollevate, i rimettenti vorrebbero far sì che il giudice del dibattimento che – prima della dichiarazione di apertura di questo (costituente, ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., il termine ultimo per la richiesta di accesso al rito alternativo nei procedimenti a citazione diretta, quali i giudizi a quibus) – abbia rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, divenga incompatibile a trattare il giudizio che prosegue nelle forme ordinarie.
A tali fini, i giudici a quibus annettono decisivo rilievo alla circostanza che, a loro avviso, il rigetto della richiesta di messa alla prova implicherebbe, sotto un complesso di profili, una approfondita valutazione sul merito della res iudicanda...
Valida o meno che sia la loro tesi, i rimettenti non tengono conto, tuttavia, di un particolare essenziale: che, cioè, il provvedimento cui intenderebbero annettere efficacia pregiudicante si colloca, non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella stessa fase – quella dibattimentale – rispetto alla quale l’invocato effetto pregiudicante dovrebbe dispiegarsi; il che esclude in radice, alla luce della ricordata, costante giurisprudenza di questa Corte, la configurabilità di una situazione di incompatibilità costituzionalmente necessaria.
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CONSIDERAZIONE: Alla luce della sentenza, il GUP che rigetta la richiesta di MAP diviene incompatibile nel dibattimento? Riteniamo di sì, con la conseguenza che prefigurano nuove censure della norma ...