Massima: “[…] in definitiva non può dirsi che il compendio probatorio sia dotato di inequivoca incidenza dimostrativa al fine di ritenere l’idoneità ed e univocità degli atti e soprattutto l’animus necandi dell’imputato al momento del compimento dell’azione. Lo stesso ha agito sicuramente per ferire il padre, ma non anche con un’intenzione omicidiaria. Quantomeno, non si è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio di tale (alternativa) intenzione […]”
Sul fatto
La sentenza in commento scaturisce in seguito al rinvio a giudizio di un soggetto imputato in ordine ai reati p. e p. dagli artt. 56 e 575 c.p. in relazione all’art. 576/1 comma nr. 2 e 577/1 comma nr. 1 nr. 3 c.p. e 61 nr. 1 e 5 c.p., perché, a seguito del diniego da parte del padre K.V., di poter andare al cinema unitamente al fratello più piccolo, dopo aver atteso che il padre si addormentasse, si armava di un coltello della lunghezza complessiva di cm 45 e, dopo essere entrato nella camera da letto dei genitori, compiva atti idonei in modo non equivoco a cagionare la morte del padre K. V., sferrandogli due coltellate al collo, colpendolo alla parte sinistra, così cagionandogli lesioni personali , consistite in “ FLC, in sede latero cervicale con sospetta lesione giugulare interna sinistra” ( in prognosi riservata) e non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla sua volontà, in quanto il padre si svegliava di inseguire il suo aggressore facendolo così allontanare prima di perdere i sensi. Con ulteriori aggravati: di aver agito con premeditazione, di aver agito per motivi abietti e futili, di aver approfittato delle circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la privata difesa. In Roma il 26.11.2017ore 04.15
Premessa
L’articolo 42 c.p. statuisce: nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.1
Dall'assunto del codice penale emerge chiaramente che il dolo è il criterio generale d’imputazione soggettiva del reato, diversamente, le diverse ipotesi della preterintenzione e della colpa rivestono carattere residuale.
Pertanto, il dolo rappresenta l’autentica manifestazione della volontà colpevole del soggetto agente.
Proprio in tema di volontà è possibile definire l’animus necandi come l’intenzione, la volontà di uccidere la vittima. Al fine dell’accertamento giurisdizionale questa volontà omicida dovrà necessariamente essere corredata dalla rappresentazione dell’evento morte.
Volontà e rappresentazione, si pongono dunque quali elementi base a fondamento dell’elemento psicologico del reato2.
L’elemento oggettivo nel reato di omicidio
Il reato di omicidio previsto e punito a norma dell’articolo 575 c.p. si sostanzia nella condotta di un soggetto agente che per il tramite di un’azione o omissione, cagiona la morte di un uomo; dunque, di un soggetto umano che si differenzia dal concepito e da un essere umano già morto.
Il verbo utilizzato dal codice penale è “cagionare”, dunque, causare provocare con le proprie azioni o omissioni qualcosa di negativo; in questo caso la morte di un soggetto diverso. Il delitto di omicidio è un reato a forma libera, pertanto, l’evento morte può essere realizzato per il tramite di qualsiasi condotta commissiva o omissiva idonea a determinarne l’evento. Quest’ultimo, dunque, consiste nella morte clinica del soggetto che si sostanzia nella perdita, totale ed irreversibile, della capacità dell'organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale, coincidente con la morte encefalica. Tale stato deve essere accertato con i metodi appartenenti alla scienza medica più adeguata rispetto al momento storico.
Al fine di accertare la responsabilità penale del soggetto agente nel caso de quo il Collegio giudicante ha ritenuto di dover aderire alla costante giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione -richiamando tra le altre l’ordinanza del 27 aprile 2006 n. 23110 Sezione VII - ove si statuisce che le dichiarazioni testimoniali rese in giudizio dalla persona offesa “ […] pur richiedendo un esame penetrante e rigoroso, ben possono, al pari di qualsiasi altra testimonianza essere poste a fondamento della decisione […]” 3. Anche le dichiarazioni rese dall’imputato, sin dalla fase del suo arresto, sono apparse sin da subito univoche, concordanti e congrue sul piano logico nonché corrispondenti a quanto affermato dagli altri testi escussi in dibattimento.
La ricostruzione del fatto, pertanto, è risultata pacifica e il Tribunale di Roma si è interrogato sull’esatta qualificazione giuridica del fatto materiale ovvero se lo stesso era da inquadrarsi nell’alveo delle lesioni personali (nell’ipotesi grave ex art 585 c.p. anche in relazione all’ipotesi di cui all’art 577 co 1 c.p. e 61 co 1 n 5 c.p.) ovvero in quello di tentato omicidio.
L’elemento soggettivo dell’omicidio
Se l’elemento oggettivo del reato di omicidio può apparire ad una prima analisi di semplice individuazione, l’elemento soggettivo pone certamente numerose problematiche tanto interpretative quanto fattuali.
L’organo giudicante, infatti, ha il compito di ricostruire tramite i fatti la volontà del soggetto agente, dunque, ripercorrere la vicenda al fine di valutare l’intenzione del soggetto.
L’elemento soggettivo del reato nel caso particolare ex art 575 c.p. è di non semplice rilevazione; l’accertamento e la valutazione dello stesso determinerà la punizione dell’ordinamento a titolo di dolo, quando sarà riscontrata appunto la volontà e rappresentazione di cagionare la morte altrui senza nessun altro fine.
Il commento alla sentenza testè citata, intende soffermarsi sull’analisi dell’animus necandi, dunque della volontà omicida al fine di definirne aspetti di valutazione ed implicazioni nel caso concreto.
Interessante per l’operatore del diritto appare l’analisi dei criteri di valutazione adoperati dal giudice al fine di determinare o escludere la volontà omicidiaria.
Al tal fine il Tribunale di Roma ha richiamato due diverse ipotesi:
volontà omicida appare immediatamente individuabile;
diversamente sarà necessario, ricostruire l’intenzione tramite un sistema presuntivo partendo da fatti certi ed incontrovertibili, dunque, tramite un ragionamento induttivo.
Tale principio è applicato nel caso di specie richiamando precedenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione ed in particolare la sentenza n. 37516 del 2010 I Sezione Penale la quale sul punto afferma che “ […] in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi l'animus necandi, la valutazione dell'esistenza del dolo omicidiario può essere raggiunta attraverso un procedimento logico d'induzione da altri fatti certi, quali i mezzi usati, la direzione e l'intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l'azione cruenta […]”.
Certamente un’analisi di tal genere non potrà mai prescindere da un’analisi tecnico- scientifica, infatti, la volontà del soggetto agente dovrà certamente essere valutata sulla base degli elementi oggettivi della vicenda, ma nei casi in cui tale intenzione non appaia manifesta, il giudice dovrà ricorrere a figure professionali in grado di valutare in maniera scientifica la volontà del soggetto agente.
A tal proposito, nel caso di specie anche sulla base della relazione psicologica redatta nell’interesse dell’imputato su incarico del difensore, sono emerse le caratteristiche relative alla personalità del soggetto agente4 dalle quali il Collegio giudicante ha tratto la sua decisione e fondato il giudizio sulla responsabilità penale in merito ai fatti contestati5. Nell’analisi complessiva del profilo caratteriale non sono state rilevate particolari difficoltà nella gestione della sfera emotiva, cognitiva e del comportamento, pertanto, è stata esclusa la presenza di significativi disturbi di natura psicopatologica. Dagli esiti del percorso di supporto psicologico è emerso che una delle caratteristiche principali del soggetto agente è il “raffreddamento emotivo” a fronte di una fervida quotazione cognitiva e una capacità di ragionamento ben oltre il normale. Questo disequilibrio ha reso evidente una certa dose di cinismo -indubbiamente posseduta dal soggetto agente- come emerso dalla diagnosi psicodiagnostica, sebbene come caratteristica di personalità non a valenza patologica. Dall’analisi del nucleo familiare in cui la vicenda si è svolta si è riscontrato un ambiente totalmente privo di risorse affettive e chiaramente deprivanti dal punto di vista emotivo e culturale, tanto è vero che lo stesso soggetto agente – appena vent’enne – afferma che il periodo di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere è stato vissuto dallo stesso come una “liberazione” dalla situazione vissuta all’interno del nucleo familiare.
L’intensità del dolo
Il dolo, dunque, ricopre la forma più grave della colpevolezza, riscontrabile in tutti quei casi in cui il soggetto agente non solo ha voluto l’evento (morte) ma lo ha anche preveduto come diretta conseguenza della sua azione o omissione criminosa.
L’animus necandi, dunque, la componente volitiva del dolo nel reato di omicidio è caratterizzato da una complessa struttura che ha necessariamente portato dottrina e giurisprudenza alla formulazione di distinte ipotesi di intensità.
Parte della dottrina aderisce alla teoria tripartita, la quale individua tre diverse forme d’intensità del dolo.
Il dolo intenzionale riscontrabile nei casi in cui il soggetto agente vuole e si rappresenta l’evento, pertanto, pone in essere l’azione o l’omissione al fine di realizzare l’evento previsto dalla norma. L’evento pertanto rappresenta in questo caso il fine ultimo della condotta posta in essere ovvero il mezzo necessario per ottenere il risultato.
Il dolo diretto che si configura ogni qualvolta il soggetto agente pone in essere l’azione o l’omissione rappresentandosi l’evento e lo accetta come conseguenza certa o altamente probabile della sua condotta. Pertanto, l’elemento della volontà in questo caso sarà attenuato.
Il dolo eventuale rappresenta la forma più lieve che si configura nei casi in cui il soggetto agente compie l’azione o l’omissione con un fine diverso dalla causazione dell’evento morte pur rappresentandosi la possibilità del verificarsi delle più gravi conseguenze della sua azione, compie o omette l’azione accettando il rischio di cagionare l’evento.
Diversamente parte minoritaria della dottrina formula una quarta ipotesi, quella del dolo indiretto.
Il dolo indiretto si configura nei casi in cui il soggetto agente è consapevole che al fine di conseguire il proprio fine dovrà necessariamente cagionare l’evento.
Il dolo alternativo
La giurisprudenza nella sua evoluzione ha formulato un’ulteriore ipotesi: quella del dolo alternativo.
Nel caso che si commenta, il Tribunale di Roma con la sentenza in esame, ha ritenuto e specificato in motivazione che trovandosi in mancanza di circostanze idonee ictu oculi a provare l’animus necandi del soggetto agente, la valutazione della volontà omicida dovesse necessariamente essere il risultato di un procedimento logico di tipo induttivo.
Ad avviso del Collegio avendo la pubblica accusa formulato la richiesta di condanna del soggetto agente a titolo di tentato omicidio, sulla stessa incombeva l’onere non solo di provare l’idoneità degli atti a cagionare la morte della persona offesa e la direzione univoca degli stessi, ma anche “[…] la presenza di un dolo omicidiario, pur configurato nelle forme del “dolo alternativo” rispetto alle mere lesioni personali[…]”6.
Il dolo alternativo è una categoria messa in luce dalla giurisprudenza che si configura in una peculiare ipotesi del dolo diretto.
Il soggetto agente prevede il verificarsi di due possibili eventi tra loro incompatibili e pertanto si perfeziona la rappresentazione di tali eventi come conseguenza della propria azione o omissione. La Suprema Corte di Cassazione Sezione I con la sentenza n. 16523 del 04/12/2020 - in conformità con quanto già affermato dalle Sezioni Unite nel 2014 con la sentenza n. 383437 - ha chiarito la definizione del dolo alternativo ponendolo a confronto con il dolo eventuale “[…] Il dolo eventuale è costituito dalla consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall'accettazione di tale rischio, che potrà essere graduata a seconda di quanto maggiore o minore l'agente consideri la probabilità di verificazione dell'evento; diversamente, sussiste il dolo alternativo nel caso in cui l'agente ritenga altamente probabile o certo l'evento, non limitandosi a prevederne e ad accettarne il rischio, ma prevedendo ed accettando l'evento stesso e quindi, pur non perseguendolo come suo scopo finale, alternativamente lo vuole con un'intensità evidentemente maggiore di quelle precedenti […]”.
Nell’omicidio, il dolo alternativo si configura quando appare, è evidente, dunque provato, che il soggetto agente pur non avendo come fine primario l’uccisione o il ferimento di un uomo, è ben consapevole dell’elevata probabilità di cagionare ugualmente uno dei due eventi.
Pertanto, il Tribunale di Roma in seguito all’analisi delle risultanze del caso de quo dichiara non provati - con la dovuta certezza - gli elementi caratterizzanti il tentativo di omicidio: l’idoneità lesiva degli atti e la direzione univoca degli stessi al fine di cagionare l’evento morte. Tali rilievi in ordine agli elementi oggettivi del fatto-reato hanno indotto l’organo giudicante ad escludere la sussistenza del dolo in riferimento all’ipotesi così come originariamente contestata dalla pubblica accusa.
Dall’interpretazione giurisprudenziale delle diverse forme di dolo è scaturito il dibattito circa la compatibilità di tali fattispecie con il tentativo. Infatti, il dato letterale dell’art. 56 c.p.8 parrebbe escludere la compatibilità del dolo eventuale con il tentativo perché postula una intenzionalità diversa da quella diretta. Anche il Tribunale di Roma nella sentenza in commento è di tale avviso affermando che si possa nel caso di specie al più configurare meramente l’ipotesi del dolo alternativo “[…] non essendo, peraltro, compatibile con il tentativo di omicidio la mera presenza di un dolo eventuale[…]”.9
Tale orientamento trova conferma anche in una recente pronuncia della I sezione della Suprema Corte di Cassazione n. 43250 del 13/04/2018 “[…] Il dolo diretto, anche nella forma di dolo alternativo, è compatibile con il tentativo […]”10.
Particolarmente ricca è la giurisprudenza di legittimità sull’analisi del rapporto tra l’ipotesi del dolo alternativo e il reato di tentato omicidio e sul punto così si esprime – con una recentissima sentenza - la prima sezione della Suprema Corte di Cassazione “[…] in tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'animus necandi assume valore determinante l'idoneità dell'azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata "ex post" ma con riferimento alla situazione che si presentava "ex ante" all'imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso […]” (Cass. Pen., Sez. I, Sent., 9 settembre 2021, n. 33327)11.
È bene sottolineare, come nel caso di specie, il soggetto agente assistito dalle garanzie difensive, ha da subito rilasciato dichiarazioni già in sede di interrogatorio di garanzia. Non solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale ha più volte rilasciato spontanee dichiarazioni e terminata l’assunzione delle prove ai sensi dell’art. 150 disp. att. del c.p.p. ha acconsentito all’esame e al controesame secondo il rituale dettato dell’art. 503 c.p.p.
Recentemente la Giurisprudenza si è anche soffermata sulla compatibilità del dolo alternativo con l’aggravante della premeditazione affermando con la sentenza n. 29013 del 10/06/2021 prima sezione Corte di Cassazione che “[…] La circostanza aggravante soggettiva della premeditazione è compatibile con il dolo alternativo […]”.
La prova dell’animus necandi nel caso di specie
La questione in esame si pone tra i casi in cui è necessario ai fini della dichiarazione della penale responsabilità dell’imputato, valutare in primo luogo l’esistenza o meno dell’animus necandi ed in via successiva ed eventuale la rappresentazione dell’evento morte determinarne l’intensità del dolo.
Ebbene, nel giudizio de quo la prima sezione del Tribunale di Roma sulla base delle risultanze del dibattimento ha dichiarato in capo all’imputato l’assenza della volontà omicida. L’animus necandi nascendo e sviluppandosi solo nella psiche del soggetto agente rende la prova decisamente problematica. L’intervento operato dalla giurisprudenza ha consentito di individuare i diversi elementi in grado di denotare la volontà omicida. A tale giurisprudenza, come già richiamato, ha fatto espresso riferimento anche la sentenza in commento. Il giudice di primo grado, infatti, prende le mosse della propria argomentazione affermando che ai fini della definizione del fatto di reato nella formulazione dell’art. 582 c.p. lesione personale12 o in quello di tentato omicidio è necessario, trattandosi di reato progressivo13 che l’analisi abbia riguardo “[…] sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva […]”14.
Infatti sul punto il Collegio giudicante richiama espressamente l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione prima sezione espresso con la sentenza n. 46258 del 2012 in base al quale “[…] nel primo reato l'azione esaurisce la sua carica offensiva nell'evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, andando al di là dell'evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore, riguardanti il medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per ragioni estranee alla volontà dell'agente […]”.
Dunque, la prova della volontà omicida va desunta dall’esame di elementi sia soggettivi che oggettivi.
Gli elementi soggettivi sono tutti quelli riferibili al soggetto agente come le manifestazioni d’animo o di indole del reo -motivo per il quale anche nel procedimento ivi in commento è stato opportuno lo svolgimento della perizia psicologica richiamata-.
Gli elementi oggettivi, invece, concernono le circostanze esteriori che normalmente costituiscono espressione dell’elemento da provare, come la modalità dell’aggressione, il mezzo omicida e la condotta del soggetto agente durante e dopo il fatto di reato.
Nel caso in esame, l’analisi di questi elementi è stata svolta dal Collegio giudicante in maniera certosina constatando, in particolare -anche sulla base degli elementi oggettivi dell’azione- che fosse da escludere la sussistenza del dolo, dunque, della volontà omicidiaria in capo all’imputato.
L’analisi dei suddetti elementi oggettivi dell’azione, ha portato il Tribunale di Roma in conclusione, ad affermare non provata, con dovuta certezza, la sussistenza dell’idoneità lesiva degli atti e l’univoca direzione degli stessi al fine di cagionare l’evento morte.
Il Collegio di Merito nel caso che ci occupa, ha applicato i principi dei Giudici di Legittimità Sezione VII Penale che con la sentenza n. 39743 del 2017 giudice hanno statuito “[…] L’ univocità degli atti costituisce il presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa riconducibile all'alveo applicativo dell'art. 56 cod. pen. Tutto questo risponde all'esigenza di ricostruire la volontà dell'agente rispetto all'aggressione del bene giuridico protetto dalla norma […] in tema di tentativo; il requisito dell'univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo […]”.
Infatti, il soggetto agente pur avendo posto in essere l’azione offensiva con un’arma potenzialmente letale per la persona offesa e per il tramite di coltellate inferte nella zona carotidea in concreto le ferite riportate - in quanto poco profonde - non avrebbero in alcun modo potuto causare la morte del padre.
Ritiene il Tribunale che “ […] In ogni caso la forza inferta, tenuto conto anche delle caratteristiche del coltello, appare lieve. Considerato che il padre in quel momento dormiva e dunque non offriva alcuna resistenza, nè vi erano strutture ossee a protezione della parte, il colpo inferto non era stato prodotto con intensità […]15”.
Sulla base di tali risultanze ed evidenziando che la parte offesa non è mai stata in pericolo di vita, il giudice di primae curae afferma che proprio sulla base di tali rilievi oggettivi è opportuno escludere la sussistenza del dolo (così come nell’ipotesi originariamente contestata ex artt 56 e 575 c.p.) che nel caso de quo tutt’al più potrebbe essere solo alternativo non essendo, peraltro, compatibile con il tentativo di omicidio la mera presenza di un dolo eventuale.
Non solo, la valutazione delle modalità oggettive del fatto é ricaduta anche sulla condotta tenuta dal soggetto agente. Nell’immediatezza del fatto lo stesso si è appena allontanato dal luogo dell’accaduto al solo fine di chiamare i soccorsi.
La sussistenza di tutti questi elementi oggettivi e soggettivi ha determinato la convinzione da parte del Giudice di primae curae che nel caso di specie in capo al soggetto agente la volontà omicida fosse del tutto inesistente.
Pertanto K.B.A., previa riqualificazione nel delitto di cui agli artt 582, 585 anche in relazione all’art 577 comma 1 n 1) c.p. e 61 comma 1 n 5) ed escluse le altre circostanze aggravanti contestate, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle circostanze aggravanti ritenute, è stato condannato alla pena di anni 2 e mesi undici di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Confisca e distruzione di quanto in sequestro
(*) Albertina Pepe: Avvocato iscritta all'albo degli avvocati di Roma e Patrocinante in Cassazione. Laureata presso l’Università degli studi di Salerno con tesi in Procedura Penale sui riti alternativi dal titolo: il giudizio abbreviato e la Legge “Carotti” n 479/1999. É altresì componente della commissione di Procedura Penale e Difese d'Ufficio presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma (link) e componente della rivista CENTOUNDICI della Camera Penale di Roma (link)
NOTE
1 Art. 42 c.p. «Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà(I). Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge(II). La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione(III). Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa». (I) Tale comma esige per la configurabilità del reato la c.d. suitas, ovvero la coscienza e volontà della condotta. Viene quindi richiesta l'esistenza di un nesso psichico tra l'agente ed il fatto, il quale si viene a creare tutte le volte in cui la condotta è posta in essere volontariamente e quando, anche se non sussisteva tale esplicita volontà, con uno sforzo del volere la condotta integrante il reato poteva essere evitata dal soggetto. (II) Viene precisato che, per i delitti il criterio generale di imputazione della responsabilità penale è il dolo. Solo il legislatore può derogarvi, prevedendo per un delitto sia l'ipotesi dolosa che colposa , come ad es. in tema di lesioni: dolose (art. 582 del c.p.) e colpose (art. 590 del c.p.). Ulteriore deroga è rappresentata dal delitto preterintenzionale (art. 43 del c.p.), esplicitamente previsto nelle sue sole due ipotesi di realizzazione: l'omicidio preterintenzionale (art. 584 del c.p.) e l'aborto preterintenzionale (art. 18, comma 2, l. 22 maggio 1978, n.194). (III) Si fa qui riferimento all'ipotesi di responsabilità oggettiva, per cui un soggetto è chiamato a rispondere della propria condotta, in base al mero rapporto di causalità materiale (art. 40 del c.p.), senza necessità che si provi la sussistenza della colpevolezza. Tracce di tale responsabilità sono ravvisabili, ad esempio, in materia di reati commessi a mezzo della stampa (art. 57 del c.p.), condizioni obiettive di punibilità (art. 44 del c.p.) e aberratio delicti (art. 183 del c.p.).
2 Art. 43 c.p. «Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione(I); è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente(II); è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline(III). La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti(IV), si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico».
(II) Si parla di preterintenzione quando si verifica un evento più grave di quello voluto dal soggetto, ovviamente solo qualora sussista un nesso causale con la condotta. Per esemplificare si pensi all'ipotesi in cui l'agente voleva solo percuotere o ledere ed invece si verifica la morte della vittima. Si avrà omicidio preterintenzionale. Riguardo la configurazione della preterintenzione, una parte minoritaria della dottrina la considera come dolo misto a responsabilità oggettiva, mentre l'orientamento dominante, sulla base anche di quanto dispone il dettato normativo che distingue tra responsabilità oggettiva e preterintenzione, la identifica come dolo misto a colpa, in quanto il dolo riguarderebbe l'evento minore, mentre la colpa quello più grave.
(III) La colpa richiede non solo che la condotta sia attribuibile alla volontà del soggetto (art. 42, c. 1), ma anche che l'evento non sia voluto, nemmeno in modo indiretto, e soprattutto che vi sia stata imprudenza, negligenza, imperizia (colpa generica) od inosservanza di leggi, regolamenti, ordine o discipline (colpa specifica). A base della colpa vi è la prevedibilità ed evitabilità dell'evento ovvero la possibilità, accertata in concreto, per l'agente di rappresentarsi nella mente l'evento dannoso come conseguenza di una certa azione od omissione e di scongiurare l'evento, rispettando precise regole cautelari connessa alla violazione di specifiche norme poste da legge, regolamento, ordini e discipline. La dottrina distingue poi tra colpa propria, quando non vi è volontà dell'evento e colpa impropria, quando invece l'evento è voluto, come nelle ipotesi di l'eccesso colposo , l'errore nelle cause di giustificazione ed l'errore di fatto determinato da colpa. Si ha invece colpa incosciente, se il soggetto non si rende conto che la sua condotta potrebbe provocare eventi dannosi e colpa cosciente, o colpa con previsione, se l'agente si rappresenta l'evento come possibile conseguenza della sua condotta, ma ha sicura fiducia che esso non si verificherà (si pensi all'ipotesi in cui un soggetto conduce un'auto ad alta velocità in centro cittadino, rendendosi conto della possibilità di un investimento, ma è fiducioso nella sua abilità di guida). Si differenzia dal dolo eventuale, perché l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento dannoso, propria di quell'ipotesi di dolo. Si ricordi poi la colpa professionale, inerente gli illeciti penali compiuti da un professionista nell'esercizio della sua attività. In questo caso si ritiene si applichi quanto previsto dalla norma in esame e non le disposizioni di cui all'art. 2236 del c.c., che prevede che il professionista possa rispondere solo per colpa grave (con esclusione, quindi, dei fatti commessi con colpa media o lieve).
(IV) Differentemente dai delitti che sono normalmente puniti dal legislatore per dolo, a patto che la legge non parli espressamente di colpa o preterintenzione come nelle ipotesi previste dagli articoli art. 589 del c.p. e art. 584 del c.p., le contravvenzioni sono punite sia se commesse con dolo che con colpa. Ciò però non esclude che possa essere rilevante stabilire se la colpevolezza abbia assunto la forma del dolo o della colpa, soprattutto per quanto riguarda la commisurazione della e la dichiarazione di abitualità nel reato. Si ricordi poi che vi sono alcune contravvenzioni punibili solo a titolo di dolo (es.: 660, molestie e disturbo alle persone) ed altre punibili solo a titolo di colpa (es.:712, incauto acquisto, perché se doloso scatterebbe il più grave reato di ricettazione.
(I) Il tentativo si configura come fattispecie in cui la sfera oggettiva è rimasta incompleta, perché, al di là della volontà colpevole, l'ipotesi delittuosa prevista dalla norma è realizzata solo in parte. Tale situazione diventa punibile al ricorre dei due requisiti: idoneità e univocità. Per idoneità, s'intende che gli atti posti in essere dal soggetto devono essere in grado di causare offesa al bene giuridico tutelato. Deve ovviamente trattarsi di atti tipici della fattispecie tentata. Il giudizio sull'idoneità va effettuato ex ante, ovvero avendo a riguardo del momento in cui la condotta viene posta in essere (se la valutazione venisse compiuta ex post, non ci sarebbe mai tentativo punibile), e in concreto, poiché l'adeguatezza dell'atto al reato tipico va considerata in rapporto al contesto fenomenico in cui si inserisce (si pensi al bicchiere d'acqua zuccherata, di norma innocuo,fatale per un diabetico). A proposito la dottrina prevalente ha affermato che l'idoneità va valutata tenendo conto di tutte le circostanze realmente esistenti al momento del fatto, non solo quelle conoscibili o conosciute, come invece sostenuto da altri autori.
(II) Per quanto attiene all'univocità, questa indica sia che l'azione o l'omissione devono far trasparire con certezza l'intento delittuoso (es. mettersi una pistola in tasca non indica la volontà di sparare come uccidere) sia che le modalità di attuazione devono integrare in maniera non equivoca un fatto tipico o costituire almeno un atto collegato e di anticipazione certa di fatti rientrati nel disegno criminoso del soggetto.
(III) Tale norma ha carattere generale e deve quindi essere riferita poi alle singole disposizioni di parte speciale. Le fattispecie di delitto tentato infatti sono tante quante quelle di delitto consumato, di cui sono una realizzazione imperfetta.
(IV) Affinché si abbia delitto tentato, è necessario che l'azione tipica si stata iniziata ma non sia giunta a compimento (si pensi al soggetto che prende la mira, ma viene disarmato prima di sparare) oppure la condotta sia stata portata a compimento, ma l'evento non si è poi verificato (si pensi al soggetto che spara, ma non colpisce la sua vittima). Nel primo caso si parla di tentativo incompiuto, nel secondo di tentativo compiuto.
(V) A seguito dell'abolizione della pena di morte nel nostro ordinamento (per questo aspetto si rimanda all'analisi dell'art. 17 del c.p.), è stato abrogato l'inciso che originariamente prevedeva: "Il colpevole del delitto tentato è punito con la reclusione da ventiquattro a trenta anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte".
(VI) Si deve però puntualizzare che, relativamente al contrabbando si applica la stessa prevista per il reato consumato, ex art. 293, d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43.
(VII) Si configura la desistenza quando il soggetto muta il proprio proposito e interrompe volontariamente l'attività criminosa (delitti commissivi) o intraprendere ciò che stava omettendo, ossia la condotta doverosa (delitti omissivi). Per chiarire, nel primo caso si pensi al ladro che, forzata la serratura, decide di non portare a compimento l'azione criminosa, nel secondo alla madre che riprende ad allattare il neonato dopo che aveva deciso di farlo morire di fame. La ratio della desistenza, come ipotesi di normativa premiale, è tradizionalmente ravvisata nell'opportunità di prevenire la violazione di norme penali e disincentivare così il crimine attraverso la promessa di impunità. Tuttavia la concezione special-preventiva ritiene che il fondamento di tale istituto risieda, invece, sulla inutilità della sanzione per un soggetto che ha modeste probabilità di ricaduta nel reato.
(VIII) Quando, realizzata l'azione tipica, l'agente volontariamente impedisce la verificazione dell'evento, si parla di recesso, il quale, diversamente dalla desistenza, presuppone n tentativo compiuto. Questo rappresenta l'unica circostanza valida nel caso di tentativo e nello specifico si tratta di una circostanza attenuante.
Il rapporto recesso-desistenza assume rilevanza soprattutto in relazione ai reati omissivi. Per esemplificare, quindi, la madre che ha omesso di nutrire il neonato per alcune ore, desiste se riprende a nutrirlo, mentre recede se si reca in ospedale affinché vengano prestate al bambino le cure necessarie.
(IX) Relativamente ai delitti commessi con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico l'art. 5, l. 29 maggio 1982, n. 304, dispone che non è punibile colui che, avendo compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto, volontariamente impedisce l'evento e fornisce comunque elementi di prova rilevanti per l'esatta ricostruzione del fatto e per l'individuazione degli eventuali concorrenti.
(X) Si ricordi che il tentativo non è ammissibile nei delitti colposi (per l'incompatibilità tra la mancanza di volontà delittuosa e l'idoneità e univocità degli atti in cui si sostanzia il delitto tentato) nelle contravvenzioni (l'articolo in esame si riferisce ai soli delitti), nei reati unisussistenti (solo relativamente alla forma del tentativo incompiuto), nei delitti di attentato (poiché quanto richiesto per configurarsi tentativo punibile è già sufficiente alla consumazione del delitto), nei reati di pericolo, nei delitti preterintenzionali.