Poco tempo fa avevamo dato conto dell'arresto della CEDU nel caso Succi contro Italia (post al link), col quale i Giudici della "grande " Europa avevano condannato il nostro paese per la violazione dell’art. 6 della Convenzione, a motivo dell’interpretazione eccessiva formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi di legittimità e della conseguente inammissibilità.
Sul tema, sebbene rivisto sotto l'angolo visuale del quantum di prova della causa di inammissibilità, ora giunge un principio di diritto della Corte regolatrice (Cass. pen. sez. V, ud. 4.11.2021- dep. 2.12.2021 n. 44697sentenza al link).
Nel caso sottoposto al vaglio della Cassazione, i giudici distrettuali di Catania avevano dichiarato l'inammissibilità di una richiesta di rescissione del giudicato, poiché, pur avendo acquisito certezza della presentazione dell'istanza di rescissione per via della formazione del fascicolo, la medesima non si rinveniva in cancelleria, nè risultava prova del suo deposito ivi: pertanto la Corte siciliana concludeva che la domanda <<fosse inammissibilmente stata trasmessa a mezzo di posta elettronica o di posta elettronica certificata>>.
L'istante interponeva ricorso per cassazione
adducendo che la Corte territoriale aveva dichiarato l'inammissibilità della
richiesta, supponendo una trasmissione a mezzo di posta elettronica, in assenza
di ogni prova al riguardo, e comunque senza attivare le procedure di cui
agli artt. 112 e 113 c.p.p.
La Corte di cassazione, dopo avere rilevato le
mancanze cui erano incorsi i giudici territoriali, ha rammentato che <<il
processo è strumento di valutazione della fondatezza o infondatezza delle
richieste formulate e ogni pronuncia in rito richiede, a tutela del
diritto delle parti ad un processo equo e da svolgersi in termini ragionevoli,
una rigorosa e obiettiva verifica del fondamento delle cause che
precludono l'accertamento del merito delle questioni proposte>>.
Nella richiamata natura del processo potrebbe esservi le premesse per un approccio antiformalistico.