15 novembre 2025

STAVOLTA SI FA SUL SERIO: PERCHÉ VOTARE SÌ AL REFERENDUM SULLA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE TRA PM E GIUDICI di Guido Todaro*

 



1. Premessa

Il tema del referendum, che attiene alla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, non è una questione tecnica da addetti ai lavori. È una questione di libertà, di giustizia e di equilibrio tra i poteri dello Stato, che riguarda tutti noi.

 

2. Due funzioni diverse, due carriere diverse

Nel processo penale ci sono tre protagonisti:

 • il Pubblico Ministero (PM), che accusa;

 • il Giudice, che decide;

 • il Difensore, che difende.

Oggi, in Italia, PM e giudici fanno parte dello stesso corpo, lo stesso ordine della magistratura, con lo stesso percorso di carriera, lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) che li governa.

In pratica, chi oggi accusa, domani può fare il giudice, e viceversa. È pur vero che, con una riforma del 2022, il cambio di funzioni può avvenire solo una volta ed entro i primi dieci anni di attività (sei anni più quattro: arg. ex art. 13 comma 3 d. legisl. n. 160/2006, come modificato dall’art. 12 l. n. 71/2002, in relazione all’art. 194 dell’ord. giud.), diversamente dal passato in cui i magistrati potevano cambiare fino ad un massimo di quattro volte: sennonché, la modifica del 2022 è una legge ordinaria, il che significa, a testo costituzionale invariato, che una nuova legge potrebbe ripristinare il vecchio limite di 4 volte, o financo non prevedere limiti. La novella costituzionale, per contro, renderebbe definitiva la separazione delle carriere, stabilendo che un magistrato dovrà scegliere una volta per tutte tra la funzione requirente e quella giudicante, senza poter cambiare: una modifica costituzionale, dunque, senza possibilità di fluttuanti modifiche dovute alla legge e alle varie contingenze del momento.

Orbene: PM e giudice sono colleghi, avvocato e PM non sono colleghi, avvocato e giudice non sono colleghi.

Questa commistione tra chi accusa e chi giudica, che può sembrare un dettaglio burocratico, mina alla radice un principio fondamentale: la terzietà del giudice.

In NESSUN altro ambito della vita accettiamo che chi decide sia troppo vicino a una delle parti in causa. Perché dovremmo farlo nella giustizia penale? Perché dovremmo farlo quando è in gioco il bene più grande, cioè la libertà personale?

 

3. Il principio europeo della separazione

In quasi tutta Europa – Francia, Spagna, Germania – le carriere di PM e giudici sono separate.

In Portogallo, la separazione delle carriere inquirente e giudicante è stata frutto della riforma del sistema giudiziario dopo la rivoluzione del 1974: la scelta fu accompagnata da una totale e ferma indipendenza dall’Esecutivo, garantita dal Consiglio superiore del pubblico ministero, composto da magistrati eletti e membri “laici”, con maggioranza di magistrati, e presieduto dal Procuratore generale della Repubblica.

È certo vero che non ha senso “celebrare” in astratto altri ordinamenti – come quello francese, tedesco, spagnolo o portoghese richiamati – poiché non possiamo conoscere fino in fondo il clima culturale e il dibattito interno che circondano i loro sistemi di giustizia. Come pure è indubbio che ogni ordinamento va valutato nel proprio contesto storico, sociale e istituzionale, di talché i modelli stranieri non possono essere semplicemente trapiantati o idealizzati. Tuttavia, il riferimento a questi Paesi, lungi dal configurarsi come un’esaltazione dell’“esotico” o del “diverso da noi”, induce una riflessione: si può evidenziare, con spirito comparatistico, che in ordinamenti europei di solida tradizione democratica e giuridica – e in cui il livello di tutela dei diritti fondamentali non è certo inferiore al nostro – la separazione delle carriere è già una realtà.

Questo dimostra che tale assetto non rappresenta affatto un “male assoluto” o una minaccia all’indipendenza della magistratura, come talvolta viene sostenuto nel dibattito italiano, ma può convivere, per converso, con un sistema giudiziario equilibrato ed efficiente

Separare le carriere non significa mettere in contrasto i due ruoli, ma riconoscere la loro diversità.

Il giudice deve essere terzo, imparziale, indipendente; il PM deve essere libero di indagare, ma non deve appartenere alla stessa corporazione di chi lo giudica.

La separazione, dunque, rafforza l’indipendenza di entrambi:

 • il PM non sarà mai più sospettato di “favori” o “protezioni” da parte dei giudici;

 • il giudice non sarà mai più visto come “collega dell’accusa”, talvolta tacciato – ad esempio con riguardo alla fase delle indagini preliminari e in materia cautelare, là dove non ha la disponibilità dell’intero fascicolo ma dei soli atti somministrati dall’organo requirente – di appiattirsi acriticamente sulle richieste del PM.

 

4. Un equilibrio costituzionale da ricostruire

La Costituzione tutela la magistratura come potere autonomo, ma non impone la confusione tra giudici e PM, come qualcuno, sbagliando, ha sostenuto.

L’articolo 111 Cost. parla chiaro: il processo deve svolgersi nel contraddittorio delle parti, davanti a un giudice terzo e imparziale.

Terzietà significa essere diverso tanto dal PM quanto dal Difensore.

Oggi questa terzietà, in senso sostanziale, è messa in discussione da un sistema in cui PM e giudici appartengono alla stessa carriera e spesso condividono gli stessi percorsi formativi e le stesse valutazioni e progressioni di carriera.

Sono compagni di banco, per usare una immagine chiara e sintetica.

Separarli non significa “indebolire la magistratura”, ma rafforzare la fiducia dei cittadini nella giustizia.

 

5. Giustizia più trasparente, più credibile, più umana

Una giustizia credibile è una giustizia trasparente, che non solo è imparziale, ma appare tale agli occhi del popolo.

Quando un cittadino entra in un’aula di tribunale, deve sentire CHIARAMENTE che il giudice non appartiene né all’accusa né alla difesa, ma solo alla legge e alla Costituzione.

Separare le carriere significa anche questo: dare al giudice l’autonomia e l’isolamento necessario per decidere secondo coscienza, non secondo appartenenze e correnti.

Al contempo, volendo semplificare e usare una immagine impropria ma plastica, l’obiettivo programmatico che si vorrebbe realizzare è quello di contrapporre un avvocato della difesa e un avvocato dell’accusa (sia pur dotato di indipendenza e garanzie ordinamentali forti), che si contendono lealmente l’esito davanti ad un giudice diverso da entrambi. Cosa c'è da capire?

 

6. Nessuna punizione per i magistrati, ma una riforma per i cittadini

Non è una battaglia contro i magistrati, ma una riforma per i cittadini.

È un passo di civiltà, un modo per rendere più chiaro e più giusto il sistema giudiziario.

Così come l’avvocato difende, il PM accusa e il giudice giudica: funzioni diverse, ognuno nel proprio ruolo, ognuno con la propria dignità, ognuno SEPARATO dall’altro.

 

7. Critiche alle ragioni del No

Si sostiene, da parte dei promotori del no, che, in prospettiva, la separazione delle carriere potrebbe portare i PM sotto il controllo dell’Esecutivo.

L’argomento è basato su una paura ipotetica, non sui contenuti effettivi della riforma.

Chi afferma che la separazione delle carriere porterebbe “inevitabilmente” alla subordinazione del PM all’Esecutivo, in sostanza, fa un salto logico: la riforma in discussione non lo prevede, anzi ribadisce l’indipendenza del PM e istituisce un CSM autonomo per la magistratura requirente.

Il novellato art. 104 Cost., in continuità con il testo attuale, rimarca che la magistratura costituisce un ordine autonomo e INDIPENDENTE da ogni altro potere, soggiungendo – e così esaltando non solo l’indipendenza esterna ma anche l’INDIPENDENZA INTERNA, non meno importante – che è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente.

Temere un rischio futuro, non codificato nella norma, equivale a respingere una legge non per ciò che fa, ma per ciò che potrebbe un giorno essere modificata e portata “a fare”: una forma di argomento dal pendio scivoloso, che in logica è un errore, una vera e propria trappola argomentativa.

Ma c’è di più.

L’attuale sistema non è privo di “indirizzi” e priorità.

Oggi, nell’ambito di una cornice generale definita dal Legislatore (art. 132 bis comma 1 disp. att. c.p.p.), sono comunque i dirigenti degli uffici ad adottare i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione dei processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria (art. 132 bis comma 2 disp. att. c.p.p.): in altre parole, i singoli uffici delle Procure della Repubblica specificano i criteri di priorità, tenendo conto della loro realtà criminale specifica, e delle risorse disponibili.

Oggi, dunque, i Procuratori capi, nominati dal CSM, stabiliscono concretamente le priorità investigative. Queste scelte riflettono comunque sensibilità personali, indirizzi culturali o mediatici, e risorse limitate.

In altre parole, l’agenda dell’azione penale è già selettiva, anche se formalmente “obbligatoria”.

Quindi, dire che la riforma metterebbe “in mano all’esecutivo” l’agenda giudiziaria ignora che oggi non è neutrale né rigidamente automatica: è semplicemente decisa da altri, in modo forse meno trasparente e meno democraticamente partecipato.

Se anche l’esecutivo, in futuro, avesse un ruolo d’indirizzo, il problema sarebbe di controlli e garanzie, non di principio

In un sistema democratico, le priorità nella repressione dei reati (es. mafia, corruzione, droga, reati ambientali, violenze domestiche, reati dei colletti bianchi) possono essere legittimamente orientate dal Parlamento o dal Governo, purché ciò avvenga in modo trasparente e con limiti normativi chiari.

Non è scandaloso che la politica, espressione della volontà popolare, definisca obiettivi generali, purché il potere giudiziario resti libero nel giudizio concreto.

Anzi, questo argomento può essere rovesciato: perché un singolo Procuratore capo deve decidere le priorità a livello locale, con disparità di trattamento tra territori, e non potrebbe essere l’Esecutivo a farlo in termini generali?

Chi sostiene la necessità di conservare l’attuale sistema, vuole forse preservare di fatto il monopolio e quindi, nella sostanza, lo fa per un interesse proprio all’autogoverno dei criteri di priorità?

In ogni caso, i PM non passeranno sotto l’Esecutivo: quella di cui sopra è solo una speculazione che risponde ad un’altra speculazione.

A riprova di ciò, basti considerare che né l’art. 107 (al netto di una modifica che non sposta nulla, ma semplicemente raccorda la previsione alla istituzione dei due Consigli superiori della magistratura) né l’art. 112 della Costituzione sono toccati dalla riforma: il pubblico ministero gode e continuerà a godere delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario e continuerà altresì ad avere l’obbligo di esercitare l’azione penale (a garanzia di uguaglianza dei cittadini).

Senza considerare il già richiamato art. 104 della Costituzione, la cui chiarezza è lapidaria, insuscettibile di strumentalizzazioni interpretative.

Del resto, chi paventa il timore che il PM passi sotto l’Esecutivo, dimentica di dire - volutamente? - che anche quella sarebbe una riforma costituzionale, che richiederebbe i tempi e le maggioranze qualificate previste dall’art. 138 Cost., e, nel caso, un analogo referendum costituzionale: se fosse quello il pericolo, si dovrebbe semmai votare no a quell’ipotetico e futuro referendum, non già ora, a fronte di una riforma che non fa altro che attuare sul piano ordinamentale, a oltre 30 anni di distanza, il sistema accusatorio voluto dai riformatori del codice di procedura penale e imposto dalla Costituzione.

In sintesi: criticare una riforma costituzionale per timore di un abuso futuro è debole sul piano logico e poco corretto sul piano giuridico.

Meglio discutere nel merito: se la separazione delle carriere migliori o peggiori la qualità della giustizia, la percezione di imparzialità, l’efficienza del sistema.

Il “fantasma” del PM sotto l’Esecutivo è, allo stato, una distorsione polemica più che una previsione fondata.

 

8. Una riforma al passo con i tempi contro un retaggio del passato

Partiamo da un’affermazione sicuramente condivisa da tutti: giudice e pubblico ministero, pur assumendo entrambi la qualifica di «magistrato», esercitano due funzioni radicalmente diverse.  

Occorre allora evitare una sorta di strabismo concettuale che permea la questione, iniziando col porsi la giusta domanda iniziale.

Se le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono diverse, la vera domanda è non già perché separare le carriere - che è una logica conseguenza della diversità di funzioni - quanto piuttosto chiedersi perché le carriere siano (ancora) unite.

Nella Costituzione del 1948, la magistratura fu delineata come un ordine indipendente e unitario (“i magistrati si distinguono solo per funzioni”), istituendo un organo di autogoverno ‘domestico’ (CSM). Tale assetto poggiava su due ragioni. La prima di (condivisibile) reazione al regime totalitario: nel ventennio fascista la magistratura era, purtroppo, influenzabile o coercibile dal potere esecutivo; la seconda: la disciplina del processo penale dell’epoca era improntata ad un modello autoritario, di tipo inquisitorio, che tendeva a “confondere” o comunque a non distinguere chiaramente le funzioni inquirenti e giudicanti.

Oggi le cose sono profondamente diverse.

Lo Stato ha una struttura democratica, repubblicana, imperniata su reciproci controlli tra i poteri; il (nuovo) codice di procedura penale del 1988 ha una impostazione di fondo completamente diversa, di stampo accusatorio, in cui la figura del pubblico ministero è staccata da quella del giudice.

I tempi sono dunque maturi per modificare la Costituzione con regole precise sui ruoli di chi accusa e chi giudica, che devono essere separati anche in relazione alle carriere, non solo alle funzioni.

Insomma, questa è una riforma figlia del suo tempo, che attua e perfeziona il modello dell’attuale codice di procedura penale, così superando un retaggio che non ha più ragion d’essere.

Un processo autenticamente accusatorio esige una rigorosa separazione delle funzioni fra accusa e difesa. Ma ciò non è sufficiente: la logica propria del modello accusatorio non si esaurisce nella mera distinzione funzionale, ma richiede anche una separazione strutturale e culturale delle carriere. Questo perché, se è vero che il giudice deve rimanere terzo rispetto alle parti, tale terzietà non può essere pienamente garantita finché magistrati requirenti e giudicanti continuino a condividere lo stesso percorso formativo, la stessa progressione professionale e la stessa cultura di appartenenza istituzionale.

Anche a voler sostenere che non vi sia una perfetta corrispondenza biunivoca tra giusto processo accusatorio e separazione delle carriere, quest’ultima sicuramente rafforza il primo.

Semmai, avrebbe senso un dibattito su come realizzare l’obbiettivo in concreto, con la partecipazione di tutti, cittadini e addetti ai lavori, con i magistrati che potrebbero sicuramente offrire un ausilio utile, se solo taluni (non tutti, per la verità) abbandonassero aprioristiche barricate ideologiche.

Dunque, votare SÌ alla separazione delle carriere significa:

 • garantire più imparzialità nei processi;

 • rafforzare la fiducia dei cittadini nella giustizia;

 • tutelare la Costituzione e lo Stato di diritto;

 • portare l’Italia al livello degli altri ordinamenti europei.

Una giustizia equa non è una giustizia più dura o più morbida, ma una giustizia più giusta.

Per questo, da avvocato, ma soprattutto da cittadino, dico che occorre votare SÌ al referendum per la separazione delle carriere tra PM e giudici.

 

9. Per concludere

Ci lamentiamo ogni giorno della giustizia: dei processi infiniti, delle decisioni discutibili, delle ingiustizie che sembrano inevitabili. Ma se davvero vogliamo cambiare le cose, dobbiamo avere il coraggio di intervenire alla radice.

Abbiamo provato per decenni con un sistema in cui pubblici ministeri e giudici appartengono allo stesso corpo.

Ora è il momento di cambiare davvero, di voltare pagina, di separare ruoli e responsabilità per rendere la giustizia più chiara, più indipendente, più giusta.

Se poi questo cambiamento non dovesse bastare, si potrà sempre correggere il cammino.

Ma restare fermi, no: significherebbe accettare che tutto resti com’è. E questo, per un Paese che crede nel diritto e nella libertà, non è più possibile.

 

(*) Guido Todaro: Avvocato del Foro di Bologna, Cassazionista, Specialista in Diritto Penale, è Dottore di Ricerca in Diritto e Processo Penale presso l’Università di Bologna, nonché Professore a contratto di Procedura Penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali afferente alla medesima Università.
È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale e Caporedattore della Rivista La Giustizia Penale.
È Autore di oltre 60 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.

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