L’ARTICOLO 465 DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE: 
CHI ERA COSTUI? - di Carmelo Passanisi (*)
Chi si ricorda dell’esistenza dell’articolo 465 del codice di procedura penale alzi la mano? 
E fra chi se lo ricorda, quelli che lo hanno mai visto applicato le alzino tutt’e  due. 
Quest’introduzione un po’ a sorpresa serve per richiamare l’attenzione di  chi legge su un problema di fondo del processo penale. Un problema vero, che  tutti conoscono, ma di cui nessuno parla: l’efficienza delle cancellerie. Che non  riguarda, si badi bene, l’efficienza della singola cancelleria o del singolo addetto,  ché ci sono cancellerie efficientissime, ma la cui efficienza è demandata soltanto  allo spirito di iniziativa ed alle capacità organizzative del dirigente. Ma riguarda  un’area di azione burocratica che grandemente incide con la durata e  l’organizzazione del processo. 
Quando mai un giudice, sapendo che nel giorno in cui il processo è fissato  l’udienza non si potrà tenere, ha applicato quanto previsto dall’articolo 465, con  ciò caricando la cancelleria dell’onere della comunicazione e delle notificazioni? 
Si preferiva, all’inizio, comunicare il rinvio alle parti che regolarmente si  presentavano all’udienza che non si sarebbe potuta tenere e, prima che le prassi  e i protocolli si inventassero l’ "udienza di smistamento”, ai testimoni, la nuova  data. Ed il costume è sopravvissuto anche all’avvento delle notifiche tramite PEC,  che di certo sveltiscono di molto l’onere della cancelleria. 
È in questo contesto, nel contesto del non detto principio per cui “È BENE  GRAVARE LE CANCELLERIE DI MENO LAVORO POSSIBILE” che devono essere lette, io penso,  le recenti norme in tema di presentazione e deposito di atti per via telematica,  con tutto il seguito ansiogeno di attesa di risposte e conferme e con tutto il  corteo di inammissibilità previste, è un esempio, per la presentazione delle  impugnazioni, per questioni di mera forma. Quelle ansie che prima contenevamo  seguendo la mano del cancelliere fino a quando non avesse apposto il timbro del  depositato e fino a quando non ci avesse dettato, viso a viso, il salvifico numero  di protocollo.
Avete mai visto un cancelliere rifiutare un atto di appello sol perché la  firma non è leggibile o perché la carta non è della grammatura prevista? O un  cancelliere si è mai posto il problema dell’autenticità della firma apposta  all’impugnazione proposta per raccomandata o telegramma, così come previsto  dall’articolo 583 del codice di rito? 
La possibilità di sveltire certe parti del processo, consentita dalle moderne  tecnologie, è frustrata dalla farraginosità delle procedure scelte. È certamente  un mio limite, ma non comprendo perché le cose che si devono depositare  attraverso il PST non si possano depositare tramite una PEC (strumento,  peraltro, del tutto assimilabile alla raccomandata a.r.). Con un sistema che,  prendendo esempio da quanto già accade nel processo civile telematico, spesse  volte si inceppa e non funziona. E al quale non puoi accedere se magari sei  tecnologicamente avanti, e usi la firma digitale da remoto e perciò non hai né chiavetta, né smart-card. 
Insomma, non riesco a comprendere perché, se sono debitore di un giudice  o di un cancelliere, posso inviargli la somma dovuta in pochi secondi con il mio  cellulare e se invece devo depositare una nomina devo farlo attraverso un  apparato che mi chiede atti abilitanti e caselle da riempire senza saltarne manco  una. 
Il dubbio è malizioso, me ne rendo conto, ma non riesco a liberarmene.  Che dietro tutto questo ci sia ancora e sempre la vecchia regola nascosta ma  inderogabile: È BENE GRAVARE LA CANCELLERIE DI MENO LAVORO POSSIBILE. 
(*) Carmelo Passanisi: Avvocato del Foro di Catania è stato Presidente della Camera Penale "Avv. Serfanino Famà" e Presidente del Consiglio delle Camere Penali Italiane. È un vero amico, del quale siamo lieti di ospitare le riflessioni, sempre argute.
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