Il Prof. Paolo Ferrua, ci ha fatto dono, per la pubblicazione sul blog, del suo scritto pubblicato in La Giustizia penale, 2023, III, c. 315-320
Pubblichiamo il contributo che costituisce un documento/statuto, prezioso e denso come solo le riflessioni del prof. Ferrua sanno essere.
Buona lettura
Al link il documento in versione PDF, con le note. A seguire il testo, senza note.
Franco Cordero e il processo accusatorio
Sommario: 1. 1. Tre grandi giuristi. - 2. Modelli di giustizia procedurale. -3. Il concetto di ‘verità’ nel processo accusatorio. - 4. Giurisprudenza ‘creativa’. - 5. La riforma ‘Cartabia’ e l’agonia del processo accusatorio. - 6. L’improcedibilità e l’evaporazione del processo. - 7. L’avvenire del processo accusatorio.
1. Tre grandi giuristi
In Italia l’esperienza del processo accusatorio è legata a tre grandi maestri del diritto che ricordo in ordine temporale: Luigi Lucchini, Francesco Carnelutti e Franco Cordero.
Purtroppo, sia Lucchini sia Francesco Carnelutti nell’ultima parte della loro esistenza hanno ripudiato, in forme diverse, la loro stessa creatura. Lucchini, presumibilmente sotto l’influsso del regime fascista, è giunto ad affermare che il processo accusatorio avesse ormai fatto il suo tempo e a negare il carattere di ‘parte’ non solo al pubblico ministero ma anche all’imputato. Carnelutti in età avanzata si è spinto a tal punto nel suo misticismo religioso, nella sua concezione medicinale della pena, da rinnegare un elemento che costituisce l’essenza stessa della giurisdizione, ossia l’irrevocabilità della decisione.
Franco Cordero è invece rimasto sempre fedele al modello accusatorio che proprio grazie a Lui nel 1988 è stato finalmente recepito nelle nostre istituzioni.
2. Modelli di giustizia procedurale
Tutti riconoscono che il processo accusatorio è fondato sul contraddittorio nella formazione della prova. Esistono però tre diversi modi di concepire il modello accusatorio, corrispondenti esattamente ai tre modelli di giustizia procedurale individuati da John Rawls: giustizia procedurale imperfetta, perfetta e pura.
Il primo modo, privilegiato da Cordero e, a mio avviso, dalla stessa Costituzione nell’art. 111, riconosce al modello accusatorio un fine di ricerca della verità, al quale è per l’appunto funzionale il contraddittorio: scopo del processo è di condannare il colpevole e assolvere l’innocente, ossia attuare il diritto penale sostanziale. Ma, poiché le regole, per quanto preordinate a questo fine e scrupolosamente osservate, sono fallibili, è sempre possibile che sia condannato un innocente e assolto un colpevole. Dunque, il processo rappresenta un tipico esempio di giustizia procedurale imperfetta: esiste uno scopo esterno al processo sulla cui base si misura la giustizia del risultato, ma le regole processuali non sono in grado di assicurare il sistematico raggiungimento del fine.
Vi è, tuttavia, una consistente parte del mondo forense che nega questo fine di verità al processo accusatorio, riservandolo al processo inquisitorio. Qui possiamo distinguere due diverse prospettive: quella di chi ritiene che scopo del processo sia semplicemente la soluzione del conflitto tra le parti e quella di chi nega qualsiasi scopo esterno al processo, che non sia la pura osservanza delle regole legali, interne al processo.
Nel primo caso il processo penale rappresenta un modello di giustizia perfetta, dato che le regole sono sistematicamente in grado di garantire il risultato prefissato, ossia la soluzione del conflitto tra le parti. Nel secondo caso, mancando qualsiasi scopo esterno alle regole, il processo costituisce un esempio di giustizia procedurale pura, del tutto simile ad un gioco sportivo dove il risultato è giusto per il fatto stesso che si siano rispettare le regole. Vi è in Cordero una significativa frase, all’apparenza banale, che si direbbe indirizzata a quanti negano al processo un fine di accertamento della verità: «il processo (per quanto taluni lo dimentichino) serve anche alla repressione dei reati».
Sussiste, infine, una significativa differenza sul piano dei poteri dispositivi spettanti alle parti e, in particolare, sul terreno probatorio, a seconda che si affermi o si neghi al processo accusatorio un fine di verità. Nel primo caso, il potere delle parti di deviare dal metodo del contraddittorio, che è servente a quel fine, risulta inevitabilmente più circoscritto, relegato a casi specificamente individuati; nel secondo caso, la disciplina del processo può riconoscere alle parti, attraverso il loro accordo o consenso, una disponibilità sulla prova pressoché illimitata.
Naturalmente, le regole vanno osservate scrupolosamente in tutti e tre i modelli di processo che abbiamo descritto. Tuttavia, nel primo modello alle condizioni di giustizia interna (l’osservanza delle regole processuali) si aggiunge una condizione di giustizia esterna (la condanna del colpevole e l’assoluzione dell’innocente); nel secondo e nel terzo modello assumono rilievo le sole condizioni di giustizia interna.
3. Il concetto di ‘verità’ nel processo accusatorio
Dire che il processo ha come scopo la ricerca della verità, ossia la condanna del colpevole e l’assoluzione dell’innocente, è in fondo un’osservazione ovvia, elementare: come dire che i coltelli servono per tagliare. Ciò che differenzia i diversi modelli di processo non è il fine di verità, che resta identico per ogni modello, ma il metodo attraverso il quale si realizza quel fine: tramite il contraddittorio, che si esplica con il conflitto tra le parti nel processo accusatorio (mezzo, non scopo del processo), attraverso l’indagine unilaterale del giudice in quello inquisitorio.
Perché allora tanta diffidenza verso la ricerca della verità? Credo che derivi dai disastri che nel nome della verità si sono perpetrati in passato, specie nel processo inquisitorio. Tuttavia, il fatto che un ideale sia degenerato nella storia, come d’altronde è accaduto a tutti gli ideali, non è una buona ragione per abbandonarlo, ma semmai per adottare il metodo migliore a realizzarlo, che nella specie è il contraddittorio.
Esemplare a questo riguardo la svolta inquisitoria operata nel ‘92 dalla Corte costituzionale. Con tre sentenze che sono tra le pagine più desolanti della sua giurisprudenza (nn. 24, 254 e 255 del 1992), la Corte costituzionale, dopo avere premesso che fine del processo è la ricerca della verità, liquidò il contraddittorio nella formazione della prova in quanto ostacolo al raggiungimento di quel fine; senza la minima consapevolezza che in tal modo veniva messo a rischio proprio quel valore che si voleva tutelare.
L’aspetto singolare è che una parte del mondo forense, anziché confutare l’arbitraria conclusione sul contraddittorio, attaccò la premessa, negando che fine del modello accusatorio fosse la ricerca della verità; tattica suicida, perché regalava al monopolio del processo inquisitorio il prezioso bene della verità. A ben vedere i sostenitori della prospettiva, che mette al bando la ricerca della verità nel processo accusatorio, sono più simili di quanto non credano ai fautori del processo inquisitorio. Entrambi convergono sull’infelice assunto che il contraddittorio sia incompatibile con la ricerca della verità. La differenza è che gli uni, in nome della verità, negano il contraddittorio; gli altri, in nome delle garanzie, negano il valore della verità.
Penso di conoscere la ragione di questa convergenza. Entrambi hanno visione reificata della verità ‘storica’ quasi si trattasse di un oggetto materiale, che sta da qualche parte, non visibile, ma suscettibile di essere portato alla luce, come un tesoro nascosto che affiori dall’opera di scavo. Naturale che ne esca svalutato il contraddittorio e rivalutata la ricerca anche unilaterale della verità, sino a giustificare il ricorso alle misure più brutali. È questa la ragione che spinge cultori del processo inquisitorio a svalutare il contraddittorio e una parte dei sostenitori del processo accusatorio a negare la ricerca della verità.
Si trascura il dato elementare che il fatto, appartenendo al passato, è irrimediabilmente scomparso, ‘fu’, ma ‘non è più’ reale; come tale, non può quindi in alcun modo essere ‘scoperto’, ma soltanto ‘ricostruito’ sulla base delle tracce rimaste nel presente. Ri-costruzione è la parola appropriata. Il radicale ‘costruzione’ indica che l’esito della ricerca è un’elaborazione concettuale e non l’apprensione di qualcosa di esistente; ma, al tempo stesso, il prefisso ‘ri’ collega questa elaborazione ad un passato che fu ‘reale’, vincolando il discorso ad una pretesa di verità che sarebbe assurda per un racconto di finzione; se si trattasse solo di una ‘costruzione’, non avrebbe senso parlare di vero e falso.
4. Giurisprudenza ‘creativa’
Con la riforma costituzionale cessa l’attacco frontale al contraddittorio, ma l’avversione al modello accusatorio prende altre vie, meno appariscenti, ma proprio per questo più insidiose, al punto che rispetto a questi mezzi toni quasi preferivo il sincero furore inquisitorio delle tre sentenze costituzionali.
La nuova ostilità si manifesta con la c.d. giurisprudenza ‘creativa’ che in vario modo disarma e neutralizza le garanzie del processo accusatorio. Definisco ‘creative’ le sentenze che superano quella che Kelsen chiamava la ‘cornice’ dei significati ragionevolmente ascrivibili ad una determinata disposizione; in sostanza, le sentenze che, fingendo di ‘interpretare’, si risolvono nell’arbitraria creazione di una nuova disposizione. Purtroppo, il legislatore, anziché intervenire con un provvedimento di interpretazione autentica per ripristinare il corretto significato dei suoi testi, asseconda l’indirizzo creativo recependolo con una legge, il cui contenuto innovativo documenta l’infedeltà della giurisprudenza. In una grottesca inversione del rapporto fisiologico tra le due sfere, il diritto vivente, lungi dall’uniformarsi al diritto vigente, se ne distacca al punto che è ormai il diritto vigente a inseguire e a recepire il diritto vivente. Credo che sarebbe opportuno rivitalizzare l’istituto dell’interpretazione autentica, istituendo presso il Parlamento un apposito organismo di vigilanza sulla giurisprudenza. Approvando uno dei rari interventi di interpretazione autentica in materia di custodia cautelare, Cordero ha giustamente osservato: sarebbe poco serio un legislatore che lasciasse manomettere i suoi testi.
Senza dubbio, a favorire, anzi a rendere inevitabili le interpretazioni creative è la pessima tecnica legislativa che produce testi oscuri o contraddittori e talvolta indecifrabili, perché in tal caso è l’oggetto stesso dell’interpretazione a mostrarsi evanescente, inafferrabile. Ma è altrettanto vero che spesso la creatività si sviluppa anche su testi dal significato chiaro e inconfutabile; con il risultato di deprimere l’impegno del legislatore che, scoraggiato, preferisce lasciare indeterminato il senso dei suoi precetti, rinviando alla giurisprudenza la messa a punto del significato.
Oggi sono in molti a deplorare la giurisprudenza ‘creativa’. Ma non tutti ricordano che, ad innescare l’infernale meccanismo che ha segnato il declino della legge come testo di riferimento e del processo come esperienza regolata dalla legge, sono state le sentenze ‘gemelle ‘della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007); le quali hanno affermato il carattere vincolante delle 'interpretazioni' elaborate dai giudici di Strasburgo. Riconoscere come vincolante un’interpretazione equivale a svalutare il testo della legge (costituzionale o ordinaria, sovranazionale o nazionale), a convertire un esercizio di ragione in un comando, a mortificare il principio della soggezione del giudice alla sola legge; per dirla tutta, a ridurre lo studio del diritto da elaborazione critica a mera analisi di giurisprudenza, arbitrariamente destinata a imporsi a scapito della legge.
5. La riforma ‘Cartabia’ e l’agonia del processo accusatorio
Arriviamo così alla riforma ‘Cartabia’ che Cordero non ha avuto la possibilità di commentare. Mi assumo, quindi, la piena responsabilità della critica, che, tuttavia, svolgerò avvalendomi in gran parte delle categorie e dei concetti espressi da Cordero.
Nella logica del modello accusatorio, l’indagine preliminare dovrebbe essere fluida e poco formalizzata, dato che la vera garanzia sta nella irrilevanza probatoria delle dichiarazioni e degli accertamenti svolti in quella fase: il rapido passaggio al dibattimento è il necessario presupposto sia per un uso ristretto delle misure cautelari sia per conservare la memoria dei testimoni. C’è una legge inesorabile, troppo spesso dimenticata, su cui Franco Cordero ha scritto splendide pagine: quanto più si formalizza e si appesantisce l’indagine preliminare, tanto più si svilisce e perde autonomia il dibattimento, mentre si incrementa il ricorso alle misure cautelari.
La riforma ‘Cartabia’ prende la strada opposta e percorre le vie retrograde del ‘garantismo inquisitorio’ nella fase delle indagini preliminari; moltiplica gli adempimenti, i termini (quasi sempre puramente ordinatori), le formalità e le c.d. finestre giurisdizionali, destinate agli interventi e ai controlli del giudice. L’indagine si frammenta in una sequenza di micro-procedure, accompagnate da distinzioni spesso oziose o inafferrabili. L’asse del processo si sposta verso l’indagine preliminare, appesantendola e trasformandola in un labirinto: si incrementa così il ricorso alle misure cautelari, la prospettiva del dibattimento si allontana, la memoria dei testimoni si affievolisce e cresce il rischio di irripetibilità delle dichiarazioni già raccolte. Lungi dal depenalizzare, la riforma ‘Cartabia’ de-processualizza, incentiva con ogni mezzo la fuga dal dibattimento che, come noto, sta al centro del modello accusatorio.
La ragione di questa ipertrofia delle indagini preliminari è abbastanza trasparente. Si ottiene il duplice risultato di affossare definitivamente il processo accusatorio e, insieme ad esso, ogni prospettiva di revisione dell’ordinamento giudiziario. L’idea è di indurre a credere che i controlli del giudice e le finestre giurisdizionali possano propiziare un pubblico ministero modellato più come organo di giustizia che come organo di accusa e costituire così una valida alternativa alla separazione delle carriere, sollecitata con forza dalle Camere penali e altrettanto avversata dai magistrati. Ma - prescindendo dalle riserve sulla mitologica figura del pubblico ministero parte-imparziale (chi non sia giudice è, per esclusione, una parte) - è una scelta decisamente infelice: separate o no che siano le carriere, nella fase delle indagini preliminari si registrerà sempre, sia per la vicinanza al fatto di reato sia per la pressione dell’opinione pubblica, una maggiore sensibilità alle ragioni dell’accusa. La vera garanzia, come insegna Cordero, sta nel celere passaggio alla fase del dibattimento e nella barriera che deve garantirne la sua autonomia rispetto agli esiti delle indagini preliminari.
6. L’improcedibilità e l’evaporazione del processo
Stendo un velo pietoso sulla c.d. ‘improcedibilità’ temporale: in un corrosivo articolo del 2009 su la Repubblica con riguardo ad un analogo disegno di legge, Franco Cordero l’aveva definita un fenomeno di ‘alta stregoneria’, osservando come manchino persino le parole tecniche con cui spiegarla.
L’impatto dell’istituto, operante in sede di impugnazione, è a dir poco dirompente. Non appena siano decorsi certi termini, fissati per l’appello e per il ricorso in cassazione, il giudice deve emanare una sentenza di improcedibilità per effetto della quale il processo evapora e svanisce nel nulla, incluse le eventuali condanne e il risarcimento del danno: poco importa che l’imputato sia colpevole o innocente, l’improcedibilità prevale su ogni altra formula di merito. Pur restando in vita l’ipotetico reato, l’azione penale, validamente promossa, rimane senza risposta in palese contrasto con l’art. 112 Cost. ‘Punibile, ma non processabile’ è la stupefacente cifra in cui si risolve l’improcedibilità.
7. L’avvenire del processo accusatorio
La sorte del processo accusatorio in Europa è stata decisamente ingrata. Introdotto in Francia con la Rivoluzione nel 1791 fu progressivamente modificato sino a convertirsi, con il codice napoleonico del 1808, nel c.d. processo misto, una forma particolarmente ipocrita di processo inquisitorio. Altrettanto infelice la sorte in Italia: entra in vigore sotto lo sguardo omicida di numerosi magistrati, è demolito dalla Corte costituzionale nel ‘92, risuscita con la riforma costituzionale del giusto processo, ma per le ragioni appena richiamate è nuovamente agonizzante dopo la riforma Cartabia.
Resta da chiedersi quali siano i motivi di questa sfortuna del processo accusatorio. Credo che le ragioni siano due, una giuridica, l’altra ideologica.
La ragione giuridica, messa bene in luce da Cordero, dipende dal fatto che, a differenza del processo inquisitorio, il modello accusatorio è un meccanismo delicato. Il processo inquisitorio è come una porta sbarrata dall’esterno. Se ne esce solo attraverso un’azione di rottura, ossia attraverso una riforma complessiva, un nuovo codice di procedura penale. Il processo accusatorio può invece facilmente degenerare. Bastano pochi ritocchi per spostare l’asse del processo verso l’indagine preliminare o per accentuarne il peso sul dibattimento, come per l’appunto è avvenuto con la riforma Cartabia, e il processo inquisitorio si converte in un processo di tipo misto
La seconda ragione è ideologica. Quello che non si perdona al processo accusatorio, ma al tempo stesso costituisce il suo eterno titolo di gloria, è di amministrare la giustizia alla luce del giorno, di rendere visibile ogni passo che determina la condanna o l’assoluzione; è questo che lo rende insopportabile agli occhi di quanti amano la giustizia resa nell’occulto o in trattative riservate.
Il processo accusatorio vuole l’aria e la luce, altrimenti muore. Appare grave, ma non stupisce che la riforma ‘Cartabia’ abbia eliminato la regola della pubblicità per l’appello, ormai destinato a svolgersi in camera di consiglio e senza la partecipazione delle parti, nonostante costituisca un tipico giudizio di merito, analogo a quello di primo grado. Il fatto che le parti possano chiedere l’udienza partecipata o il giudice possa disporla d’ufficio non elimina il vulnus alla pubblicità che trascende l’interesse dei protagonisti del processo, coinvolgendo quello di ogni cittadino. È di moda oggi deplorare la giustizia mediatica, resa nei salotti televisivi o radiofonici; ma, se si nega la pubblicità nelle aule di giustizia, non ci si deve meravigliare se a surrogarla provvedono le deformazioni dei mass-media.
Un ultimo rilievo. Può darsi che, con il progredire di quella potenza planetaria che è l’intelligenza artificiale, anche il processo accusatorio sia destinato un giorno a vedere il passo alla giustizia amministrata dai computer; è possibile, ma dubito che quello fondato sull’intelligenza artificiale sarebbe un processo più giusto e democratico. L’intelligenza artificiale può dividere con un taglio netto il logico dall’illogico, il razionale dall’irrazionale, individuare errori e fallacie nella giurisprudenza, svolgere in pochi secondo innumerevoli inferenze; resta il fatto che i computer sono troppo intelligenti o troppo stupidi per dare un senso all’aggettivo ‘ragionevole’ che, come in una supplica, tempera e modera l’assenza di ogni dubbio nella celebre formula, al cui rispetto è subordinata la condanna; a sviluppare questa valutazione l’intelligenza artificiale non riuscirà mai, mai! Per fortuna, l’inquietante prospettiva di essere giudicati dai computer non è ancora all’ordine del giorno, e questo ci invita a difendere il processo accusatorio che, grazie a Franco Cordero, sta scritto nella nostra Costituzione. Finché resti in vigore l’art. 111 Cost., non è il caso di arrendersi: nella storia del processo il modello accusatorio è come una luce intermittente, che a tratti si ecclissa, ma poi torna a risplendere.
PAOLO FERRUA