17 maggio 2024

Elezione domicilio per impugnare. Non si applica all'imputato presente. La seconda sezione pone un freno agli oneri Cartabia.


E' noto che tra i nuovi oneri a carico della parte che propone impugnazione vi sia, ex art. 581 1 ter c.p.p., quello di depositare, con l'atto di impugnazione, anche la dichiarazione o l'elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.

Per quanto la norma non richieda esplicitamente che la citata dichiarazione/elezione di domicilio sia rilasciata DOPO la pronuncia della sentenza che si intende avversare, per come invece previsto dal succesivo comma per l'imputato assente, la giurisprudenza di legittimità aveva già ritenuto che <<tale soluzione sia l'unica coerente con la ratio della norma e con una lettura sistematica delle nuove disposizioni in tema di notificazioni introdotte dal d. Igs. 10 ottobre 2022, n. 150>> (Penale Sent. Sez. 6 Num. 7020 Anno 2024).

Di talchè l'imputato, sia presente che assente, dovrebbe comunque eleggere domicilio dopo la sentenza che intende impugnare.

Nondimeno, la seconda sezione, rimeditando tale arresto, in particolare Cass. sez 5 n. 3118/2024 del 10/1/2024, ha ritenuto che:

- l'interpretazione letterale dell'art. 581 comma 1 ter cod.proc.pen. induce a ritenere sufficiente depositare la dichiarazione o l'elezione di domicilio effettuata nel corso del procedimento, anche se in epoca precedente alla sentenza di primo grado e nella fase delle indagini preliminari; 

- l'interpretazione teleologica perviene al medesimo risultato, poiché l'onere posto dall'art. 581 comma 1 ter cod.proc.pen. è previsto per agevolare la vocatío in iudicium e non per garantire la consapevolezza da parte dell'imputato di impugnare la decisione di primo grado, al quale il predetto ha partecipato. Affermare che l'elezione di domicilio da allegare all'appello debba essere effettuata in epoca successiva all'emissione della sentenza di primo grado è invece frutto di una interpretazione non coerente alla ratio della norma che mira ad agevolare la vocatio in iudicíum e quindi la notifica del decreto di citazione, e non anche a verificare la volontà di impugnare dell'imputato assente, come appunto l'art. 581 comma 1 quater cod.proc.pen.. 

- non è inoltre condivisibile una interpretazione diretta ad applicare ad un caso non espressamente previsto dalle norme processuali regolatrici della fattispecie, l'obbligatorietà di un adempimento stabilito a pena di inammissibilità. Le cause di inammissibilità, rientranti nel novero generale dei casi di invalidità degli atti processuali, sono infatti soggette ad uno stretto principio di tassatività e non possono essere oggetto di interpretazione estensiva (sentenza al link)

Ci pare un arresto condivisibile e che conserva traccia di quello che fu il favor impugnationis. 

16 maggio 2024

Saluto romano e principio di offensività: il commento di Mari Miceli alla sentenza delle sezioni unite

 



Avevamo già dato notizia della decisione delle sezioni unite (al link) relativamente alla questione della rilevanza penale del c.d. "Saluto romano".
Con la sentenza n. 16153 , depositata il 17 aprile 2024 (al link), le sezioni unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «la condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta
alla ‘chiamata del presente’ e nel cosiddetto ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.I. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen.(già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)».
La decisione sopra menzionata appare in linea con il principio di necessaria offensività della condotta, quale corollario del principio di sussidiarietà e di legalità. Tale principio non trova una espressa formulazione all’interno della Carta costituzionale ma può essere ricavato dalla lettura
degli artt. 25 e 27 Cost..
Del resto il richiamo al principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione, basta a rilevare come nessuno possa essere punito per un fatto che non sia previsto dalla legge come reato, nonché come il reato previsto dalla norma penale individui una soglia di rilevanza non solo a protezione del bene giuridico
protetto ma anche nell’individuazione dell’azione idonea a lederlo.
Proprio in ragione dei principi appena espressi, può essere rintracciata la ratio del principio di offensività anche in riferimento ai reati di mera condotta e dei reati di pericolo astratto e presunto, così come espresso dal Supremo Collegio.
In merito, vi è da precisare che i reati di pericolo astratto e presunto sono stati oggetto di ampio dibattito in dottrina, soprattutto in merito ad un anticipazione della tutela del bene giuridico e della relativa applicazione all’eventuale reo della sanzione penale.
Per quanto attiene ai reati di pericolo astratto e presunto è bene precisare che la dottrina pone una differenza tra pericolo astratto e concreto, arrivando a discutere di reati di “pericolo di pericolo”.
La giurisprudenza si è spinta ancora oltre al fine di determinare proprio i limiti della soglia dell’offensività della condotta, ponendo l’accento proprio sulle caratteristiche e i mezzi per i quali la stessa risulti lesiva
dei beni giuridici protetti dalle norme prese in considerazione.
Tali elementi non devono apparire superflui, poiché, proprio in ragione dell’anticipazione della soglia di punibilità dei reati di pericolo astratto e presunto, gli elementi a cui l’interprete deve guardare al fine di verificare l’effettiva lesione del bene giuridico non possono che essere tecnici e concreti.
Tali elementi risultano essere fondamentali per superare la soglia di messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma, e al fine di verificare l’effettiva offensività della condotta.
In conclusione, il principio di offensività trova espressione quale corollario del principio di legalità ma anche della teoria del bene giuridico.
Tale principio però, non può essere inteso come un “principio di precauzione”, nonostante questo venga richiamato dal Trattato istitutivo della Comunità europea, poiché rischierebbe di anticipare eccessivamente la tutela della soglia della punibilità.
Il principio di precauzione può trovare una propria autonomia, soltanto nella società c.d. del “rischio”, ovvero, qualora ci si trovi dinnanzi a situazione di incertezza della prova.

15 maggio 2024

L’assunzione di incarichi in violazione del dovere di competenza professionale

 

Costituisce violazione degli artt. 14 e 26 cdf il comportamento dell’avvocato che assuma incarichi senza averne l’adeguata competenza tecnica.
La sentenza del CNF al link

14 maggio 2024

Per la V sezione la riforma Cartabia ha limitato il potere di appello anche della parte civile.


Il Tribunale di Lodi dichiarava inammissibile l'appello della parte civile avverso una sentenza di proscioglimento per il delitto di diffamazione resa dal Giudice di pace. I giudici territoriali avevano ritenuto che l'art. 593 u.c., come novellato dalla riforma c.d. Cartabia, secondo cui sono "in ogni caso" inappellabili le sentenze di proscioglimento inerenti reati puniti con pena pecuniaria o alternativa, si applichi anche alla parte civile, sebbene i precedenti commi della citata norma facciano riferimento soltanto al pubblico ministero e all'imputato. 

Avverso tale declaratoria di inammissibilità interponeva ricorso la parte civile, deducendo che <<l'unica disposizione che il legislatore detta in modo specifico con riferimento all'impugnazione agli effetti civili (ivi compreso l'appello) della predetta parte contro le sentenze di proscioglimento è quella di cui all'art. 576 cod. proc. pen. il cui dettato non è stato modificato dal d.lgs n. 150 del 2022>>, aggiungendo che <<le limitazioni di cui al comma 3 dell'art. 593 cod. proc. pen. sarebbero dunque riferibili, come si evincerebbe dalla lettura dell'intero articolo, solo all'imputato e al pubblico ministero anche perché, ove il legislatore avesse voluto estendere ed equiparare l'inappellabilità agli effetti penali delle sentenze di proscioglimento a quella per i soli effetti civili, lo avrebbe dovuto affermare espressamente>>.      

La Corte di legittimità ha diversamente opinato, considerando irragionevole ascrivere alla parte civile un potere di appello più esteso di quello del pubblico ministero e financo della parte civile che, valendosi dei poteri di cui all'art. 21 d.lgs. n. 274 del 2000, abbia introdotto una pretesa non dipendente dall'iniziativa della pubblica accusa. Peraltro l'art. 576 disciplina un generico potere di impugnazione della suddetta parte eventuale, mancando invece una specifica disposizione che ne regolamenti l'appello.  (sentenza al link)


13 maggio 2024

❌Incostituzionale il delitto di rapina nella parte in cui non prevede una diminuente per il fatto di lieve entità❌


Con apposito comunicato la Corte costituzionale ha reso noto di avere dichiarato incostituzionali il primo e il secondo comma  dell'art. 628 c.p. (rapina propria e rapina impropria) nella parte in cui non prevedono che la pena da essi comminata sia diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Al rigaurdo la Corte  ha osservato che in simili fattispecie il minimo edittale di pena detentiva per la rapina, dal legislatore innalzato alla misura di cinque anni di reclusione, può costringere il giudice a irrogare una sanzione in concreto sproporzionata, sicché gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione esigono l’introduzione di una diminuente ad effetto comune, fino ad un terzo, quale “valvola di sicurezza” per i fatti di lieve entità.

Comunicato al link)

La Relazione del Massimario sul contrasto in tema di ampiezza del diritto di difesa del terzo.


Nella relazione che alleghiamo, l'Ufficio del Massimario ricostruisce i diversi arresti giurisprudenziali in ordine alla legittimazione del terzo a contestare i presupposti per l'applicazione della misura di prevenzione al proposto.  

Secondo l'indirizzo maggioritario «in caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittiziamente intestati a un terzo, quest'ultimo può rivendicare esclusivamente l'effettiva titolarità e la proprietà dei beni sottoposti a vincolo, assolvendo al relativo onere di allegazione, ma non è legittimato a contestare i presupposti per l'applicazione della misura, quali la condizione di pericolosità, la sproporzione fra il valore del bene confiscato e il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso, che solo il proposto può avere interesse a far valere» (così Cass. VI n. 48761/23).

Per l'arresto minoritario invece «in tema di confisca di prevenzione, il terzo che rivendica l'effettiva titolarità e la proprietà dei beni oggetto di vincolo è legittimato ed ha interesse non solo a contestare la fittizietà dell'intestazione, ma anche a far valere l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione della misura nei confronti del proposto» (così Cass. V n. 12374 del 14/12/2017).

La relazione poi ricostruisce un’esegesi intermedia, costituita da altre pronunce a mente delle quali il terzo intestatario è legittimato a interloquire anche sulla perimetrazione temporale della pericolosità sociale (Cass. I n. 19094/2020), avendo interesse a che il bene oggetto della istanza di prevenzione si collochi fuori dalla stessa, piuttosto che sulla sproporzione valoriale tra capacità finanziarie e investimenti del proposto (cfr. Cass. II n. 25529/22).   (Relazione Massimario al link)

10 maggio 2024

Anche dopo la Cartabia, l'ordine di demolizione resta compatibile col patteggiamento. Cassazione dixit.


In un precedente post ci eravamo interrogati se, successivamente alla riforma c.d. Cartabia, il giudice potesse irrogare con la sentenza di patteggiamento l'ordine di demolizione. 

Al riguardo avevamo evidenziato che:  

- ante riforma il patteggiamento equivaleva ad una pronuncia di condanna, salvo diversa previsione (cfr. previgente art. 445 c.p.p.); 

- il T.U. edilizia prevede che in caso di condanna il Giudice ordini la demolizione delle opere abusive;

- la giurisprudenza ha reiteratamente richiamato la predetta equivalenza per affermare la compatibilità tra l’ordine di demolizione e la sentenza di applicazione pena. Al riguardo Cassazione penale 6128/2016 ha affermato che:

<<Ai sensi del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 31, comma 9, (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), per le opere abusive di cui alla citata norma il giudice, con la sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere stesse, se ancora non sia stata altrimenti eseguita.

Siccome l'art. 445 c.p.p., comma 1 bis, equipara la sentenza emessa a seguito di "patteggiamento" alla sentenza di condanna, l'ordine di demolizione di un manufatto abusivo di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 31, comma 9, va disposto anche in caso di applicazione della pena concordata dalle parti>>.

Tuttavia, successivamente alla riforma dell'art. 445 c.p.p. tale scenario poteva essere messo in dubbio.

Infatti, sebbene l'ordine di demolizione rientri tra le sanzioni amministrative e quindi non possa essere "patteggiato", il d.l.vo 150/22 ha fatto venire meno l'equivalenza tra la sentenza di condanna e quella di applicazione pena, in tutte le circostanze in cui non sia applicata una pena accessoria (o perché esclusa ex lege, in caso di patteggiamento ordinario, o perché esclusa in forza di accordo in tal senso). 

Ed allora, se a mente dell'art. 31 comma 9 del T.U. edilizia, il presupposto per irrogare l'ordine di demolizione risiede in una condanna o in una pronuncia ad essa equivalente, è evidente che in tutti i casi in cui la sentenza di applicazione pena non equivalga ad una condanna, difetterà il presupposto dell'ordine

Tuttavia, la Corte di legittimità ha opinato differentemente.

Nel caso di specie, il Tribunale applicava con la sentenza ex art. 444 c.p.p. le pene di legge, ma non ordinava la demolizione del fabbricato. Il Procuratore generale presso la Corte di appello interponeva ricorso per cassazione, adducendo violazione di legge (art. 98 d.P.R. 380/2001). La difesa, con memoria, invocava la inammissibilità del ricorso, poichè sottoponeva allo scrutinio della corte di legittimità una questione di merito, e poi la infondatezza della questione dedotta, giusta il disposto del novellato art. 445 c.p.p.

La Corte accoglieva il ricorso poichè <<l'ordine di demolizione rientra certamente nei poteri del giudice
penale
e non riguarda il concorrente potere amministrativo (leggi diverse da quelle penali): "L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna, ai sensi dell'art.31, comma nono, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, atteso che assolve ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso" (Sez. 3, Sentenza n. 37120 del 11/05/2005 Cc. (dep. 13/10/2005 ) Rv. 232172 - 01).Conseguentemente la disposizione del comma 1 bis, dell'art. 445 cod. proc. pen. non incide sulla demolizione
>>. (sentenza al link)

Orbene, val la pena anzitutto dubitare della proponibilità del ricorso interposto dal PG, poichè la violazione di legge non pare rientrare tra i casi di ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento, ex art. 448 co. 2 bis

Per quanto riguarda il merito della vicenda, pare di capire che la Corte ritenga come il nuovo comma I bis dell'art. 445 non regoli la fattispecie, poichè esso esclude l'equivalenza tra la condanna e il patteggiamento- sul presupposto che non siano state applicate pene accessorie- rispetto alle disposizioni di legge diverse da quelle penali, mentre  l'art. 98 T.U.E. sarebbe norma penale. Tuttavia, ad avviso di chi scrive, tale prospettazione avrebbe meritato approfondimento, poichè non pare così evidente che una norma che facultizza il giudice penale ad applicare una sanzione pacificamente amministrativa sia per ciò solo da qualificarsi come penale

 

 

   

 

 


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