15 luglio 2021

La riforma del Processo Penale. 11. La riforma dei termini: tutte le risposte

Da qualche mese ci stiamo occupando della riforma del processo penale esaminato dalla commissione c.d. Cartabia e prossimamente all'attenzione del Parlamento (non sono ancora noti gli emendamenti governativi).

Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.

Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.

Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.

Proseguiamo oggi con la sezione La riforma dei termini, per la quale abbiamo rivolto le nostre domande a Diana Bottillo (giudice), Umberto De Giglio (pm), Ottavia Murro (avvocato) e Filippo Giunchedi (docente).




1-Il legislatore intende delegare ai magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, l’adozione di misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali nei termini indicati dall’art. 12, condivide tale intendimento e se si quali sarebbero, a suo giudizio, le concrete misure organizzative che il singolo magistrato potrebbe adottare?

La risposta del Giudice: Non vi è dubbio che le maggiori criticità del sistema processuale penalistico italiano s’incentrino sui tempi dilatati di definizione dei procedimenti e che obiettivo marcato del disegno di legge sia quello di assicurare una progressiva semplificazione e celerità del procedimento penale, sinonimo di efficienza, nell’ottica di rendere funzionale ed effettiva la risposta di giustizia dello Stato. 

Il disegno di legge si propone di demandare ai magistrati il compito di adottare misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi nel rispetto di termini prestabiliti e contingentati che, nello schema legislativo, potranno essere rivisitati e rimodulati dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il Ministro della giustizia, in ragione della natura e della prevedibile complessità dei procedimenti nonché sulla base delle risorse disponibili e degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi dei rispettivi uffici giudiziari. 
Appare significativo che, in sede di relazione finale del 24 maggio 2021 della Commissione di studio Lattanzi all’uopo istituita, tra le proposte emendative al disegno di legge A.C. 2435, oltre alla prospettiva di un ampliamento della delega tale da includere anche modifiche delle norme di attuazione del codice di procedura penale nonché la revisione del regime sanzionatorio dei reati e l’introduzione di una disciplina organica dell’ufficio del processo penale e della giustizia riparativa, vi è specificamente la soppressione del menzionato art.12 “in quanto il tema della durata del processo – e dei relativi termini – è affrontato, nella proposta della Commissione, nell’ambito della disciplina dei rimedi compensatori e risarcitori conseguenti al mancato rispetto dei termini di ragionevole durata del processo penale (nuovo art. 14-ter), nonché nella proposta sub B in tema di prescrizione del reato (art. 14)”.
In sede di proposta emendativa, è stato, per vero, elaborato un nuovo articolo 670-bis c.p.p. - Riduzione della pena per irragionevole durata del processo – in base al quale il condannato ha diritto di richiedere al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della sanzione penale inflitta, ridotta alla stregua di un meccanismo proporzionale ivi tracciato, a compensazione del pregiudizio subito per la durata prolungata del procedimento, con un rinvio alle disposizioni della legge Pinto.
Una seconda proposta di riforma elaborata dalla Commissione Lattanzi, correlata alla soppressione dell’art.12, ben più radicale nella sua portata, concerne la prescrizione del reato il cui corso è destinato a cessare definitivamente con l’esercizio dell’azione penale, prevedendosi, nondimeno, l’introduzione dell’art.344-bis c.p.p. a regolamentare la improcedibilità dell’azione penale a fronte del decorso di termini massimi dall’esercizio dell’azione penale stessa come precisati nel testo proposto, peraltro superiori rispetto a quelli della legge Pinto, nell’ottica prioritaria di ridurre i tempi di definizione dei giudizi allineandoli agli standard europei, quale rimedio estremo per la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo.  
Vale appena rammentare che ulteriori correttivi sono stati introdotti nella versione definitiva approvata all’unanimità  dal Consiglio dei ministri in data 8.07.2021.
Tra gli emendamenti al disegno di legge di delega al governo della riforma giustizia, sul tema dibattuto della prescrizione, ne è stato previsto il blocco una volta emessa la sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Contestualmente, è stata  introdotta una causa di improcedibilità, decorso il termine massimo di due anni per il processo d’appello e di un anno per il giudizio in Cassazione, salvo proroghe per processi complessi e con esclusione dei reati puniti con l’ergastolo.
Nell’attesa di verificare in che termini sarà, poi, articolata la riforma, non posso non esprimere qualche perplessità sul testo dell’art.12 del disegno di legge per come era stato strutturato, giacchè il problema non è tanto l’adozione in sé di misure di organizzazione per la definizione rapida dei processi che già costituiscono una priorità nei progetti gestionali degli uffici giudiziari e, comunque, l’obiettivo di ciascun magistrato nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, quanto, invece, il carico poderoso dei ruoli, specie in talune realtà giudiziarie in chiara sofferenza numerica in rapporto, poi, alle risorse disponibili di personale amministrativo e di magistrati, sovente inadeguate. 
Altro aspetto che pure va segnalato è la struttura stessa del processo penale, il giusto processo evocato dall’art.111 della Costituzione, fondato sul modello accusatorio e, dunque, sul principio ineludibile del contraddittorio nella formazione della prova le cui scansioni, tuttavia, paiono mal adattarsi a carichi elevati di processi e all’esigenza prioritaria di speditezza e di celebrazione dei giudizi in tempi rapidi, in nome della produttività. Ciò in specie nel dibattimento di primo grado, momento centrale di formazione della prova, ove si rivela talora difficile, in concreto, il contenimento in tempi ristretti di talune tipologie di giudizi obiettivamente complessi in punto di assunzione della prova nonostante gli sforzi profusi dai giudici di organizzazione razionale dell’udienza anche con la previsione di calendari concordati di trattazione.
L’esperienza giudiziaria insegna, peraltro, come sovente la durata del processo sia condizionata anche da fattori esterni non sempre prevedibili ad onta di qualsivoglia pianificazione ragionata e, in primo luogo, dalle problematiche relative alle notificazioni dell’atto introduttivo del giudizio all’imputato. Nondimeno, il plausibile trasferimento del giudice ad altra sede, possibili impedimenti delle parti, rinvii per l’assenza o per il rintraccio di testimoni irrinunciabili, integrazioni necessarie della prova, improvvise indisponibilità delle aule giudiziarie oppure questioni di natura tecnica legate alla partecipazione a distanza di imputati, sono tutte evenienze, solo per fare qualche esempio, che determinano una inevitabile dilatazione dei tempi di definizione del processo a discapito della produttività.
Non credo possa sinceramente ovviarsi alla lentezza dei processi prevedendo tempi contingentati di definizione e riversando sui magistrati, quale (unica) soluzione prescelta, la predisposizione di misure organizzative volte ad accelerare la risposta di giustizia peraltro già attuate nella rispettiva gestione del ruolo e che, in un’ottica di programmazione preventiva, stando al testo di legge, sarebbero finanche diversificate in base alle esigenze di ciascun ufficio giudiziario.
Certamente è indefettibile la previsione sistematica di calendari pianificati nel contraddittorio tra le parti di trattazione dei processi, specie di quelli di maggiore complessità in termini di assunzione della prova così da cadenzarne in modo ragionato la definizione. Nondimeno, pare opportuno valorizzare, nel dibattimento penale di primo grado, le udienze – filtro per i giudizi di minore complessità non solo per la verifica dell’accesso ai riti deflattivi o a sistemi alternativi di definizione dei processi ma anche per la concreta programmazione dell’esame dei testimoni la cui audizione è di reale interesse delle parti, attivando al riguardo il contraddittorio anche nell’ottica di eventuali possibili consensi acquisitivi di atti processuali, così da predisporre il rinvio per gli incombenti istruttori in modo mirato in vista della rapida definizione del processo.
Ritengo, tuttavia, che misure organizzative di razionale gestione del ruolo, già – ripetesi - in concreto attuate dai magistrati, non siano, in ogni caso, da sole sufficienti ad assicurare il risultato della celere definizione dei processi né risolutive delle disfunzioni della giustizia penale a fronte di ruoli numericamente gravati e di carenze endemiche di organico. 
L’obiettivo di speditezza e di celerità di definizione dei processi non può che essere conseguito, con ragionata probabilità, oltre che naturalmente attraverso il potenziamento delle risorse, con la predisposizione di riforme strategiche del sistema processuale quale improntato alla previsione della obbligatorietà dell’azione penale, indirizzate verso la semplificazione dei sistemi di notificazione all’imputato efficienti e comunque idonei a garantirne la conoscenza del processo, la valorizzazione e la estensione diffusa di meccanismi deflattivi, anche in fase di indagini preliminari, l’accesso ampliato ai riti premiali e, in generale, ai sistemi di definizione alternativa del processo, il ricorso a condotte riparatorie, l’estensione dell’ambito di applicabilità della pronuncia ex art.131 bis c.p., profili indubbiamente valorizzati nella loro centralità dalla Commissione Lattanzi.
Il progetto di legge sembra implicitamente attribuire la responsabilità dei ritardi esclusivamente ai magistrati e alla disorganizzazione del lavoro giudiziario ad essi imputabile. Se ciò può avere in parte un suo innegabile fondamento, non si tiene conto, tuttavia, della incidenza anche di altri fattori che esulano dalle competenze del singolo magistrato titolare del ruolo. L’amministrazione della giustizia non dipende esclusivamente dalla gestione dei processi da parte dei magistrati i quali devono confrontarsi con le disposizioni dirigenziali e con le risorse disponibili in ciascun ufficio giudiziario, spesso carenti, a cominciare dalla consistenza del personale di cancelleria che assiste il giudice anche quello più determinato a procedere a spron battuto all’insegna della produttività.

La risposta del PM: L’intero disegno di legge persegue il fine, dichiarato, di comprimere i tempi di durata del giudizio penale (inteso in senso ampio, comprensivo anche della fase delle indagini preliminari).Tale obiettivo, stabilito in ragione di quella che viene considerata la maggiore criticità del sistema processuale penale e cioè la lentezza dell’azione giudiziaria, viene espressamente indicato nella relazione di presentazione, in cui si prospetta una riforma che renda il processo penale più veloce ed efficiente, con una formulazione in cui i due termini, in pratica, costituiscono una endiadi. Anche nella relazione tecnica si evidenzia ripetutamente l’obiettivo di potenziare il procedimento e renderlo più adeguato e veloce ovvero di semplificare le procedure improntandole a criteri di maggiore celerità ed efficienza. In sostanza, la contrazione dei tempi di durata del procedimento/processo (perseguita essenzialmente con la semplificazione delle procedure piuttosto che con il potenziamento delle risorse) costituisce la più adeguata risposta all’esigenza di certezza dell’azione penale e di sicurezza espressa dalla società. In tale contesto, la disciplina da adottare nel rispetto dei principi e dei criteri indicati dagli artt. 12 e 13 del disegno di legge (termini di durata del processo e trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna) rappresenta una parte significativa dell’impianto normativo, anche per la sua idoneità ad evidenziare chiaramente uno dei criteri operativi dell’intero progetto di riforma, cioè quello di rendere più funzionale (all’obiettivo perseguito) l’impiego delle risorse già disponibili (al netto delle misure straordinarie previste dagli artt. 15 e 16 del disegno di legge). Nello specifico, le risorse disponibili sono i magistrati nell’esercizio delle rispettive funzioni cui è demandato il compito di adottare misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi nel rispetto di termini predeterminati (sostanzialmente modulati, nello schema normativo dell’art. 12, in ragione della natura e prevedibile complessità dei reati a cui si riferiscono). La soluzione non appare condivisibile in quanto non incide sulle cause effettive del problema e non risulta adeguata a realizzare un effettivo miglioramento del sistema. Le misure organizzative, che ogni magistrato nell’esercizio delle rispettive funzioni è comunque tenuto ad adottare (anche senza una formale ufficializzazione), devono servire, in generale, ad ottimizzare l’impiego delle risorse al fine di migliorare il servizio. In questo senso, l’esistenza di misure dirette specificamente ad assicurare una tempestiva (anche se non prefissata) definizione dei processi risulta riscontrabile nella (quasi) totalità dei progetti organizzativi degli uffici o, comunque (ed a prescindere dalla una loro formalizzazione) nelle concrete scelte organizzative attuate dai giudici. Questo rivela, con chiarezza, come il problema della eccessiva durata dei processi non sia riconducibile alla mancata adozione di specifiche misure organizzative riguardanti i termini, quanto, piuttosto, a questioni di carattere generale attinenti alla oggettiva incapacità del sistema giudiziario, così come strutturato, a fornire risposte adeguate (in termini di quantità e qualità del servizio) alle domande (di Giustizia) generate dal contesto socio-economico-istituzionale del nostro Paese. Per altro verso, non può non rilevarsi come qualsiasi progettazione di misure organizzative dirette ad assicurare la definizione dei processi entro determinati termini non potrebbe, in ogni caso, escludere la incidenza di tutte quelle cause che in concreto condizionano, in via prevalente, la durata del processo (trasferimento del giudice, problemi di notifica degli avvisi o delle citazioni, assenza dei testimoni, impedimenti delle parti, etc.). Al pari di altre modifiche già attuate ovvero progettate (in funzione di una prospettata razionalizzazione delle risorse, di una maggiore semplificazione delle procedure nonché di un possibile contenimento dell’afflusso di cause in sede processuale), la previsione di termini rigidi di durata del processo (sostenuta dall’obbligo di adottare specifiche misure organizzative per il rispetto di tali termini) non sembra possa rappresentare una soluzione di effettivo impatto sistematico (senza contare l’aggravio burocratico connesso all’obbligo, gravante sul singolo magistrato, di predisporre ed aggiornare i documenti organizzativi). Volendo, comunque, individuare alcune delle misure organizzative concretamente adottabili, le stesse risulterebbero inevitabilmente ricomprese nello spazio di intervento del magistrato in rapporto alle proprie funzioni. Per quanto attiene al dirigente dell’ufficio, le misure potrebbero avere ad oggetto la predisposizione di criteri di razionale assegnazione dei processi nonché la idonea programmazione della frequenza delle udienze (sempre in rapporto alle strutture ed alle risorse disponibili). Al giudice (monocratico o collegiale) residuerebbe la possibilità di adottare misure organizzative di ridotta portata, quali la individuazione di criteri di adeguata predisposizione dei ruoli di udienza ovvero la indicazione delle regole per la fissazione di calendari programmatici per svolgimento dei processi più articolati (risultando interessante, al riguardo, la previsione, contenuta alla lettera a dell’art. 5 del disegno di legge, dell’obbligo di preventiva comunicazione alle parti del calendario delle udienze nei processi in cui non sia possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, con le finalità, evidenziate nella relazione di presentazione, di coinvolgere le parti nella gestione del ruolo e soddisfare le esigenze di trattazione sequenziale e, comunque, ragionata dei processi). 

La risposta dell'Avvocato: Prima rispondere alla domanda credo che vadano fatte delle considerazioni preliminari. Il problema non è solo la durata del processo penale ma anche (e soprattutto) la sua qualità, ovvero il concreto rispetto dei principi che governano il nostro rito, ossia contradittorio, oralità, immediatezza e non colpevolezza. Quello che preoccupa è l’erosione constante di tali principi non solo nelle aule dei tribunali, ma anche nell’immagine che attraverso i media si vuol dare del processo penale (e forse tale ultimo aspetto rischia di diventare quello più preoccupante). Un processo che rispetti rigorosamente tutte le regole e i principi che lo governano può essere assoggettato anche a termini di celebrazione molto brevi. Altra premessa, che credo sia doverosa, è strettamente connessa alla concreta applicabilità di una norma astrattamente prevista. L’attuale carico giudiziario non consente di rispettare i termini di cui all’art. 12; pertanto, sarebbe opportuno e doveroso iniziare a ragionare in termini di “diritto penale minimo”, archiviazione condizionata, di mediazione penale in fase di indagine, di accessibilità a tutti i riti premiali in fase di indagine, ivi comprese le condotte riparatorie (ampliando chiaramente i benefici in caso di richiesta di rito in fase di indagine); al fine di avere un contenzioso ridotto.

Premesso ciò, è auspicabile e necessario adottare una cadenza dei tempi processuali al fine di conferire una maggiore celerità al processo stesso. Invero, nella prassi, molti processi vengono calendarizzati, proprio per consentire alle parti una migliore organizzazione e gestione del processo stesso. Non credo, tuttavia, che delegare ai soli magistrati “l’adozione di misure organizzative” sia la soluzione preferibile. L’organizzazione del processo andrebbe decisa nel contradditorio delle parti, subito dopo l’ordinanza di ammissione delle prove, valutando insieme all’organo giudicante l’attività istruttoria da svolgere e i tempi necessari per acquisire – nel rispetto dei principi di cui sopra – le prove. 

La risposta del Docente: Adottare misure organizzative tali da cadenzare i tempi dei processi appare un intervento legislativo assai accattivante soprattutto sul piano dell’opinione pubblica, ma che non pare di facile risoluzione. Demandare ai singoli magistrati l’adozione delle misure organizzative, francamente, desta non poche perplessità per le pericolose divergenze che verrebbero a determinarsi tra una sede giudiziaria e l’altra, se non, addirittura, in seno al medesimo ufficio giudiziario. Ritengo che oggigiorno in misura ancora maggiore rispetto al recente passato, il sistema giudiziario debba offrire credibilità; approdo ben lontano qualora si creino percorsi di gestione dei processi diversificati, sebbene ancillari alla determinazione dei tempi di durata dei processi.


2- A mente dell’art. 12 il dirigente dell’Ufficio è tenuto “a segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative, quando sia imputabile a negligenza inescusabile”, quale il Suo giudizio al riguardo?


La risposta del Giudice: La previsione della segnalazione del magistrato all’organo titolare dell’azione disciplinare, a cura del dirigente dell’ufficio, per la negligenza inescusabile nella mancata adozione delle misure organizzative, sembra evocare una sorta di atavica diffidenza nei confronti del magistrato, rimarcandone la responsabilità per la scarsa diligenza e la inoperosità laddove essa è già esistente e ricavabile dalla vigente disciplina normativa degli illeciti disciplinari. 

Del tutto rischioso, a mio avviso, oltre che non risolutivo del problema preliminare della lentezza del processo penale è il richiamo a un parametro dai confini incerti che presta il fianco a interpretazioni non uniformi e non oggettive. Ad ogni modo, non pare possa costituire la panacea per rimediare alla sofferenza disfunzionale del sistema giudiziario addossare (solo) al magistrato la responsabilità per la mancata adozione delle misure organizzative e per la mancata osservanza dei termini di celebrazione del processo senza prevedere interventi di restyling di istituti processuali in chiave di semplificazione e di speditezza oltre al necessario rafforzamento dell’organico in rapporto ai carichi ponderali di ciascun ufficio giudiziario.  


La risposta del PM: La disposizione riflette la ricorrente (anche se non sempre dichiarata) convinzione secondo cui la eccessiva durata dei processi sia in parte (secondo alcuni in gran parte) imputabile ad una scarsa produttività ovvero ad una sorta di colpevole indolenza dei magistrati (concomitante alla tattica dilatoria diffusamente attuata dai difensori degli imputati).

Significativa, al riguardo, è la dichiarazione formulata, nella relazione di presentazione del disegno di legge, con cui si precisa che .. l’art. 12 delega il Governo a disciplinare la durata dei processi, nei vari gradi del giudizio, responsabilizzando i magistrati affinché, nell’esercizio delle rispettive funzioni (…) adottino strumenti organizzativi .. 
L’intento di responsabilizzare il magistrato, imponendogli di adottare misure organizzative finalizzate al rispetto dei termini di durata del processo, risulta perseguito anche con la prevista segnalazione disciplinare (in caso di negligenza inescusabile che ha determinato la mancata adozione delle misure).
Al riguardo appare opportuno rilevare che la disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati (D.L.vo 23 febbraio 2006 n. 109), oltre a contemplare tra i doveri del magistrato anche quelli di diligenza e laboriosità (art. 1), prevede espressamente, quali illeciti tipizzati, la reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni sul servizio giudiziario (art. 2 lett. n) e l’omissione, da parte del dirigente l’ufficio o del presidente di una sezione o di un collegio, della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illeciti disciplinari compiuti da magistrati dell’ufficio, della sezione o del collegio (art. 2 lett. dd). 
In sostanza, sia il possibile rilievo disciplinare della (negligente) mancata adozione delle misure organizzative che l’obbligo di controllo e segnalazione disciplinare da parte del dirigente dell’ufficio risultano desumibili dalla disciplina già in vigore.
La previsione di un ulteriore e specifico obbligo di segnalazione, contemplata nel disegno di legge, per un verso evidenzia la rilevanza che, nel progetto di riforma, viene attribuita alla predisposizione di termini prefissati di durata del processo.
Per altro verso, con la prospettazione di conseguenze di natura disciplinare per la mancata adozione delle misure dirette a garantire il rispetto di quei termini, si tende implicitamente ad addebitare alla inescusabile negligenza del magistrato non solo la mancata adozione delle misure, ma anche il mancato rispetto dei termini di durata.
In ordine al primo aspetto devono essere richiamate le argomentazioni già sopra esposte in merito alla non decisiva rilevanza della disciplina prevista dall’art. 12 del disegno di legge.
Per quanto riguarda il secondo aspetto si deve osservare come la questione della durata del processo penale (e, più in generale, delle disfunzioni del servizio Giustizia) sia quasi sempre valutata ed affrontata senza una accurata verifica dei profili sistemici, ma ricorrendo a correttivi più o meno marginali (e comunque non decisivi), anche in ragione di ricorrenti convinzioni sulla scarsa laboriosità dei magistrati ovvero sulla irresponsabile condotta dilatoria degli avvocati. 

La risposta dell'Avvocato: Ritengo tale previsione del tutto inefficace. Non credo che la negligenza inescusabile possa mai avere – vista la labilità ed incertezza della sua interpretazione – delle conseguenze di qualche tipo. Invero, se bisogna prevedere dei termini processuali questi vanno previsti in modo perentorio, introducendo una prescrizione processuale. Altrimenti avremmo l’ennesima norma di stile, ben lontana dalla realtà delle aule processuali e pertanto mai applicabile.

La risposta del Docente: Affidare l’azione disciplinare ad un parametro dai contorni indefiniti qual è quello della negligenza inescusabile, espone la già labile tenuta dell’istituto a rischi di interpretazioni soggettive che destano perplessità, in primis in ordine alla reale applicazione. Il rischio che emerge è quello dell’ennesimo provvedimento spot nel segno del populismo, senza effettivi riflessi sull’efficienza del sistema.


3- I termini indicati dall’art. 12 per la definizione dai vari gradi di giudizio le sembrano congrui? 


La risposta del Giudice: A mio parere, la disciplina dei termini di durata massima del processo nei diversi gradi di giudizio, per come articolata, si presta a inevitabili critiche siccome si fonda su criteri temporali astratti e rigidamente predeterminati, senza tener conto delle molteplici variabili che possono influire sui tempi di celebrazione del singolo giudizio, ciascuno con una propria storia processuale, dal che è plausibile ipotizzare definizioni in momenti temporali diversi anche a fronte di giudizi ontologicamente identici. 

Ritengo, come già detto, che, per quanto la durata del dibattimento di primo grado sia disciplinata nel codice di rito con una previsione che appare anacronistica in rapporto alle pendenze attuali (art.477 c.p.p. ove è codificato il fisiologico esaurimento del dibattimento, quale regola, in una sola udienza), molteplici sono i fattori che, in concreto, nella applicazione pratica, incidono sull’andamento del processo e sulla tempistica della sua definizione. 

Desta, poi, perplessità la previsione di termini significativamente ridotti in specie per il dibattimento di primo grado che non tengono conto delle scansioni procedimentali fisiologiche per la formazione della prova dichiarativa nel contraddittorio tra le parti che talora può rivelarsi oltremodo articolata e temporalmente impegnativa. 

Nondimeno, non può non riflettersi come, in relazione ai procedimenti per reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica, il termine di un anno si appalesi inadeguato a fronte di giudizi che possono profilarsi particolarmente complessi nell’articolato probatorio e, dunque, estremamente impegnativi non solo sotto il profilo contenutistico e qualitativo ma anche per l’aspetto temporale, in ragione della natura e tipologia di reati egualmente rientranti nella cognizione del tribunale in composizione monocratica (si pensi, a titolo esemplificativo, ai delitti in materia di colpa professionale oppure ai reati in materia urbanistica in tema di lottizzazione). Ciò nonostante, risulta oltremodo difficoltoso individuare, se non in via straordinaria, nella concreta gestione del ruolo, una udienza dedicata al singolo processo che, pur selezionato quale prioritario, è calendarizzato inevitabilmente insieme ad altri numerosi processi egualmente pendenti. 

Il termine, peraltro, è ben inferiore rispetto a quello di tre anni indicato dalla legge Pinto n.89/2001 in tema di equa riparazione per il danno subito per la irragionevole durata del processo, termine previsto nel disegno di legge con riferimento unicamente ai procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia.  

Considerazione di chiusura è che, in linea generale, la previsione di termini preclusivi prefissati di definizione del processo appare funzionale e coerente ove correlata alla adozione di meccanismi processuali concretamente deflattivi anche nella fase delle indagini preliminari e al sensibile calo ponderale del numero dei processi. 

L’idea aziendalistica che si intravede nell’organizzazione della giustizia portata avanti dal disegno di legge è conseguenza dei cospicui indubbi ritardi (cui invero la giustizia italiana ha posto un freno negli ultimi anni; si vedano i rapporti CEPEJ che segnalano un notevole aumento di produttività della giustizia italiana rispetto ai colleghi europei ed evidenziano un divario largamente colmato, in proporzione dei numeri di ciascun paese europeo). Una visione, tuttavia, inesorabilmente foriera di risultati che appaiono discutibili. 

La fretta e il rispetto dei numeri in servizi essenziali qual è la giustizia, si pongono, talvolta, in frontale contrasto con la funzione stessa del servizio.

Siamo sicuri che accelerare i processi e porre limiti temporali alla loro definizione siano la soluzione ottimale? Un modello di processo efficiente rispondente (prevalentemente) al criterio prioritario di velocità e speditezza del servizio giustizia non è sempre sinonimo di qualità.

Cerchiamo un processo giusto o un processo sommario? 


La risposta del PM: La predisposizione normativa di termini di durata massima del processo (nelle sue varie fasi), inevitabilmente connotata da valutazioni astratte e generali, presenta il concreto rischio di produrre una disciplina inadeguata, nella sua applicazione pratica, in rapporto alle molteplici variabili che determinano il tempo di svolgimento delle diverse sequenze processuali.

Sembra addirittura banale rilevare come procedimenti pure appartenenti ad una medesima categoria astratta (in ragione dello schema previsto dall’art. 12 del disegno di legge) possono presentare tempi di definizione notevolmente diversi.
Per altro verso, anche la astratta individuazione dei termini, così come operata nel disegno di legge, solleva alcune perplessità. 
In particolare, la dimensione temporale assegnata al processo di primo grado nei procedimenti per i reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica e per quelli attribuiti al tribunale in composizione collegiale (per cui, ai sensi dell’art. 12 del disegno di legge, i termini sono stabiliti rispettivamente nella misura di un anno e di due anni), appare eccessivamente limitata, risultando, in tal senso, incongrua per difetto; e ciò sia in rapporto alla durata (due anni) del tempo assegnato al corrispondente giudizio di appello, il quale, diversamente dal giudizio di primo grado, non contempla, nel suo percorso ordinario, lo svolgimento di attività istruttoria; sia in relazione alle conseguenze, sui tempi di svolgimento del processo, imposte dalle connotazioni strutturali proprie del giudizio di primo grado (segmento procedimentale cui è demandato il compito di formare il materiale probatorio nonché di operare la prima completa ricognizione storico-giuridica della vicenda esaminata).
Per quanto specificamente attiene allo spazio temporale previsto per i processi di primo grado relativi ai reati di competenza del tribunale in composizione monocratica, si deve aggiungere che la incongruità del termine di un anno appare ancora più evidente ove si consideri la particolare complessità di accertamento di alcuni dei delitti ricompresi in questo ambito di attribuzioni, quali quelli di lesioni od omicidio colposi.
Al riguardo, appare opportuno ricordare che la disciplina normativa dell’equa riparazione per il danno subito per la irragionevole durata del processo (legge 24 marzo 2001 n. 89), richiamata nel disegno di legge solo a proposito dei procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia (art. 12), prevede, in relazione alla durata del processo di primo grado, il termine ragionevole di tre anni. 
Infine, nella astratta valutazione di congruità dei termini di durata del processo, come previsti nel disegno di legge, appare opportuno considerare le modifiche nel frattempo intervenute in conseguenza della emergenza COVID 19, con particolare riferimento alla disciplina delle conclusioni scritte nel giudizio di impugnazione, presumibilmente destinata ad essere confermata quale regime ordinario, anche al venir meno della indicata emergenza.

La risposta dell'Avvocato: Possono essere pienamente congrui se si avrà un contenzioso estremamente ridotto. I termini di celebrazione di un processo (lo vediamo ad esempio quando sono applicate le misure cautelari) possono (e forse devono) essere contenuti, ma è necessario che si dimezzi il numero delle azioni penali. Invero, non credo che possiamo più assistere a prime fasi di giudizio che terminano dopo lustri dall’esercizio dell’azione penale (e questo lo vediamo anche per reati di competenza del tribunale in composizione monocratica). Non dimentichiamo che la durata del dibattimento è già indicata dall’art. 477 c.p.p., norma mai applicata ai casi concreti. La fluidità del processo, la qualità dell’attività istruttoria e della decisione dipendono anche dal tempo che intercorre (e che deve essere necessariamente breve) tra l’inizio e la fine di un processo. Le parti e il giudice devono avere vivido il ricordo delle prove assunte durante l’istruttoria. Tuttavia, non condivido il termine di due anni per il giudizio di appello. Credo che un anno sia più che sufficiente, quantomeno nei procedimenti per i reati di cui all’articolo 33-ter del codice di procedura penale, per i quali l’art. 12 prevede un anno per la celebrazione del primo grado.

La risposta del Docente: Nel complesso ed in astratto appaiono congrui, anche se, in concreto, sono da parametrare a molteplici elementi variabili per ogni ufficio giudiziario, quali, ad esempio, numero dei fascicoli in carico, magistrati effettivi, etc.

 

4- Nello specifico, con riguardo ai giudizi di impugnazione quale dovrebbe essere il dies a quo dal quale computare il termine per definire il giudizio? (es. dal momento della proposizione gravame, dal giorno in cui esso perviene nella cancelleria del giudice ad quem, dal decreto di fissazione udienza, dall’udienza …).


La risposta del Giudice: Mi sembra maggiormente coerente correlare la decorrenza del termine di durata del giudizio di impugnazione al giorno in cui gli atti del procedimento pervengono nella cancelleria del giudice dell’impugnazione dovendosi prevedere la tempestiva trasmissione di essi a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. 


La risposta del PM: Il criterio cui ancorare la individuazione del momento dal quale computare il termine di durata del giudizio di impugnazione non può che essere quello della effettiva pendenza del processo dinanzi al giudice della impugnazione.

Tale soluzione, nel privilegiare il dato certo della pendenza del processo (rispetto alla variabilità del momento in cui può essere emesso il decreto di fissazione dell’udienza o può essere fissata la udienza), appare quella che più coerente alla finalità della disciplina prevista dall’art. 12 del disegno di legge. 
Pertanto, in ragione di quanto stabilito dal codice di rito, il momento inziale di decorrenza del termine di durata del giudizio di impugnazione deve essere individuato in quello in cui gli atti del procedimento pervengono nella cancelleria del giudice della impugnazione (a seguito della tempestiva trasmissione da parte della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato), con la conseguente iscrizione del relativo numero nel registro dell’ufficio ricevente.

 La risposta dell'Avvocato: Dal momento in cui viene depositato il gravame. Ma ribadisco che tali termini – per essere efficaci – devono essere perentori, determinando in caso di non osservanza la prescrizione processuale.

La risposta del docente: L’individuazione del dies a quo risulta determinante per l’efficacia della proposta. Lasciare delle zone franche, infatti, rischia di rendere effimera la contingentazione dei tempi del processo. 


5- Si vuole riconoscere al Consiglio superiore della magistratura la facoltà di stabilire, con cadenza biennale, i termini previsti dall’art. 12 in maniera diversa per ciascun ufficio, non le pare si rischi una frammentazione localistica? 


La risposta del Giudice: Il rischio di una paventata frammentazione localistica dei tempi di durata del processo penale è più che concreto.

All’organo di autogoverno sono istituzionalmente demandati i compiti di valutazione delle pendenze e dei dati risultanti dai programmi di gestione di ciascun ufficio giudiziario con l’obiettivo primario di una adeguata distribuzione negli uffici giudiziari delle risorse disponibili e necessarie, ma affidare al CSM la previsione di termini di definizione dei processi territorialmente differenziati  alla stregua della valutazione delle pendenze e dei dati evincibili dai programmi di gestione redatti dai capi dei singoli uffici giudiziari determinerebbe una sostanziale disomogeneità aleatoria dei tempi di durata del processo destinati a mutare in rapporto al singolo contesto territoriale, il che appare stridente con un sistema giudiziario che deve essere improntato a criteri di uguaglianza, uniformità e certezza. 


La risposta del PM: Anche la previsione del possibile intervento del CSM nella individuazione di termini (di durata del processo) diversi in relazione al ciascun ufficio rivela quella logica operativa, cui si è già fatto riferimento, in base alla quale la predisposizione di obiettivi di riforma non è accompagnata da un correlato progetto di investimento di risorse.

La valutazione della specifica situazione in cui versa ciascun ufficio giudiziario (alla stregua degli indici espressamente richiamati dall’art. 12 del disegno di legge, e cioè pendenze, sopravvenienze, natura e complessità dei procedimenti, risorse disponibili ed altri dati risultanti dai programmi di gestione) risulta già sostanzialmente ricompresa nei compiti demandati al CSM.
Nella specifica visuale della durata del processo, tale valutazione dovrebbe essere funzionale ad assicurare la corretta distribuzione e, soprattutto, l’adeguato completamento delle risorse necessarie per consentire, a ciascun ufficio giudiziario, la tempestiva definizione dei processi; e non, invece, a legittimare diversità territoriali nei tempi di definizione, in ragione della presa d’atto della diversa consistenza (ed efficacia) delle risorse disponibili.
Ciò premesso e tralasciando ogni questione di possibile criticità posta dalla disposizione in esame (possibilità dell’organo di auto-governo di emanare norme di diretto rilievo processuale; mancata previsione di acquisizione di informazioni da altre categorie di operatori del diritto), appare di tutta evidenza come la facoltà attribuita al CSM di stabilire termini di durata del processo per ciascun ufficio comporti il rischio, tutt’altro che remoto, di realizzare una Giustizia a velocità diversa e variabile in ragione del diverso contesto territoriale di riferimento.
Anche senza procedere ad una analisi approfondita, appare evidente come l’eventualità di una frammentazione localistica dei tempi di durata del processo penale comporti conseguenze ed implicazioni non accettabili.
A ciò si deve aggiungere che la stessa verifica istituzionale della situazione in cui versa ciascun ufficio giudiziario, in gran parte affidata ad informazioni di (quasi) esclusivo contenuto statistico, non sempre consente di pervenire ad una valutazione corretta del reale carico di lavoro; con la conseguente incongruenza dei termini di durata dei processi eventualmente individuati in ragione di quella valutazione. 

La risposta dell'Avvocato: Credo che sia oltremodo insensato prevedere che sia il CSM a stabilire i termini di cui all’art. 12. Il rischio è quello di una frammentazione e di una disomogeneità sul territorio che non penso sia compatibile né con le richieste che arrivano dall’Europa, né con l’urgenza – interna - di restituire credibilità ed efficacia al processo penale.

La risposta del Docente: Vero, ma al contempo ritengo sia opportuno plasmare i tempi in relazione alle differenti situazioni e quindi che si effettuino reports costanti così da attualizzare i tempi.

6- L’art. 13 prevede, per i giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna, che se non vengono rispettati i termini di cui all’art. 12, le parti e i loro difensori possano presentare istanza di definizione del processo entro sei mesi. La previsione è assistita dalla previsione di una sanzione disciplinare per il caso di mancata adozione di misure organizzative idonee ad assicurare la definizione entro il detto semestre. Non le pare che il combinato disposto degli artt. 12 e 13 manifesti in realtà l’incapacità ad affrontare il problema della durata del processo, scaricandolo sugli operatori del diritto? 


La risposta del Giudice: Occorre precisare che, in sede di relazione finale, la Commissione Lattanzi ha proposto la soppressione dell’art. 13 siccome pleonastica in quanto la relativa tematica, nella proposta della Commissione, è affrontata nell’ambito degli interventi in tema di impugnazioni (art. 7), sistema che, per come risulta rielaborato e riscritto il testo dell’art.7, appare radicalmente ridisegnato alla luce delle coordinate costituzionali e convenzionali.

La previsione del diritto della parte a presentare istanza di definizione del processo entro sei mesi qualora non siano rispettati i termini di cui all’art.12 per i giudizi di impugnazione, corredato da uno specifico rilievo disciplinare, non può che indurre riflessioni ancora una volta in chiave critica. 

Nell’attesa di verificare i termini concreti di attuazione della riforma, a fronte delle defaillances del sistema della giustizia penale, le disposizioni del disegno di legge introduttive di termini preclusivi processuali di definizione del processo corredate dalla previsione di sanzioni disciplinari per il magistrato non diligente, non appaiono comunque risolutive delle disfunzioni endemiche di un sistema che richiede, oltre al potenziamento delle risorse, modifiche strutturali tese alla semplificazione del procedimento onde poter assorbire l’impatto dimensionale dei carichi dei ruoli che, in taluni uffici giudiziari, risultano particolarmente gravosi considerata, del resto, la obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.  


La risposta del PM: A fronte delle diffuse criticità del sistema della Giustizia penale (talvolta enfatizzate, ma oggettivamente riscontrabili), negli ultimi anni si sono susseguiti diversi interventi legislativi finalizzati, nell’ambito procedurale, a realizzare la riduzione dei procedimenti penali (il c.d. intento deflattivo, perseguito sia nella fase delle indagini che in quella del giudizio), ovvero la semplificazione di alcune sequenze procedimentali e la razionalizzazione delle risorse.

Tali interventi, pur presentando alcune soluzioni condivisibili, hanno inciso in termini piuttosto modesti (se non addirittura irrilevanti) sulle criticità del sistema (normalmente individuate nella ingestibile dimensione quantitativa dei procedimenti, nella eccessiva durata del processo, nella inadeguatezza delle risorse disponibili e così via).
Oltre che nella impossibilità di significativi investimenti in nuove risorse (situazione ormai comunemente evidenziata con la espressione riforme a costo zero), la sostanziale inefficacia delle ultime riforme trova ragione nella incapacità (o nella non volontà) di riconoscere che i problemi della Giustizia penale trovano origine, principale e decisiva, nella strutturale inadeguatezza propria del sistema, cioè nella impossibilità del sistema Giustizia, specificamente nel suo assetto procedimentale, di fornire un servizio funzionale. 
Al riguardo, senza avere la pretesa di compiere, in questa sede, una analisi estesa ed approfondita, appare sufficiente rilevare come il sistema della Giustizia penale sia caratterizzato, nel nostro Paese, da una elevata produzione di notizie di reato (e conseguente numero di processi) in ragione sia della diffusa fragilità del tessuto socio-economico che della connotazione penale attribuita ad innumerevoli condotte dal contenuto illecito (anche per l’assenza di una adeguata struttura di controlli amministrativi).
A fronte di tale domanda di Giustizia penale, il sistema di risposta è strutturato sul presupposto costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale (e quindi della impossibilità, almeno teorica, di selezionare le notizie di reato da immettere nel circuito giudiziario) e su uno schema processuale ordinario, quello accusatorio (incentrato sulla formazione della prova dinanzi al giudice, nel contraddittorio delle parti), per sua natura (articolata e complessa) inadatto ad assorbire un carico elevato di processi.
In altre parole, ove non siano modificati gli altri termini del rapporto (fattori di produzione di notizie di reato, obbligatorietà dell’azione penale), il processo penale accusatorio introdotto nel 1989 presenta una disfunzione sistemica, tanto da rendere non efficaci e, comunque, non decisive quelle riforme che realizzano (nella migliore delle ipotesi) dei correttivi all’interno di quel sistema, senza modificarne l’assetto strutturale.
Come è evidente, la indicata impossibilità del sistema di assorbire e gestire l’elevato quantitativo di procedimenti si riverbera, inevitabilmente, sulla capacità di compiere adeguati accertamenti e di pervenire a decisioni corrette; producendo, pertanto, conseguenze negative anche in relazione a quei parametri che (unitamente alla durata del processo) misurano la qualità della Giustizia.
Il disegno di legge in esame, pur presentando un articolato piano di intervento, non sembra discostarsi, nei presupposti logici e nei presumibili risultati, dai precedenti interventi normativi; e ciò anche con riferimento specifico alla disciplina programmata dagli art. 12 e 13.
Per quanto attiene alla questione della durata del processo, che costituisce una specie di riassunto di tutte le criticità del sistema giudiziario penale, la incapacità di cogliere (o di affrontare) la più profonda origine sistematica del problema porta, inevitabilmente, a prospettare una riforma più formale che sostanziale; una soluzione la cui eventuale (probabile) inefficacia viene puntualmente addebitata (con tanto di sanzione disciplinare) al magistrato che, seppure responsabilizzato, non adotta le misure organizzative per definire il processo nei termini; nonché agli altri operatori del diritto (le parti ed i difensori), su cui grava l’onere di attivarsi (con la presentazione della istanza di cui alla previsione dell’art. 13 comma 1 lettera a del disegno di legge) al fine di ottenere un risultato, quello della definizione del processo, che pure dovrebbe costituire un minimo garantito.

La risposta dell'Avvocato: Sicuramente sì. Credo sia molto più onesto e proceduralmente corretto introdurre con l’art.12 una nuova prescrizione processuale.

La risposta del Docente: L’osservazione formulata mi sembra molto pertinente e la condivido.


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