09 settembre 2021

Notifica presso il difensore anziché al domicilio eletto: differenza tra difensore di fiducia e quello d'ufficio.


La Corte di Cassazione (Cass. pen. sez. VI, ud. 06.07- dep. 24.08.2021 n. 31956) ha accolto il ricorso dell'imputato con cui si lamentava, per la prima volta, che il decreto di differimento dell'udienza di appello, disposto ex officio e fuori udienza, era stato notificato presso il difensore anziché al domicilio eletto.   

Al riguardo i Giudici nomofilattici hanno rilevato il carattere ASSOLUTO della dedotta nullità, con ciò discostandosi da altra giurisprudenza di legittimità secondo cui dovrebbe ritenersi integrata un'ipotesi di nullità d'ordine generale a regime intermedio, in quanto tale soggetta ai termini di deduzione di cui all'art. 182 c.p.p., comma 2, (Sez. Un., sentenza n. 58120 del 22/06/2017, Rv. 271772; Sez. 6, n. 1742 del 22/10/2013, dep. 16/01/2014, Rv. 258131; Sez. 2, n. 35345 del 12/05/2010, Rv. 248401; Sez. 4, n. 40066 del 17/09/2015, Rv. 264505; Sez. 2, Sentenza n. 50389 del 27/09/2019 Ud., Rv. 277808). 

Tuttavia, il diverso regime della sanzione processuale trova la sua ratio nella circostanza che il rapporto fiduciario <<consente di determinare una correlazione di fatto e una potenziale conoscenza effettiva dell'atto>>.


08 settembre 2021

❗ATTENZIONE: ILLEGITTIMA LA COMUNICAZIONE INTERDITTIVA ANTIMAFIA A SEGUITO DI CONDANNA PER TRUFFA AGGRAVATA AI DANNI DELLO STATO❗





La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 178/2021 (link) ha ritenuto illegittimo far derivare dalla condanna per il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche l’incapacità ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni. Questo delitto non è, di per sé, indice di appartenenza a un’organizzazione criminale. A differenza dei delitti più gravi indicati nell’articolo 51 del Codice di procedura penale, non ha natura associativa, non richiede la presenza di un’organizzazione ed è punito con pene più lievi. Si tratta quindi di una misura sproporzionata rispetto al contrasto all’attività mafiosa e tale da provocare danni elevati alla libertà di iniziativa economica.

È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n.178 depositata il 30 luglio 2021 (redattore il vicepresidente Giuliano Amato) dichiarando illegittimo l’articolo 24, primo comma, lettera d), del dl n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018, che ha aggiunto la truffa aggravata prevista dall’articolo 640-bis del Codice penale ai delitti dell’articolo 51, comma 3-bis, del Codice di procedura penale per i quali la condanna, anche non definitiva, purché confermata in appello, fa scattare la comunicazione interdittiva antimafia.

La Corte ha ricordato che quello dell’articolo 640-bis del Codice penale è già considerato un “reato spia” al fine dell’applicazione delle misure di prevenzione antimafia e dell’informativa antimafia, in base all’articolo 84, comma 4, del Codice antimafia. Inoltre, gli articoli 32-ter e 32-quater del Codice penale consentono di aggiungere alla pena principale anche quella accessoria dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione.

In via conseguenziale, l’illegittimità costituzionale è stata estesa all’inserimento (anch’esso previsto dal dl n. 113 del 2018) del delitto di truffa ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico, tra i reati produttivi dei medesimi effetti interdittivi. Si tratta, infatti, di un reato punito con pene più lievi rispetto alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, riguardo al quale, dunque, la scelta legislativa risulta ancora più sproporzionata ed eccessiva



07 settembre 2021

Il volto attuale del diritto penale economico - del prof. Andrea R. Castaldo (*)



In tempi di logica fuzzy le certezze vacillano e la disponibilità al compromesso cresce. Ciò nonostante, individuare le linee portanti del diritto penale dell’economia nell’attualità è impresa difficile. Del resto, tracciare la fisionomia di un volto è complicato se è incerta persino l’identità. Infatti, la definizione tradizionale di diritto penale dell’economia ha un sapore convenzionale che poco si attaglia al dinamismo dei fenomeni che pretende di governare. Un adulto impacciato da movimenti di bambino. Diritto penale societario, bancario, fallimentare, tributario si reggono sulla premessa che lo strumento più invasivo per natura debba intervenire in funzione di monito per prevenire l’aggressione a beni giuridici primari e di sanzione per reprimere l’offesa agli stessi. Senonché, questa condivisibile impostazione a livello teorico ha finito per smarrirsi pressoché completamente nella prassi per una serie concomitante di fattori. 

In ordine sparso: gli interventi random nelle varie macroaree, senza reale collante e uniformità di impostazione; l’influenza del diritto comunitario e le regole internazionali di soft law; le prescrizioni stringenti delle autorità regolatorie europee; la spinta politico-demagogica di consolidati gruppi di pressione. Non da ultimo, la promozione di circuiti di virtuosismo alimentata dalla convinzione che l’eticizzazione del settore passi e si confonda con lo strumento penale. Ecco allora la trasformazione dei tratti comuni. Innanzitutto, l’autore del reato: sempre più spersonalizzato, con l’erosione costante del soggetto in favore dell’organizzazione, non necessariamente costituita in forma societaria. E anche quando permane la fisicità, la responsabilità si costruisce su un modello di difettosa, insufficiente vigilanza. Dunque, la seconda rivoluzione: lo schema classico dell’imputazione dolosa attiva si inverte in quella colposa omissiva. Punisco il risultato per l’inazione, colposa per la violazione di una regola cautelare a finalità preventiva. Un risultato che si identifica non nell’evento, ma nel pericolo, concetto più duttile e servente (nella sua ontologica indeterminatezza facilitatrice della prova). L’arretramento della soglia di punibilità gioca pertanto un ruolo predominante nella costruzione del rischio e nella correlata esigenza di abbatterlo attraverso lo stigma penale. Sonda i rischi, attìvati per eliminarli per non pagarne le conseguenze! Non esiste una data di nascita ufficiale di questa tendenza politico-criminale, ma gli albori possono agevolmente rintracciarsi, da un lato, nell’ormai famoso D.lgs. 231/2001, dall’altro nella strategia antiriciclaggio e anticorruzione. Il modulo, infatti, è abbastanza identico e asimmetrico nel rapporto di forza con l’antagonista-destinatario. Cioè, individuare nella realtà di riferimento i settori critici per la commissione di gruppi di reato ‘tipici’, mapparne i rischi, istituire un organismo di primo livello incaricato di vigilare sulla corretta osservanza di un momento prevenzionale costruito ad hoc, prevedere un’autorità centralizzata con il compito di vagliare in seconda istanza potenziali condotte illecite penalmente. In caso di inadempimento, una sanzione di tipo patrimoniale-interdittivo. Il riferimento ovvio è agli obblighi di collaborazione attiva, tra cui la segnalazione di operazioni sospette all’UIF, la compliance rafforzata nel settore pubblico e privato e il flusso informativo all’ANAC. Ma questo trend inarrestabile e seducente si espone a una triplice critica.

Prima: la prevenzione per essere efficace e credibile deve innestarsi in un terreno di regole chiare nel contenuto, precise quanto a destinatari. Se la complessità e l’oscurità non possono costituire un alibi per l’impunità della trasgressione, tuttavia rappresentano una perdita di fiducia per l’operatore e di credibilità del target da raggiungere. E i rami del diritto penale economico sono intrecciati, appuntiti, simili a rovi da estirpare o almeno da potare. Seconda: gli obblighi posti a carico dell’imprenditore hanno un costo non trascurabile, richiedono investimenti e uscite costanti e prolungate. Occorrerebbe pensare a una defiscalizzazione, magari parziale, per stimolare l’appetibilità. Senza contare le perplessità che genera la discutibile prassi di traslare dal pubblico al privato compiti di controllo e di rispetto della legalità di appannaggio del primo. Terza: la politica criminale non può affidarsi all’idea esclusiva dello stick senza bilanciamento con la carrot. Vale a dire, l’adempimento puntuale delle prescrizioni, di per sé non agevole e allettante per le ragioni spiegate, va accompagnato e gestito, secondo una scala crescente, da meccanismi di qualificazione del rating e dello standing reputazionale, da forme di accesso privilegiato a procedure negoziali con la P.A., fino all’ingresso di attenuanti specifiche e a cause di non punibilità. I timidi interventi in tale direzione (specie nel passato; dalle false comunicazioni sociali ai reati tributari) sono stati oggetto di censure strumentali e in gran parte ideologiche, che hanno provocato l’imbarazzante stasi in un settore dove dinamismo E innovazione rappresentano al contrario il dna in grado di alimentare il tessuto linfatico vitale.


(*) Andrea R. Castaldo: è 
Professore Ordinario di Diritto Penale nell'Università degli Studi di Salerno


06 settembre 2021

LE OMBRE DELLA RIFORMA CARTABIA - di Aldo Casalinuovo (*)

Prosegue sul nostro blog il dibattito sulla Riforma Cartabia (il piano completo al link). Dopo gli interventi di Giorgio Spangher (link), Bartolomeo Romano (link), Paolo Ferrua (link), il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), e gli interventi di Daniele Livreri (link) Michele Passione (link) , Daniele Carra (link) e di Filippo Giunchedi (link), ospitiamo con vero piacere l'intervento di Aldo Casalinuovo




La riforma Cartabia approda al Senato per il definitivo via libera e, naturalmente, tiene banco nel dibattito politico ed in quello tecnico/giuridico. E’ indubbio che la maggiore novità in essa prevista sia quella costituita dalla improcedibilità per decorso di un tempo prestabilito nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, che determinerà per l’appunto la “fine” del processo, la sua irreversibile caducazione (con possibilità di proroghe diversamente modulate secondo il titolo di reato). Interrotta la prescrizione del reato in via definitiva dopo la sentenza di primo grado, il processo si estinguerà se non si giungerà alla sentenza di appello nei successivi due anni e a quella della Cassazione nell’ulteriore anno dopo la sentenza di secondo grado (rispettivamente tre anni e un anno e sei mesi nel regime transitorio previsto fino al 2024). Si tratta di una previsione normativa che ricorda molto da vicino la biblica foglia di fico: onde rimediare alla assurda abolizione della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado (assurda in quanto abrogativa di una “storica” garanzia per il cittadino sottoposto a processo, nonché direttamente e specularmente connessa al ragionevole tempo di attuazione della c.d. “pretesa punitiva” dello Stato), si opta per una sorta di “prescrizione processuale”, finora sconosciuta al nostro ordinamento e certamente foriera di problematiche interpretative ed attuative di non poco momento, per come già ampiamente segnalato dalla migliore dottrina processual-penalistica italiana. I pentastellati che esultarono per la sciagurata introduzione dell’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, oggi votano per la c.d. prescrizione processuale, con una incomprensibile e quasi schizofrenica piroetta in cui è ben difficile trovare una sequenzialità logica, coerente e razionalmente orientata sul piano dei diritti e dei principi generali. Che l’accertamento giudiziario debba avere un termine è principio di civiltà giuridica elementare; che questo termine si debba ricollegare, così come è sempre stato, alla sfera del diritto sostanziale, e dunque alla prescrizione del reato, e non già a quella processuale, era ed è tuttora ( fino a … nuovo ordine) principio consolidato nel nostro ordinamento. C'e' da chiedersi, allora, se modifiche così invasive e direttamente incidenti su segmenti strutturali dell'ordinamento penale corrispondano davvero ad una necessità di sistema, ovvero se esse non siano soltanto il frutto avvelenato (con relative appendici) di una ottusa e demagogica campagna propagandistica di una parte politica. Siamo, ad oggi, ad una sorta di surreale gioco dell'oca, che riporterà, alla fine, alla medesima casella di partenza: quella, cioè, in cui sta scritto che l'accertamento penale, nel suo completo arco, non può giammai protrarsi senza termine conclusivo (come avrebbero voluto i fautori della "prescrizione mai") ma deve avere un limite temporale massimo prestabilito dalla legge, in virtù di un superiore ed

inderogabile principio di civiltà giuridica e della sacrosanta aspettativa della collettività ad una risposta del sistema in tempi ragionevoli (non per nulla il principio della ragionevole durata del processo ha assunto, dal 1999, rango costituzionale). In buona sostanza, ciò che ieri avveniva con la prescrizione del reato, domani avverrà con la prescrizione del processo, ovvero con l'improcedibilità (pur, come detto, tra non trascurabili incognite di natura interpretativa ed attuativa). Ed allora, che senso avrà avuto lo stravolgimento della complessa e delicata trama dell'ordinamento penale in alcuni dei suoi più significativi e consolidati passaggi? Che senso avrà avuto l’accidentato percorso politico-parlamentare dalla prima riforma Bonafede sulla prescrizione a quella odierna della ministra Cartabia? Nessun senso, se non quello di soddisfare (in modo peraltro del tutto effimero) l'ipnotica ed ossessiva ripetizione di rozze parole d'ordine atte a suggestionare, assecondandola, l'opinione pubblica meno avvertita e più istintiva del nostro Paese. Alle originarie e lineari previsioni dei padri del diritto - patrimonio della nostra cultura giuridica - si sostituiranno le alchimie imperfette e pasticciate delle mediazioni politiche al ribasso, figlie di una fase storica nazionale assai controversa e non esattamente esaltante. L'evidente tendenza a depotenziare ed indebolire la funzione della difesa nei gradi di giudizio successivi al primo, completa poi il quadro francamente allarmante della riforma in procinto di essere approvata anche al Senato. Nel processo di appello e nel giudizio di cassazione, infatti, si stabilizzano le norme emergenziali introdotte a causa della pandemia. I giudizi di impugnazione saranno regolarmente trattati con rito camerale non partecipato, ovvero con mero contraddittorio scritto, e dunque i difensori non potranno intervenire per la discussione orale, a meno che non procedano a formulare espressa richiesta in tal senso. Sarà necessaria, altresì, una specifica dichiarazione di elezione di domicilio a pena di inammissibilità dell’impugnazione, mentre si dovranno disciplinare in sede di attuazione della delega insidiosi ampliamenti delle cause di inammissibilità degli atti di impugnazione in appello e in Cassazione. Modifiche che, all’evidenza, hanno un solo scopo: quello di ridimensionare l’intervento della difesa nei giudizi di impugnazione ed addirittura di rendere più difficoltoso l’accesso al grado di giudizio sovraordinato. Una visione di palese arretramento sul piano del compiuto esercizio del diritto di difesa che non può in alcun modo essere condivisa ed anzi dovrà con forza – nei margini di residua possibilità - essere contrastata.

(*) Aldo Casalinuovo: è avvocato penalista dal 1986. È stato componente della Giunta Ucpi dal 2002 al 2006,  presidente della Camera Penale "A. Cantafora" di Catanzaro dal 2006 al 2012, vicepresidente del Consiglio delle Camere Penali dal 2010 al 2012. Attualmente è componente del COA di Catanzaro

03 settembre 2021

❌ Novità Corte Costituzionale: processo celere: incostituzionale la norma che preclude il diritto all'equa riparazione in caso di mancata presentazione dell'istanza acceleratoria❌





Mentre si discute di Rifroma del processo penale e di pretesa accelerazione dei tempi, la Corte Costituzionale ha depositato la sentenza n. 175/2021 (al link), con la quale ha osservato che <<Il deposito dell’istanza di accelerazione nel processo penale, pur presentato come diritto alla stregua dell’art. 1-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001, opera, piuttosto, come un onere, visto che il mancato adempimento, in base al comma 1 del successivo art. 2, comporta l’inammissibilità della domanda di equa riparazione. Tuttavia, la presentazione dell’istanza, che pur deve intervenire almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini ragionevoli fissati per ciascun grado dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, non offre alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesta un modello procedimentale alternativo e non costituisce perciò uno strumento a disposizione della parte interessata per prevenire l’ulteriore protrarsi del processo, né implica una priorità nella trattazione del giudizio, come chiarisce il comma 7 dell’art. 1-ter della stessa legge, in base al quale restano fermi, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, i criteri dettati dall’art. 132-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).

In tal senso, l’istanza di accelerazione prevista dalle norme censurate, quale facoltà dell’imputato e delle altre parti del processo penale, non rivela efficacia effettivamente acceleratoria del giudizio, atteso che questo, pur a fronte dell’adempimento dell’onere di deposito, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di ragionevole durata, ❌❌. La mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo penale può eventualmente assumere rilievo ai fini della determinazione della misura dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non deve condizionare la proponibilità della correlativa domanda.

Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a) e b), della legge n. 208 del 2015.




02 settembre 2021

Improcedibilità: nuovo documento degli studiosi del processo penale




Durante il mese di agosto ci siamo occupati più volte dell'aspetto più controverso della riforma Cartabia, la improcedibilità (al link tutti i contributi).

Riteniamo utile al dibattito rilanciare il documento con il quale cinque fra i maggiori processual- penalisti italiani contestano la norma (fonte Il Dubbio al link).

Quando il Consiglio dei ministri dell’8 luglio ha ritenuto di affiancare alla prescrizione sostanziale, già operante in primo grado, la prescrizione ‘ processuale’ con termini di durata massima per i giudizi di appello e di cassazione, fissati a pena di ‘ improcedibilità’, abbiamo espresso alcune riserve, auspicando la sostituzione della prescrizione ‘ processuale’ con quella ‘ sostanziale’ come causa estintiva del reato. Abbiamo evidenziato dubbi di legittimità costituzionale e ragioni di inopportunità derivanti da tale impostazione (link).

Il successivo Consiglio dei ministri del 29 luglio ha ritenuto di confermare la scelta della ‘ improcedibilità’, modificando però il sistema delle proroghe e della decorrenza dei termini; il medesimo testo è stato poi approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 3 agosto.

Il testo approvato da un ramo del Parlamento ai primi di agosto conferma i dubbi già espressi nel nostro documento di fine luglio. In aggiunta, nel documento qui di seguito riportato, segnaliamo ulteriori criticità del ddl governativo, in vista dell’imminente esame da parte del Senato.

I sottoscritti Marcello Daniele, Paolo Ferrua, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati, Giorgio Spangher, richiamato quanto già espresso nel precedente documento del 27 luglio sulle perplessità che la disciplina della improcedibilità suscita in rapporto ai principi costituzionali di uguaglianza, di obbligatorietà dell’azione penale e di impegno alla durata ragionevole dei processi, visto il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 3 agosto 2021, osservano che il potere assegnato ai giudici di disporre proroghe dei termini fissati a pena di improcedibilità implica una impropria assunzione di responsabilità, tale da renderli arbitri della scelta se precludere o consentire la prosecuzione dell’azione penale; che affidare ai giudici una scelta destinata a ripercuotersi sulla concreta perseguibilità dei reati equivale a consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri; che i termini di prescrizione processuale, affiancandosi ai termini di durata delle indagini preliminari, di custodia cautelare e di prescrizione sostanziale, rischiano di creare un regime temporale privo di coordinamento fra la fase anteriore al dibattimento, il giudizio di primo grado e la fase delle impugnazioni, incapace di assicurare in modo uniforme la ragionevole durata; che la prescrizione processuale, in particolare, contiene un implicito invito a chiudere innanzitutto i procedimenti relativi a reati meno gravi, ponendosi così in antinomia con i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, ispirati al preferenziale perseguimento di reati gravi con termini di prescrizione lunghi o addirittura imprescrittibili; che la disciplina della improcedibilità appare sotto diversi aspetti incerta, non essendo chiaro, ad esempio, se sia consentita la riapertura del procedimento dopo la sentenza irrevocabile, quando sopravvenga la condizione di procedibilità; come potrebbe accadere a seguito di una diversa e più grave qualifica del reato che implichi termini prescrizionali più estesi: auspicano che nel prosieguo dell’iter parlamentare sia presa in seria considerazione l’esigenza di uniformare la disciplina al modello della prescrizione sostanziale, causa estintiva del reato, come già contemplata sino al primo grado di giudizio.

01 settembre 2021

Come calcolare la prescrizione in caso di rinvio per motivi di salute, se il tempo della prognosi non è determinabile?


I giudici nomofilattici (Cass. pen. sez. V n. 30188 del 02.08.2021) hanno precisato le modalità di calcolo della sospensione del corso della prescrizione in caso di legittimo impedimento dell'imputato per motivi di salute, lì dove dalla certificazione medica non sia in alcun modo evincibile la durata della patologia.

La Corte, disattendendo la tesi difensiva secondo cui l'incertezza avrebbe dovuto giovare all'imputato, sì determinando la durata della moratoria in 61 giorni, ha ritenuto che in tale evenienza <<il corso della prescrizione è dichiarato sospeso per tutta la durata del differimento, discrezionalmente determinato dal giudice avuto riguardo alle esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, ai diritti e alle facoltà delle parti coinvolte nel processo e ai principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione>>.

Analogamente la Corte ha osservato che nel caso di rinvio accordato per  impedimento del difensore, seppure non legittimo perché non tempestivamente comunicato, il tempo della sospensione è pari a quello del differimento di udienza. 

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