La storia di tutte le più recenti riforme riflette equilibri più o meno stabili tra vuoti e pieni.
Si pensi al Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, vera e propria tela di Penelope della nostra epoca, che, nelle more di un’entrata in vigore perennemente rinviata a data da destinarsi, sembra finalmente arricchirsi, all’ultimo miglio, di un – essenziale – intervento sui reati fallimentari, la cui riscrittura è stata affidata a una Commissione di esperti presieduta da Renato Bricchetti.
In quel caso, come era stato da più parti rilevato in letteratura, la scelta di intervenire in maniera radicale sulla disciplina civilistica, lasciando al contempo inalterato il poderoso – e anacronistico – sistema di sanzioni penali previste per i reati di bancarotta, si sarebbe verosimilmente tradotta in un fallimento annunciato, data l’ontologica irragionevolezza di un Codice che da un lato predica la flessibilità nei rapporti tra debitore e creditore nel contesto della crisi d’impresa e dall’altro è pronto a intervenire con pene draconiane nel caso in cui la crisi stessa abbia un esito nefasto.
Del resto, nell’epoca del declino della Seconda Repubblica, ogni passaggio riformatore è frutto di complicate alchimie tra forze politiche che sostengono posizioni apparentemente inconciliabili, la mediazione tra le quali non avviene e non può avvenire su elementi di sostanza – su quelli che una volta avremmo chiamato i principi – quanto piuttosto su singoli istituti o norme, la cui scarsa qualità di scrittura riflette una altrettanto scarsa qualità di pensiero.
Parzialmente diverso il caso della Riforma Cartabia, ovvero il complesso sistema di interventi compendiati nella legge 27 settembre 2021, n. 134, con la quale il Parlamento ha conferito delega al Governo per emanare norme in materia di “efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.
In primo luogo, alcune notazioni sul portato dell’intervento del Governo.
È sufficiente scorrere la corposa relazione del Massimario per rendersi conto che, tolta la disciplina della prescrizione, l’impatto sul sistema sarà probabilmente più limitato di quanto non si vorrebbe far credere.
La partita si gioca altrove, sull’organizzazione degli uffici giudiziari, più che sul campo del diritto penale sostanziale, che avrebbe bisogno di ben altri interventi: dall’amnistia a una massiccia campagna di depenalizzazione degli illeciti penali minori (non solo delle contravvenzioni).
Del resto, per quanto il Governo guidato da Mario Draghi stia compiendo lo sforzo titanico di provare a chiudere la stagione del populismo – non solo penale – le due Camere chiamate ad approvarne i provvedimenti sono le stesse nell’ambito delle quali si era formata una maggioranza giallo-verde, che aveva compendiato la propria visione politico-criminale nel dodicesimo capitolo di un Contratto – in ogni senso atipico – di Governo intitolato “Giustizia rapida ed efficiente”, che aveva dato vita alla legge Spazzacorrotti.
Non stupisce quindi che la scelta per certi versi obbligata del Ministro Cartabia di innestare la propria visione del penale sulla (mala)pianta della Riforma Bonafede abbia dato vita a reazioni contrastanti, che rappresentano l’esito scontato di ogni mediazione.
Deve probabilmente essere letta in quest’ottica anche l’enfasi attribuita alla riforma nella prospettiva del P.N.R.R., vera e propria clava brandita da Mario Draghi per far digerire ai partiti recalcitranti la necessità di alleggerire un sistema ormai da tempo al collasso.
Come è stato più volte ribadito, le ragioni preponderanti che hanno indotto il legislatore a mettere mano al sistema del penale presentano un fondamento economico, più che giuridico.
Non stupisce quindi che la parola chiave che caratterizza l’opera del Ministro Cartabia sia efficienza.
Efficienza del processo e, con essa, della giustizia – intesa più come macchina, che come funzione – che deve portare l’Italia a ridurre la durata di processi, entro i prossimi cinque anni, del 25% nel settore penale e del 40% in quello civile.
Il raggiungimento di questi obiettivi è una condizione essenziale per l’ottenimento dei fondi europei legati al P.N.R.R., a loro volta essenziali per la ripresa del Paese.
Per la prima volta – quantomeno a nostra memoria – da una riforma della giustizia dipende l’erogazione di una messe di danaro pubblico, essenziale per la ripresa di un paese nel quale i due anni di pandemia si aggiungono a una lunga fase di stagnazione economica.
Dunque, una riforma dalla matrice emergenziale, essenziale per uscire dalla crisi pandemica, perdipiù richiesta dall’Europa e sostenuta dal deus ex machina della politica italiana.
Di fronte a uno scenario siffatto, è evidente che nessuna delle forze politiche che compongono l’attuale maggioranza – ciascuna delle quali, per inciso, affronta una propria crisi di legittimazione e di consenso – ha potuto tirarsi indietro.
In questo contesto, il lettore laico non può certo stupirsi davanti a una proposta di riforma che non tocca i nervi scoperti dell’attuale sistema penale.
Che non riguardano, quantomeno a parere di chi scrive, né la giustizia riparativa, né la prescrizione del reato, il cui volto era già stato profondamente mutato nel 2017 dalla Riforma Orlando, alla quale il furore pentastellato non ha mai consentito di dispiegare i suoi effetti.
Certo, la disciplina dell’improcedibilità – che certifica la natura di ibrido sostanzial-processuale dell’istituto – apre a una pericolosa processualizzazione della prescrizione, da tempo sostenuta da autorevole letteratura.
Resta il fatto che la prescrizione, per quanto presidio fondamentale sul piano dei principi, non può che rappresentare una – necessaria – anomalia nell’ambito di un sistema che dovrebbe avere la funzione di prevenire e reprimere in concreto la commissione di reati, e con essa la lesione di beni di natura costituzionale, non di girare a vuoto per concludersi con sentenze di improcedibilità e/o di estinzione del reato.
Allo stesso modo è nostra convinzione che debba essere salutata con estremo favore l’introduzione di presidi riconducibili al modello della cd. restorative justice, a maggior ragione in un sistema, quale il nostro, storicamente carcerocentrico.
Non sarebbe tuttavia intellettualmente onesto dimenticare che tale modello – la cui concreta attuazione richiede l’impiego di ingenti risorse – è applicabile in via pressoché esclusiva ai casi in cui il reato abbia cagionato un danno alle persone e che, pertanto, è di difficile applicazione nella stragrande maggioranza dei procedimenti che impegnano le Procure e i Tribunali della Repubblica, che riguardano reati in materia di droga e patrimonio.
Dunque, a fronte di qualche pieno, rimangono molti vuoti.
Ne segnaliamo alcuni.
In primo luogo, proprio la logica economicistica che sorregge l’esigenza di riforma – l’ottenimento dei fondi del P.N.R.R.– richiederebbe un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio che gravita attorno ai reati contro la Pubblica Amministrazione.
Parliamo di sistema sanzionatorio in quanto, sposata la logica preventivo-repressiva introdotta a far data dal 2012 con la Legge Severino, nell’ultimo decennio abbiamo assistito al sistematico Enforcement della disciplina sanzionatoria penale e amministrativa rivolta a privati e imprese coinvolti in fatti di reato contro la PA, che spazia ormai dalla responsabilità penale vera e propria, alla responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi, ai commissariamenti ANAC, fino alle misure di prevenzione.
Un sistema pletorico e inefficiente, frutto di ripensamenti dettati da preconcetti ideologici più che da una attenta disamina del sottostante, esemplificativa dei quali è la bizantina nozione di corruzione percepita, frutto avvelenato del cortocircuito politico-mediatico che caratterizza questo momento storico.
Un sistema nel quale abbiamo ormai perso il conto delle riforme che hanno riguardato l’abuso d’ufficio, il quale, nonostante l’intervento del 2020, rischia di essere la pietra d’inciampo della complessa architettura su cui si fonda l’intera proposta Cartabia.
La questione merita un’ultima riflessione.
La logica della riforma, rispetto al P.N.R.R., è circolare.
Approvare i decreti delegati è essenziale per ottenere i fondi europei, i quali sono a loro volta essenziali per finanziare gli obiettivi del piano stesso, che prevede – tra l’altro – le assunzioni straordinarie di 16.500 giovani laureati nell’Ufficio per il processo, che entro i prossimi cinque anni dovranno affiancarsi ai giudici per aiutarli a smaltire l’arretrato e ridurre i tempi della giustizia, nonché l’assunzione di 5.140 unità di personale propriamente tecnico-amministrativo.
Tuttavia, come ci è stato più volte ribadito, il rispetto dei tempi sarà essenziale: la Commissione Europea vigilerà severamente e non verrà ammesso alcun ritardo.
Difficile, a nostro parere, coniugare una così rigida esigenza di celerità sul piano politico-amministrativo con l’epidemia di fobia della firma che affligge cronicamente la burocrazia italiana, nell’ambito della quale i dirigenti sono giustamente preoccupati di tutelarsi dal rischio – immanente – di essere iscritti nel registro degli indagati per l’esercizio di quelle scelte discrezionali nelle quali si sostanzia l’essenza stessa dell’esercizio dei pubblici poteri.
In conclusione.
La Riforma della Giustizia avviata da Marta Cartabia si propone di segnare un’inversione di rotta nella politica criminale del XXI Secolo, finora caratterizzata da un irragionevole smania per il punire, che ha portato alla assoluta inefficienza – dunque all’iniquità – il sistema penale italiano.
Per farlo, tocca temi alti, come quello della riconciliazione tra autore del reato e vittima, e nodi essenziali sul piano applicativo, come la digitalizzazione del processo.
È sicuramente interesse di tutti che questa palingenesi del sistema vada a buon fine.
L’abrogazione dell’abuso d’ufficio – norma evidentemente irriformabile – potrebbe essere lo snodo essenziale per garantirne il successo.
(*) Tommaso Guerini: Conseguita la maturità classica al Liceo Classico Luigi Galvani di Bologna, si laurea Scienze Giuridiche (110/110 con lode) discutendo una tesi in Diritto penale commerciale (relatore prof. Elio Carletti), poi in Giurisprudenza (110/110 lode), discutendo una tesi in Diritto penale (relatore prof. Filippo Sgubbi).
Nel 2010 è ammesso con borsa al corso di Dottorato in "Istituzioni e Mercato, diritti e tutela", indirizzo "Diritto penale", XXVI ciclo, presso la Scuola di Dottorato di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Bologna.
Dal 2008 collabora stabilmente con le cattedre di Diritto Penale (Proff. Gaetano Insolera, Nicola Mazzacuva, Filippo Sgubbi) e con la cattedra di Diritto Penale Commerciale (Prof. Elio Carletti; Prof. Nicola Mazzacuva), Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Bologna.
Nel luglio del 2014 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Diritto Penale, discutendo una tesi dal titolo: "Uno studio sulla responsabilità amministrativa da reato degli enti" (relatore Prof. Filippo Sgubbi).
Dal 2015 è stato Professore a contratto di Diritto penale (2015-2017) e Diritto penale commerciale (2017-oggi) nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Bologna.
Dal 2014 al 2016 è stato membro del comitato di redazione della Rivista "IUS17@Unibo.it - Studi e Materiali di Diritto Penale.
Dal 2017 è membro del Comitato di Redazione della Rivista “L’Indice Penale”, ove si occupa in particolare dell’Osservatorio sul Conseil Constitutionnel francese.
Dal 2019 è membro del Comitato di redazione del portale “Crisi e insolvenza” (Maggioli Editore).
È componente del Comitato di redazione della Rivista “Diritto di difesa” sin dalla sua fondazione (2020), e attualmente è responsabile dell’Area Penale.
Collabora stabilmente con la Rivista “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, diretta da Marco Levis.
Dal 2014 al 2018 è stato chiamato dal Prof. Marcello Gallo a far parte dell’Osservatorio nazionale sulla legalità delle decisioni giudiziarie dell’Unione delle Camere Penali Italiane.
Dal gennaio 2019 è membro dell’Osservatorio Nazionale dell’Unione delle Camere Penali Italiane in materia di responsabilità amministrativa degli enti collettivi, coordinato dal Prof. Avv. Giulio Garuti e dall’Avv. Vittore D'Acquarone.
Sin dalla prima edizione è docente al Master in diritto penale dell’impresa e dell’economia, fondato dal Prof. Filippo Sgubbi e oggi diretto dalla Prof.ssa Désirée Fondaroli e svolge regolarmente attività di docenza in altri Master universitari in ambito penalistico.
È altresì docente al Master in Diritto penale dell’impresa organizzato dall’Alta Scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale (Università Cattolica di Milano) e in numerosi corsi di alta formazione presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Da tre edizioni (2016-2022) è docente al Corso biennale di alta formazione specialistica dell’avvocato penalista, organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane.
Da gennaio 2020 è membro del Consiglio Direttivo dell'Associazione “Franco Bricola” per il biennio 2020-2022, ove riveste la carica di segretario e tesoriere.
Dal 2020 è membro del Comitato di gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”.
Nel giugno 2020 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore di Seconda Fascia in Diritto penale.
L’8 marzo 2021 ha preso servizio come Professore associato di Diritto penale nell’Università Telematica Pegaso di Napoli, ove è titolare del corso di Diritto penale.
Dal 2021 è membro del Comitato scientifico della Rivista “Discrimen” e dallo stesso anno è membro del Comitato dei revisori della Rivista “Archivio Penale” e della Rivista “Diritto Penale XXI Secolo”.
È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano due monografie (Diritto penale ed enti collettivi. L'estensione della soggettività penale tra repressione, prevenzione e governo dell'economia, Giappichelli, Torino, 2018 e Fake news e diritto penale. La manipolazione digitale del consenso nelle democrazie liberali, Giappichelli, Torino, 2020) e il volume, scritto con Gaetano Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata (Giappichelli, 2019)