Si deve al padre della moderna teoria dell’informazione, il matematico statunitense Claude Elwood Shannon, la costruzione di uno straordinario giocattolo, da lui stesso battezzato "Ultimate Machine" (macchina definitiva). Si tratta di una scatoletta di legno, sul coperchio della quale si trovano soltanto uno sportellino e la leva di un interruttore. Spingendo la leva sulla posizione ON, e quindi attivando il meccanismo, dallo sportellino esce una manina meccanica che riporta l’interruttore sulla posizione OFF, spegnendo il circuito e rientrando tranquillamente nel suo alloggiamento (vedi link)
Si narra che Shannon usasse tenere in bella vista la scatola sulla propria scrivania, divertendosi un mondo nell’osservare le facce di coloro che, incuriositi dall’oggetto che spiccava sul tavolo di una delle menti più brillanti d’America e quindi invitati da lui a provarlo, incorrevano nel fatale errore di accenderlo.
In effetti, non si trattava solo di un modo per prendere in giro l’umanità
che passava dall’ufficio di Shannon (e che lui, sì, in generale, detestava). Quel genio aveva deliberatamente costruito la perfetta macchina inutile, ossia un meccanismo che nell’esatto momento in cui viene messo in funzione esegue l’azione di annullare la sua (unica) funzione. “Un circuito destinato a interagire con se stesso, che non accetta scambi o intromissioni con il mondo esterno, se non quello – comprensibile – di essere polverizzato a martellate, o dato in testa a qualcuno” (così, efficacemente, lo descrive MALVALDI, in "Le due teste del tiranno. Metodi matematici per la libertà ", Milano, 2017, p. 22).
Mi ha ricordato proprio la Ultimate Machine di Shannon il modo in cui è organizzato, almeno presso la Procura della Repubblica di Trapani, il servizio (esclusivamente) telematico di comunicazione delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato ex art. 335, comma 3, c.p.p.
Ai tempi in cui noi difensori vivevamo ancora nelle caverne, con la barba lunga e armati di clave, si andava in Procura – nell’ufficio chiamato “front office” per essere chiari – e si depositava all’annoiato funzionario di turno il modulo (di carta, non di pietra), riempito e firmato, di richiesta delle iscrizioni esistenti nel registro delle notizie di reato di quella Procura di nostro interesse. Trascorsi da quindici a venti giorni, di media, con la barba ancora più lunga e la clava sempre in mano, ritornavamo al front office e ricevevamo la comunicazione richiesta. Se avevamo bisogno di una certificazione di quanto fosse risultato, dovevamo chiederlo prima e ovviamente pagare in marche da bollo l’importo di tale servizio, viceversa trattenevamo semplicemente la “comunicazione” (così in effetti la chiama il codice) orale che l’addetto ci forniva, senza nulla dover versare all’Erario.
Ora, come si sa, l’umanità si evolve grazie all’opera di singole menti, mai per uno sforzo collettivo. E così, saremmo rimasti ancora a lungo con le nostre clave nelle nostre caverne se non ci avessero aperto la strada verso il futuro gli ideatori della rivoluzione digitale da estendere in modo massivo alle attività di cancelleria tutte, fruibili da noi avvocati.
Grazie infatti al salto verso il progresso fattoci compiere da queste menti straordinarie – tali perché in genere tutte persone, si badi, che non hanno mai frequentato un solo giorno i luoghi dei tribunali ordinari, e meno che mai quelli penali – anche la specifica “comunicazione” di cui stiamo parlando, ora, si può richiedere in via telematica, attraverso il portale accesso giustizia e così via.
L’avvocato quindi, catapultato dal progresso fuori dalla sua caverna in un comodo studio dotato di computer, senza più bisogno di ricorrere alla mazza per procurarsi il cibo, può compilare adesso sulla tastiera il modulo telematico di richiesta e inviarlo all’ufficio.
Credetemi, l’inoltro avviene in tempo davvero “reale”, come con comprensibile orgoglio ci tengono a sottolineare gli ideatori di questo sistema. Il modulo-file viaggia tra le fibre ottiche a velocità pari a quella del suono e giunge a destinazione praticamente un attimo dopo che lo si è inviato. Come se avessimo davanti il funzionario del front office addetto alla ricezione della nostra richiesta!
Davvero miracoloso.
E – secondo miracolo – il sistema attesta subito che la richiesta è stata acquisita, promettendo che verrà trasmessa all’ufficio competente. Anche questa, una bella differenza rispetto a quanto avveniva prima (che tuttavia non saprei dire, dacché non mi ricordo più cosa accadesse prima). Tempi di attesa allo sportello, comunque, del tutto annullati. Funzionari addetti al mero ricevimento del pubblico spariti, e impiegati a svolgere migliori e più utili compiti. Si verifica a volte qualche ritardo nella trasmissione dovuto al sovraccarico della rete – questo si – altre volte bisogna rifare interamente da capo la richiesta e provare a ritrasmetterla, ma suvvia: è poca cosa.
Seguirà la risposta, di solito entro un tempo anche questo “reale” di quindici/venti giorni, dipende dai tempi con cui i funzionari della singola Procura riescono a “lavorare” la nostra richiesta. Eh già – ed è questo il punto – perché mica lo assolve l’intelligenza artificiale tale compito (ci mancherebbe altro, vista l’estrema delicatezza in termini di dati sensibili che contiene il registro di cui parliamo.)
Scaduti i quali, si compie il terzo, a questo punto davvero straordinario, prodigio del progresso: il sistema avvisa che è pronta la risposta telematica.
Che – almeno a Trapani come ho anticipato – è così formulata: … “Si invita la S.V. a voler ritirare la certificazione richiesta col n. (…) al Front-Office, munito di marca da bollo da € 3,92. Saluti”.
In sostanza, come la manina della macchina definitiva di Shannon, il sistema telematico annulla con questo (imprevedibile) gesto la propria funzione, e ci dice beffardamente di recarci in ufficio a ritirare il documento che abbiamo richiesto telematicamente. Portando i soldi per il pagamento del servizio reso.
Deve riconoscersi che tutto ciò è geniale. Perché creare qualcosa di veramente e totalmente inutile – guardate – non è affatto opera semplice. Per ottenere lo stesso risultato che ho appena descritto, bastava in effetti inviare la richiesta con i relativi allegati attraverso la posta elettronica, magari persino con una pec, e ricevere nella stessa modalità la risposta della segreteria che la comunicazione era pronta. Troppo banale, mi direste, e già esistente. Ed avreste ragione. Il progresso impone cambiamenti radicali, strappi decisivi. Ed ecco dunque che ora la richiesta è consentita solo ai possessori di chiavetta con firma digitale, dotati anche di un senso dell’humor ben sopra la media, per accogliere il tutto con una risata e non reagire prendendo a martellate il computer come ipotizzava Malvaldi potesse avvenire di fronte alla Ultimate Machine di Shannon.
Eh già, perché tutto il resto del reale può rendersi virtuale, mi direste pure, ma non il pagamento dell’importo del servizio. Occorre quindi raggiungere fisicamente il front office, di nuovo muniti di clava e barba lunga, per adempiere fisicamente a tale pagamento. È inevitabile.
Non direi, in effetti. Si tratta invece di un vero e proprio corto circuito. Da molto prima che gli avvocati alloggiavano nelle caverne già era possibile effettuare on line il pagamento di una tassa, e ritengo sia senz’altro possibile pagare a distanza anche questi 3,92 di diritti di cancelleria (o di certificazione che dir si vogliano), poi mandare una pec al funzionario della Procura con allegata l’attestazione del pagamento chiedendogli di inviare sempre a mezzo pec la certificazione, richiesta e già pagata. Si perde un po’ più di tempo, certo. Ma il fatto è che la risposta che ho mostrato sopra – che potremmo chiamare “comunicazione alla Shannon” – non avvisa che in via alternativa si possa pagare on line, spiegando anche come; invita solo a recarsi in ufficio.
In effetti, una differenza, e di sostanza, con quanto avveniva prima, c’è; ed è da sciocchi, o da ciechi, non vederla: adesso, si è comunque obbligati a versare l’importo della marca da bollo per la certificazione, anche se non si era richiesta nessuna certificazione.
Sotto l’aspetto evolutivo, mi pare un balzo in avanti non da poco.
O no?
Si tratta di una facezia, è ovvio. E i toni sono stati deliberatamente da me esagerati, per mostrare all’ingrandimento un dettaglio, un difetto. Il senso però è questo. È possibile che io mi sbagli, naturalmente, ma se la “digitalizzazione” del processo penale non appare in grado (come sicuramente non lo è, al momento) di apportare significative accelerazioni nello svolgimento dei processi, e quindi all’efficienza della Giustizia, onestà intellettuale imporrebbe di non spacciarla come un progresso.
E noi avvocati, io credo, dovremmo lamentare che, allo stato, tutto questo progredire che con questo nome viene pubblicizzato si esaurisce in effetti nell’avere predisposto unicamente uno strumento che finisce soltanto per allontanarci dai tribunali. Dove invece la nostra quotidiana presenza è, come mi insegnate tutti, necessaria, perché un avvocato rappresenta il Popolo nel nome del quale la Giustizia, secondo la nostra carta fondamentale, deve essere amministrata.
Inoltre, un altro aspetto ritengo meriti di essere considerato. Quasi tutti gli “adempimenti di cancelleria” che da domani si potranno fare esclusivamente in via telematica, hanno costituito finora le attività che ogni avvocato sceglieva di delegare ai propri collaboratori e praticanti di studio, perché imparassero a conoscere la struttura del Palazzo di Giustizia, iniziassero a farsi conoscere dagli addetti ai lavori, a sapersi muovere nei tribunali, e comprendessero con la pratica il senso delle regole procedurali studiate solo sui libri. Attività preziosa per loro, (oltre che notevolmente utile al dominus, che per questa ragione è tenuto a retribuire i suoi collaboratori).
Ebbene, da domani queste attività di cancelleria, pur divenute solo telematiche, il titolare dello studio potrebbe ancora affidarle ai suoi collaboratori, allo stesso prezzo, consegnando loro la chiavetta digitale e tutte le password di accesso (cosa di per sé vietata, anche penalmente se c’è da apporre una firma, comunque). Ma il punto davvero importante è che i ragazzi non impareranno più quello che avevano potuto imparare i loro coetanei in precedenza. E questo produrrà, a breve termine, un danno gravissimo: una leva di nuovi avvocati che non hanno avuto la possibilità di frequentare prima e imparare pian piano a conoscere il “campo di battaglia”, il luogo di lavoro, e gli operatori – magistrati, cancellieri, colleghi – che lo compongono. E saranno loro, però, a dover assumere le difese di un cittadino.
Perciò: progresso si, senz’altro. Ma che sia veramente tale, e tale non è certamente quello che comporti la distruzione in pochi mesi di quanto costruito faticosamente dall’umanità in secoli di pratica del diritto.
Dopo aver inventato la ruota, l’uomo non si è tagliato i piedi e le gambe.
una decina di articoli.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.