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13 settembre 2022

Riforma Cartabia - Il giudizio dell'udienza preliminare e il criterio prognostico: il GUP di Milano anticipa la riforma

 





Un'interessante pronuncia del GUP di Milano che, nel noto caso SAIPEM, s'interroga de iure condendo sulla nuova regola di giudizio dell'udienza preliminare.

Nel far rimando alla sentenza (link), riteniamo di riproporre l'excursus - come sviluppatasi prima della Riforma Cartabia - della questione che negli anni ha occupato sia la dottrina sia la giurisprudenza.

Qual è la funzione dell'udienza preliminare? E quali sono le caratteristiche del giudizio che la definisce? Può definirsi giudizio di merito la valutazione del giudice dell'udienza preliminare?

La risposta agli interrogativi necessita di un breve excursus storico alla ricerca della evoluzione dei criteri del giudizio preliminare.

Com'è noto, secondo l'impostazione originaria del codice del 1988, l'udienza preliminare aveva la funzione di filtro delle imputazioni azzardate e il giudizio del Gup rimaneva processuale.

Ma le riforme degli anni successivi hanno ridefinito qualità, funzione perimetro del giudizio preliminare.

L'art. 1 della l. 105/1993 ha “espunto” l'evidenza dal criterio di giudizio di non luogo a procedere e ha restituito all'udienza preliminare quella dignità “mortificata” dalla prassi: l’udienza preliminare era divenuta un inutile orpello ed era stata relegata a momento di mero “passaggio” dalla sequenza procedimentale a quella processuale (si ricorderà peraltro che non era ancora vigente la “barriera preclusiva” di accesso ai riti speciali e deflattivi). Sin da allora, dunque, s'era innovato lo statuto dell'udienza preliminare, adeguandone la regola di giudizio a quella sull'archiviazione: l'infondatezza della notizia di reato (art. 125 dispatt. c.p.p.).

Con la successiva riforma introdotta dalla l. 479/1999 s'è ulteriormente “ampliata” la funzione dell'udienza preliminare ed è stato attribuito al Gup il potere di integrare le indagini (art. 421-bis c.p.p.) ovvero di disporre ex officio le “prove” decisive ai fini della emissione della sentenza di non luogo a procedere.

Il nuovo statuto dell’udienza preliminare ha comportato la necessità di adeguare le regole indicate dalla giurisprudenza costituzionale sulle cause di incompatibilità. E così, alle “incompatibilità additive” della norma campione mondiale di incostituzionalità (art. 34 c.p.p.), deve ora aggiungersene un' ulteriore: quella del Gup che abbia svolto funzioni di Gip.

Infatti le valutazioni compiute dal Gip – e non più solo in relazione all'adozione di una misura cautelare personale (Corte cost.,n. 432/1995) – comportano il medesimo pregiudizio sul merito dell'accusa (Corte cost., n. 224/2001), sicché la sua imparzialità rimane assorbita e gli è preclusa la funzione di Gup.

Il giudizio preliminare s’è quindi evoluto verso un giudizio di merito, precluso alla medesima persona fisica che si è già pronunciata sulla res judicata.

A monte del non luogo a procedere v’è l’ontologica differenza della discussione da udienza preliminare: l’accusa insiste perché il procedimento acceda al processo; la difesa perché s’arresti. Entrambi “tarano” la discussione sul piano prognostico: di idoneità a sostenere l’accusa in giudizio, da una parte; di superfluità della ribalta dibattimentale, dall’altra.

Non è casuale che la terminologia utilizzata dal codice sia non luogo a procedereanziché assoluzione.

Questi essendo i piani di indagine che il contraddittorio offre al giudizio preliminare, si comprende perché la valutazione che è richiesta al Gup sia predittiva e attenga all’utilità del giudizio.

Fuori dalle ipotesi c.d. “chiuse”, nelle quali cioè l’arresto del procedimento s’impone per l’evidente insufficienza degli elementi di prova a carico e per la valutazione negativa della loro integrazione, permangono dubbi sui criteri di giudizio nel caso di soluzioni c.d. “aperte”.

Si tratta di tutti quei casi in cui il materiale offerto dall’accusa a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio appaia, in potenza, capace di ricevere un ulteriore apporto nella fase dibattimentale. Se ne ha conferma dai parametri del comma 3 dell’art. 425 c.p.p.: gli elementi insufficienti o contraddittori non rappresentano la regola del giudizio preliminare. Invero, anche elementi contraddittori a “carico” possono, in prognosi, risultare insuscettibili di ulteriore sviluppo dibattimentale e impongono il non luogo a procedere. Di converso s’imporrà il rinvio a giudizio, laddove la valutazione consenta di prevedere la soluzione dibattimentale degli elementi contraddittori.

Infatti, il giudizio preliminare non pronuncia sulla colpevolezza o sull’innocenza dell’imputato e, per quanto esso “tenda” verso il merito, si colloca nella sequenza degli atti come decisione procedimentale. Come s’è già accennato, esso è infatti calibrato sugli stessi parametri del giudizio di archiviazione (art. 125 dispatt. c.p.p.).

Quella delineata appare l’interpretazione più coerente con l’architettura del codice, pur considerata la sua evoluzione storica sul punto. Altrimenti non si spiegherebbe perché s’è voluto un decreto non motivato (che dispone il giudizio) quale alternativa all’arresto procedimentale del non luogo.

Diversamente opinando, si finirebbe per attribuire al decreto ex art. 429 c.p.p. un valore di giudizio che certamente non ha e quasi fosse un’ipoteca sul merito della cosa giudicata.

In quest’ottica, si spiegano anche i poteri officiosi in materia di prova dei quali dispone il Gup. Essi sono distinti in poteri di impulso integrativo (art. 421-bis c.p.p.) oppure di integrazione vera e propria (art. 422 c.p.p.) e tendono a superare le incertezze del proscioglimento (Marandola).

Proprio le prerogative “probatorie” del Gup offrono un ulteriore spunto nel tentativo di delineare il giudizio preliminare, muovendo dalla similitudine del disposto di cui all’art. 422 c.p.p. con quello di cui all’art. 441, comma 5, c.p.p.

In entrambi i casi la disposizione delle nuove prove trova ragione in una situazione di stallo (impossibilità di decidere allo stato degli atti) che è tuttavia differente quanto agli epiloghi decisori.

Infatti, nel primo caso (art. 422 c.p.p.) l’opzione probatoria s’atteggia come facoltativa: vi si accederà se la contraddizione e/o l’incompletezza degli elementi a carico possono risolversi nel non luogo a procedere, ma nulla toglie che la soluzione del contrasto venga affidata alla sede (dibattimentale) propria. Non a caso, infatti, nell’art. 422 c.p.p. si ripropone l’aggettivazione (evidente) che connotava il giudizio preliminare prima della riforma del 1993: il giudizio fonda sulla evidente decisività ed ai soli fini della sentenza di non luogo a procedere.

Nel caso del giudizio abbreviato (art. 441, comma 5, c.p.p.) la regola di giudizio è calibrata sul ragionevole dubbio, sicché l’opzione integrativa della piattaforma probatoria è obbligatoria laddove il surplus di prove appaia (l’unico) idoneo a risolvere lo stallo (fermo restando che, non risolto il dubbio, la decisione dovrà essere assolutoria).

Il che acclara la prevalente natura processuale del giudizio preliminare. Se, come è, si tratta di un giudizio nel quale rimane estranea l’affermazione o meno di colpevolezza, l’obbligo di integrazione probatoria rileva ai soli fini della inutile sperimentazione del dibattimento e dunque per la (eventuale) emissione della sentenza di non luogo a procedere.

A ragionar diversamente, dovrebbe immaginarsi l’anticipazione all’udienza preliminare del contraddittorio sulla prova mediante un’istruzione che si formi “lontano” dagli occhi e dalle orecchie del giudice dibattimentale.

In conclusione, siamo in presenza di una regola invertita: nel giudizio di accertamento della responsabilità il dubbio opera pro reo; nel giudizio preliminare, al contrario, il dubbio è il propellente dell’azione penale. Una conseguenza che, al di là dei tecnicismi, appare irragionevole e in contrasto con la percezione di giustiziajustice must not only be done, it must also be seen to be done).

06 maggio 2022

PROCESSO PANDEMICO E RIFORMA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE: il documento approvato dal Consiglio delle Camere Penali Italiane del 29/30 aprile 2022

 


Pubblichiamo la relazione elaborata dalla commissione del Consiglio delle Camere Penali Italiane, istituita con  deliberato del Consiglio delle Camere Penali Italiane dell’11 febbraio 2022,  

La commissione è stata coordinata da Marco Siragusa (CP Trapani) ed è composta da Valentina Alberta (CP Milano), Laura Antonelli (CP Pisa), Vincenzo Comi (CP Roma), Fabrizio Cravero (CP Imperia-Sanremo), Fabio Ferrara (CP Pa- lermo), Luca Maggiora (CP Firenze), Valerio Murgano (CP Catanzaro), Guglielmo Starace (CP Bari) e Gabriele Terranova (CP Prato).

Il documento della commissione è stato approvato dal Consiglio delle Camere Penali del 29/30 aprile 2022.

28 gennaio 2022

La Riforma del Processo Penale: la pubblicazione della CP Trapani disponibile anche online



Dopo la presentazione dell'impaginato "su carta" dei contributi pubblicati su questo blog  (linkin merito a LA RIFORMA DEL PROCESSO PENALE, edizione cartacea riservata ai soci della Camera Penale di Trapani e agli Autori, rilasciamo, disponibile gratuitamente, la versione online del testo.
È possibile scaricare il testo della pubblicazione al link.
Cogliamo l'occasione per ringraziare Quanti hanno dato il loro prezioso apporto a questa iniziativa con le loro idee e parole. 
Un sentito ringraziamento alla sapiente ed elegante presentazione grafica ed impaginazione, merito della professionalità di Pia Marchingiglio.

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Tra gli obiettivi di “Foro e Giurisprudenza” vi è quello di far circolare le idee e i diversi saperi di chi, a vario titolo, si misura con il diritto penale, tanto sostanziale quanto processuale.

È evidente allora che nel corso dell’anno appena trascorso il disegno di legge intitolato “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello” e la successiva legge 134/2021, intitolata “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, hanno costituito uno dei principali temi di confronto.

Tuttavia i contributi sono stati raccolti con due diverse modalità: originariamente il disegno di legge, ispirato dall’allora ministro della giustizia, on. Alfonso Bonafede, è stato frazionato in più temi, per ciascuno dei quali sono state sottoposte delle domande a un giudice, a un pubblico ministero, a un avvocato e a un docente, salvo l’ultima sezione per la quale è stato raccolto soltanto il contributo di una dirigente della procura generale; successivamente, lì dove ha iniziato a delinearsi il testo ispirato dalla commissione Lattanzi e dall'attuale ministro, professoressa Marta Cartabia, si è proceduto a “pubblicare” i contributi di ciascuno, come il genio li ispirava.

La presente raccolta vuole essere un grato omaggio a quanti si sono lasciati coinvolgere, spendendo il loro tempo e le loro attenzioni per confrontarsi su “Foro e Giurisprudenza”.

Trapani, 21 gennaio 2022


Il Responsabile di F&GCPTP - avv. Daniele Livreri 




Il Presidente di CPTP - avv. Marco Siragusa

14 dicembre 2021

LA RIFORMA CARTABIA: NORME IN VIGORE E NOVITÀ DELEGATE - La registrazione del convegno della CPTP




Con la partecipazione di oltre 1.000 avvocati e magistrati, ma non solo, si è svolto ieri il Convegno della Camera Penale di Trapani, con il patrocinio del Coa di Trapani, dal titolo la Riforma Cartabia: norme in vigore e novità delegate.


Con la regia de Il tuo Webinar dell'avvocato Samuele Fazzolari, ne hanno discusso la dottoressa Daniela Troja, presidente della Sezione penale del Tribunale di Trapani, la professoressa Annalisa Mangiaracina, professore associato nell'Università di Palermo, l'avvocato Daniele Livreri, responsabile del blog Foro e Giurisprudenza di CPTP,  e l'avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente di UCPI.

Dopo i saluti dell'avvocato Marco Siragusa, presidente della Camera Penale di Trapani e dell'avvocato Vito Galluffo, presidente del COA di Trapani, i Relatori hanno affrontato tutti gli aspetti della riforma Cartabia.



Al link è possibile il video del convegno.



I numeri del Convegno











Alcune foto






02 dicembre 2021

Un gioco di vuoti e pieni: Tommaso Guerini (*) sulla Riforma Cartabia







La storia di tutte le più recenti riforme riflette equilibri più o meno stabili tra vuoti e pieni.

Si pensi al Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, vera e propria tela di Penelope della nostra epoca, che, nelle more di un’entrata in vigore perennemente rinviata a data da destinarsi, sembra finalmente arricchirsi, all’ultimo miglio, di un – essenziale – intervento sui reati fallimentari, la cui riscrittura è stata affidata a una Commissione di esperti presieduta da Renato Bricchetti.

In quel caso, come era stato da più parti rilevato in letteratura, la scelta di intervenire in maniera radicale sulla disciplina civilistica, lasciando al contempo inalterato il poderoso – e anacronistico – sistema di sanzioni penali previste per i reati di bancarotta, si sarebbe verosimilmente tradotta in un fallimento annunciato, data l’ontologica irragionevolezza di un Codice che da un lato predica la flessibilità nei rapporti tra debitore e creditore nel contesto della crisi d’impresa e dall’altro è pronto a intervenire con pene draconiane nel caso in cui la crisi stessa abbia un esito nefasto.

Del resto, nell’epoca del declino della Seconda Repubblica, ogni passaggio riformatore è frutto di complicate alchimie tra forze politiche che sostengono posizioni apparentemente inconciliabili, la mediazione tra le quali non avviene e non può avvenire su elementi di sostanza – su quelli che una volta avremmo chiamato i principi – quanto piuttosto su singoli istituti o norme, la cui scarsa qualità di scrittura riflette una altrettanto scarsa qualità di pensiero.

Parzialmente diverso il caso della Riforma Cartabia, ovvero il complesso sistema di interventi compendiati nella legge 27 settembre 2021, n. 134, con la quale il Parlamento ha conferito delega al Governo per emanare norme in materia di “efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.

In primo luogo, alcune notazioni sul portato dell’intervento del Governo.

È sufficiente scorrere la corposa relazione del Massimario per rendersi conto che, tolta la disciplina della prescrizione, l’impatto sul sistema sarà probabilmente più limitato di quanto non si vorrebbe far credere.

La partita si gioca altrove, sull’organizzazione degli uffici giudiziari, più che sul campo del diritto penale sostanziale, che avrebbe bisogno di ben altri interventi: dall’amnistia a una massiccia campagna di depenalizzazione degli illeciti penali minori (non solo delle contravvenzioni).

Del resto, per quanto il Governo guidato da Mario Draghi stia compiendo lo sforzo titanico di provare a chiudere la stagione del populismo – non solo penale – le due Camere chiamate ad approvarne i provvedimenti sono le stesse nell’ambito delle quali si era formata una maggioranza giallo-verde, che aveva compendiato la propria visione politico-criminale nel dodicesimo capitolo di un Contratto – in ogni senso atipico – di Governo intitolato “Giustizia rapida ed efficiente”, che aveva dato vita alla legge Spazzacorrotti.

Non stupisce quindi che la scelta per certi versi obbligata del Ministro Cartabia di innestare la propria visione del penale sulla (mala)pianta della Riforma Bonafede abbia dato vita a reazioni contrastanti, che rappresentano l’esito scontato di ogni mediazione.

Deve probabilmente essere letta in quest’ottica anche l’enfasi attribuita alla riforma nella prospettiva del P.N.R.R., vera e propria clava brandita da Mario Draghi per far digerire ai partiti recalcitranti la necessità di alleggerire un sistema ormai da tempo al collasso.

Come è stato più volte ribadito, le ragioni preponderanti che hanno indotto il legislatore a mettere mano al sistema del penale presentano un fondamento economico, più che giuridico.

Non stupisce quindi che la parola chiave che caratterizza l’opera del Ministro Cartabia sia efficienza.

Efficienza del processo e, con essa, della giustizia – intesa più come macchina, che come funzione – che deve portare l’Italia a ridurre la durata di processi, entro i prossimi cinque anni, del 25% nel settore penale e del 40% in quello civile. 

Il raggiungimento di questi obiettivi è una condizione essenziale per l’ottenimento dei fondi europei legati al P.N.R.R., a loro volta essenziali per la ripresa del Paese. 

Per la prima volta – quantomeno a nostra memoria – da una riforma della giustizia dipende l’erogazione di una messe di danaro pubblico, essenziale per la ripresa di un paese nel quale i due anni di pandemia si aggiungono a una lunga fase di stagnazione economica.

Dunque, una riforma dalla matrice emergenziale, essenziale per uscire dalla crisi pandemica, perdipiù richiesta dall’Europa e sostenuta dal deus ex machina della politica italiana.

Di fronte a uno scenario siffatto, è evidente che nessuna delle forze politiche che compongono l’attuale maggioranza – ciascuna delle quali, per inciso, affronta una propria crisi di legittimazione e di consenso – ha potuto tirarsi indietro.

In questo contesto, il lettore laico non può certo stupirsi davanti a una proposta di riforma che non tocca i nervi scoperti dell’attuale sistema penale.

Che non riguardano, quantomeno a parere di chi scrive, né la giustizia riparativa, né la prescrizione del reato, il cui volto era già stato profondamente mutato nel 2017 dalla Riforma Orlando, alla quale il furore pentastellato non ha mai consentito di dispiegare i suoi effetti.

Certo, la disciplina dell’improcedibilità – che certifica la natura di ibrido sostanzial-processuale dell’istituto – apre a una pericolosa processualizzazione della prescrizione, da tempo sostenuta da autorevole letteratura.

Resta il fatto che la prescrizione, per quanto presidio fondamentale sul piano dei principi, non può che rappresentare una – necessaria – anomalia nell’ambito di un sistema che dovrebbe avere la funzione di prevenire e reprimere in concreto la commissione di reati, e con essa la lesione di beni di natura costituzionale, non di girare a vuoto per concludersi con sentenze di improcedibilità e/o di estinzione del reato.

Allo stesso modo è nostra convinzione che debba essere salutata con estremo favore l’introduzione di presidi riconducibili al modello della cd. restorative justice, a maggior ragione in un sistema, quale il nostro, storicamente carcerocentrico.

Non sarebbe tuttavia intellettualmente onesto dimenticare che tale modello – la cui concreta attuazione richiede l’impiego di ingenti risorse – è applicabile in via pressoché esclusiva ai casi in cui il reato abbia cagionato un danno alle persone e che, pertanto, è di difficile applicazione nella stragrande maggioranza dei procedimenti che impegnano le Procure e i Tribunali della Repubblica, che riguardano reati in materia di droga e patrimonio.

Dunque, a fronte di qualche pieno, rimangono molti vuoti.

Ne segnaliamo alcuni.

In primo luogo, proprio la logica economicistica che sorregge l’esigenza di riforma – l’ottenimento dei fondi del P.N.R.R.– richiederebbe un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio che gravita attorno ai reati contro la Pubblica Amministrazione.

Parliamo di sistema sanzionatorio in quanto, sposata la logica preventivo-repressiva introdotta a far data dal 2012 con la Legge Severino, nell’ultimo decennio abbiamo assistito al sistematico Enforcement della disciplina sanzionatoria penale e amministrativa rivolta a privati e imprese coinvolti in fatti di reato contro la PA, che spazia ormai dalla responsabilità penale vera e propria, alla responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi, ai commissariamenti ANAC, fino alle misure di prevenzione.

Un sistema pletorico e inefficiente, frutto di ripensamenti dettati da preconcetti ideologici più che da una attenta disamina del sottostante, esemplificativa dei quali è la bizantina nozione di corruzione percepita, frutto avvelenato del cortocircuito politico-mediatico che caratterizza questo momento storico.

Un sistema nel quale abbiamo ormai perso il conto delle riforme che hanno riguardato l’abuso d’ufficio, il quale, nonostante l’intervento del 2020, rischia di essere la pietra d’inciampo della complessa architettura su cui si fonda l’intera proposta Cartabia.

La questione merita un’ultima riflessione.

La logica della riforma, rispetto al P.N.R.R., è circolare.

Approvare i decreti delegati è essenziale per ottenere i fondi europei, i quali sono a loro volta essenziali per finanziare gli obiettivi del piano stesso, che prevede – tra l’altro – le assunzioni straordinarie di 16.500 giovani laureati nell’Ufficio per il processo, che entro i prossimi cinque anni dovranno affiancarsi ai giudici per aiutarli a smaltire l’arretrato e ridurre i tempi della giustizia, nonché l’assunzione di 5.140 unità di personale propriamente tecnico-amministrativo.

Tuttavia, come ci è stato più volte ribadito, il rispetto dei tempi sarà essenziale: la Commissione Europea vigilerà severamente e non verrà ammesso alcun ritardo.

Difficile, a nostro parere, coniugare una così rigida esigenza di celerità sul piano politico-amministrativo con l’epidemia di fobia della firma che affligge cronicamente la burocrazia italiana, nell’ambito della quale i dirigenti sono giustamente preoccupati di tutelarsi dal rischio – immanente – di essere iscritti nel registro degli indagati per l’esercizio di quelle scelte discrezionali nelle quali si sostanzia l’essenza stessa dell’esercizio dei pubblici poteri.

In conclusione.

La Riforma della Giustizia avviata da Marta Cartabia si propone di segnare un’inversione di rotta nella politica criminale del XXI Secolo, finora caratterizzata da un irragionevole smania per il punire, che ha portato alla assoluta inefficienza – dunque all’iniquità – il sistema penale italiano.

Per farlo, tocca temi alti, come quello della riconciliazione tra autore del reato e vittima, e nodi essenziali sul piano applicativo, come la digitalizzazione del processo.

È sicuramente interesse di tutti che questa palingenesi del sistema vada a buon fine.

L’abrogazione dell’abuso d’ufficio – norma evidentemente irriformabile – potrebbe essere lo snodo essenziale per garantirne il successo.




(*) Tommaso Guerini: 
Conseguita la maturità classica al Liceo Classico Luigi Galvani di Bologna, si laurea Scienze Giuridiche (110/110 con lode) discutendo una tesi in Diritto penale commerciale (relatore prof. Elio Carletti), poi in Giurisprudenza (110/110 lode), discutendo una tesi in Diritto penale (relatore prof. Filippo Sgubbi).

Nel 2010 è ammesso con borsa al corso di Dottorato in "Istituzioni e Mercato, diritti e tutela", indirizzo "Diritto penale", XXVI ciclo, presso la Scuola di Dottorato di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Bologna.

Dal 2008 collabora stabilmente con le cattedre di Diritto Penale (Proff. Gaetano Insolera, Nicola Mazzacuva, Filippo Sgubbi) e con la cattedra di Diritto Penale Commerciale (Prof. Elio Carletti; Prof. Nicola Mazzacuva), Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Bologna.

Nel luglio del 2014 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Diritto Penale, discutendo una tesi dal titolo: "Uno studio sulla responsabilità amministrativa da reato degli enti" (relatore Prof. Filippo Sgubbi).

Dal 2015 è stato Professore a contratto di Diritto penale (2015-2017) e Diritto penale commerciale (2017-oggi) nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Bologna.

Dal 2014 al 2016 è stato membro del comitato di redazione della Rivista "IUS17@Unibo.it - Studi e Materiali di Diritto Penale.

Dal 2017 è membro del Comitato di Redazione della Rivista “L’Indice Penale”, ove si occupa in particolare dell’Osservatorio sul Conseil Constitutionnel francese.

Dal 2019 è membro del Comitato di redazione del portale “Crisi e insolvenza” (Maggioli Editore).

È componente del Comitato di redazione della Rivista “Diritto di difesa” sin dalla sua fondazione (2020), e attualmente è responsabile dell’Area Penale.

Collabora stabilmente con la Rivista “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, diretta da Marco Levis.

Dal 2014 al 2018 è stato chiamato dal Prof. Marcello Gallo a far parte dell’Osservatorio nazionale sulla legalità delle decisioni giudiziarie dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

Dal gennaio 2019 è membro dell’Osservatorio Nazionale dell’Unione delle Camere Penali Italiane in materia di responsabilità amministrativa degli enti collettivi, coordinato dal Prof. Avv. Giulio Garuti e dall’Avv. Vittore D'Acquarone.

Sin dalla prima edizione è docente al Master in diritto penale dell’impresa e dell’economia, fondato dal Prof. Filippo Sgubbi e oggi diretto dalla Prof.ssa Désirée Fondaroli e svolge regolarmente attività di docenza in altri Master universitari in ambito penalistico.

È altresì docente al Master in Diritto penale dell’impresa organizzato dall’Alta Scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale (Università Cattolica di Milano) e in numerosi corsi di alta formazione presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Da tre edizioni (2016-2022) è docente al Corso biennale di alta formazione specialistica dell’avvocato penalista, organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane.

Da gennaio 2020 è membro del Consiglio Direttivo dell'Associazione “Franco Bricola” per il biennio 2020-2022, ove riveste la carica di segretario e tesoriere.

Dal 2020 è membro del Comitato di gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”.

Nel giugno 2020 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore di Seconda Fascia in Diritto penale.

L’8 marzo 2021 ha preso servizio come Professore associato di Diritto penale nell’Università Telematica Pegaso di Napoli, ove è titolare del corso di Diritto penale.

Dal 2021 è membro del Comitato scientifico della Rivista “Discrimen” e dallo stesso anno è membro del Comitato dei revisori della Rivista “Archivio Penale” e della Rivista “Diritto Penale XXI Secolo”.

È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano due monografie (Diritto penale ed enti collettivi. L'estensione della soggettività penale tra repressione, prevenzione e governo dell'economia, Giappichelli, Torino, 2018 e Fake news e diritto penale. La manipolazione digitale del consenso nelle democrazie liberali, Giappichelli, Torino, 2020) e il volume, scritto con Gaetano Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata (Giappichelli, 2019)


23 novembre 2021

Riforma Cartabia: il decreto della Ministra che istituisce le cinque commissioni incaricate di redigere gli schemi di decreto legislativo



Pubblichiamo il decreto del Ministro di Giustizia che istituisce le cinque commissioni incaricate di redigere gli schemi dei decreti legislativi (al link).

Il post sarà pubblicato sulla pagina dedicata alla Riforma del Processo penale di questo blog (link).

Con successivo decreto (link) è stato disposato l’inserimento del Direttore della rivista UCPI Diritto di Difesa, Avv. Francesco Petrelli, nel gruppo di lavoro istituito dalla Ministra della Giustizia, Prof.ssa Marta Cartabia, e coordinato dal Dott. Giovanni Canzio “per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo recante modifiche normative in materia di procedimenti speciali, impugnazioni, amministrazioni dei beni in sequestro ed esecuzione della confisca, diritto all’oblio degli indagati e degli imputati e di deindicizzazione in caso di archiviazione, non luogo a procedere o assoluzione”.



16 novembre 2021

Legge n.134/2021: prime fibrillazioni in tema di regime transitorio - di Giorgio Spangher

Autorizzati dall'Autore, pubblichiamo da Penaledp.





Era prevedibile, era previsto ed è puntualmente successo che la riforma di cui alla l. n. 134 del 2021 avrebbe evidenziato problemi applicativi e non poche questioni di forte impatto, tenuto conto di quanti avevano avuto modo di analizzarne i profili di stretto diritto.

Prescindendo, infatti, da ogni valutazione politica, non erano mancate riserve sia sotto il profilo costituzionale, sia sotto quello processuale.

A prescindere dalla necessaria correzione dell’art. 380 c.p.p., in tema di arresto obbligatorio in flagranza nei confronti dei sottoposti alle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori previsti dagli artt. 387 bis, 572 e 612 bis c.p.. (sul tema si veda anche l'intervista di Valentina Stella alla prof.ssa Marandola su Il Dubbio) una certa fibrillazione riguarda l’operatività dell’art. 2, commi 3, 4 e 5, dove è previsto il c.d. regime transitorio.

Si prevede, infatti, che la nuova previsione di cui all’art. 344 bis c.p.p. si applichi ai soli procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020.

Si tratta del necessario coordinamento con la sospensione – cessazione della prescrizione di cui alla l. n. 3 del 2019.

Il comma 4 prevede che qualora per uno di questi reati sia stata già proposta impugnazione, prima dell’entrata in vigore della legge n. 134 del 2021, e gli atti ex art. 590 c.p.p. siano già pervenuti, al momento di entrata in vigore della legge al giudice d’appello o in cassazione, i termini di due anni per l’appello e di un anno per la cassazione, decorrano dall’entrata in vigore della legge, cioè, stanno già decorrendo dal 19 ottobre 2021.

Inevitabili, quindi, le fibrillazioni in materia, anche perché appare difficile poter far leva sul comma 5 che fa riferimento ai diversi termini di cui alle impugnazioni proposte entro il 31 dicembre 2024, che determinerebbe l’inutilità (per assorbimento) del comma 4.

Un escamotage potrebbe essere quello di ritenere possibile la concessione delle proroghe,

30 settembre 2021

La Riforma del Processo penale - 10 Procedibilità e contravvenzioni: tutte le risposte

Concludiamo l’opera della quale da qualche mese ci stiamo occupando sulla riforma del processo penale.

Lo abbiamo fatto, sin dal testo Bonafede, per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.

Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.

Terminate le varie sezioni abbiamo pubblicato tutte le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.

Concludiamo oggi oggi con la sezione La riforma della procedibilità e delle contravvenzioni, per la quale abbiamo rivolto le nostre domande a Marco D'Alessandro (giudice), Silvia Siracusa (pm),  Gemma Ciaglia (avvocato),  Maria Eelena Castaldo e Emanuele Nagni (docente).








1. L’art. 8 del disegno di legge introduce la procedibilità a querela per il reato di lesioni stradali gravi, condivide questa riforma e se sì non le pare un’occasione mancata per estendere a molti altri reati tale condizione di procedibilità? 

Il Giudice: IN RELAZIONE ALL’ART. 8, RIGUARDANTE LE CONDIZIONI DI PROCEDIBILITA’, IL MIO MODESTO PARERE E’ QUELLO DI NON ABOLIRE LA PERSEGUIBILITA’ DI UFFICIO CHE COSTITUISCE IN OGNI CASO UN VALIDO DETERRENTE NEI CONFRONTI DI CHI PROVOCA LESIONI GRAVI (O GRAVISSIME) NELLE CONDIZIONI E CON LE MODALITA’ INDICATE NELL’ART. 590 BIS C.P.; TALI COMPORTAMENTI VANNO SANZIONATI A PRESCINDERE DALL’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLA PERSONA OFFESA.QUANTO INDICATO NELLA LETTERA B) DEL MEDESIMO ARTICOLO E’ CONDIVISIBILE, PER L’EVIDENTE RISPARMIO DI TEMPO E DI SPESE PER L’ERARIO CHE NE POTREBBE DERIVARE.

Il PM: Posto che la ratio della legge n.41 del 2016 - delineando nell’art. 590 bis c.p. non già forme circostanziate dell’illecito di cui all’art. 590 c.p. bensì un autonomo delitto di lesioni personali stradali, gravi (cioè con un riconoscimento di prognosi superiore a gg. 40) o gravissime, perseguibile d’ufficio sia nell’ipotesi base di cui al comma 1, caratterizzata dalla generica violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, sia nelle ipotesi aggravate di cui ai commi successivi - è stata indubbiamente quella di inasprire il trattamento sanzionatorio per questa tipologia di reati ritenuti di particolare allarme sociale, prima di esprimere la mia opinione su ciò che mi viene richiesto, ritengo opportuno operare un distinguo a mio avviso indispensabileL’ipotesi base è certamente connotata da un minore disvalore della condotta e del grado della colpa rispetto a quelli delle più gravi ipotesi di cui ai commi successivi, caratterizzate dalla consapevole assunzione di rischi irragionevoli; basta considerare che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di lesioni colpose provocate con totale esclusione della volontarietà dell’evento da parte dell’autore della condotta.

Il primo comma racchiude, inoltre, diverse fattispecie in cui il soggetto attivo non deve essere necessariamente il conducente di un veicolo a motore (si pensi a chi guida una bicicletta o altro analogo mezzo di trasporto) e che hanno come presupposto la violazione di una qualsiasi norma del codice della strada diversa da quelle contemplate nei commi successivi.

Anche la Corte Costituzionale pur non ritenendo fondate le diverse questioni di legittimità sollevate con riferimento al regime della procedibilità dell’art. 590 bis c.p. - ha comunque ritenuto auspicabile un intervento finalizzato a rendere procedibile a querela tutte le ipotesi contemplate nell’articolo in oggetto con la sola esclusione di quelle di cui al comma 2. I giudici delle leggi hanno infatti posto l’accento sul profilo di un’evidente disparità di trattamento tra il reato di lesioni stradali, procedibile d’ufficio da marzo del 2016, e quello di lesioni in ambito sanitario laddove, anche se più gravi o maggiormente incisive nella sfera della salute dell’individuo, sono comunque procedibili a querela di parte; siffatto differente regime di procedibilità è ancora meno plausibile se si considera che la responsabilità in ambito sanitario è stata oggetto di numerosi interventi legislativi che comunque non hanno inciso sulla procedibilità.    

Fatta questa doverosa premessa, ritengo di condividere la proposta - inserita nel progetto di legge attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera - di modificare la norma penale riconducendo nell’alveo della procedibilità a querela di parte anche il reato di lesioni colpose gravi commesse in ambito stradale mantenendo l’esclusione per quelle gravissime e ciò in un‘otticachiaramente deflattiva e di utilizzo dell’espediente penale solo ove voluto.

A mio avviso deve essere dunque ripristinata la possibilità per la persona offesa di azionare un procedimento penale solo dietro presentazione di un atto querelatorio per evitare il paradosso che nonostante una serie di variabili entrate in gioco (quali ad esempio un intervenuto risarcimento del danno cagionato e/o la volontà di rimettere la querela da parte del danneggiato) - che di fatto possono rendere non più necessario e/o opportuno l’esercizio dell’azione penale - il procedimento debba comunque andare avanti.

Certo è anche vero che, allo stato attuale, esistono altri validi strumenti di definizione anticipata e celere nelle ipotesi di conclamata lievità quali l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.p. - in realtà poco utilizzato almeno nella prassi giudiziaria palermitana - ovvero nei casi meno lievi una richiesta di sospensione per messa alla prova ai sensi dell’art. 168 bis c.p., strumenti questi che consentono una definizione con estinzione al ricorrere di determinati presupposti; tuttavia, ripristinando la procedibilità a querela di parte nell’ipotesi di cui all’art. 590 bis c.p.,si verrebbe ad evitare la messa in moto del meccanismo procedimentale penale con evidente dispendio di energie e di tempo.

Analogamente ritengo sarebbe stato opportuno estendere siffatta modifica legislativa anche ad altre fattispecie di reato perseguibili d’ufficio come ad esempio quei reati contravvenzionali in cui sia possibile individuare una persona offesa titolare del diritto di proporre querela (quali ad esempio le ipotesi previste dagli artt. 659, 660 e 674 c.p.) anche se è pur vero che il regime di procedibilità d'ufficio è il connotato comune a tutte le contravvenzioni laddove soltanto per i delitti è possibile distinguere il regime di procedibilità a querela da quello d'ufficio in ragione dell'incidenza su interessi disponibili o meno. La stessa Corte Costituzionale - pur concludendo per la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento al regime di procedibilità dell’art. 660 c.p. - non ha mancato di rilevare come possa apparire inattuale ricomprendere nella contravvenzione in esame le molestie perpetrate col mezzo del telefono nei confronti di soggetti determinati, i cui effetti sovente restano in una sfera privata, segnalando incidentalmente l'opportunità di un intervento legislativo in materia.

Per quanto attiene invece ai delitti, il decreto legislativo n. 36/2018 (“Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettera a) e b), e 17, della legge 23 giugno 2017, n.103”) ha già operato una trasformazione di taluni reati procedibili d’ufficio in reati a querela; nello specifico, sono state colpite da tale modifica quelle fattispecie criminose che si caratterizzano per il valore privato dell’offesa o per il suo modesto valore offensivo e, dunque, di minore allarme sociale (a titolo esemplificativo i reati contro la persona che sono puniti con la sola pena pecuniaria o detentiva, non superiore ai 4 anni). Per le altre tipologie di reato di particolare allarme sociale invece mi sembra corretto ed opportuno mantenere l’attuale regime di procedibilità d’ufficio.


L'Avvocato: La sostituzione dell’attuale procedibilità d’ufficio delle lesioni personali gravi commesse con violazione delle norme sulla circolazione stradale con la procedibilità a querela di parte rappresenta un chiaro indicatore della finalità deflattiva perseguita dal legislatore. Lo sforzo è apprezzabile, non solo per fronteggiare la pressione in termini quantitativi che tale tipologia di reati esercita sul lavoro degli Uffici di Procura ma soprattutto in considerazione della portata offensiva del reato, con particolare riguardo all’entità della lesione.

Risulta condivisibile la decisione di non estendere siffatta modifica alle lesioni gravissime, attesa la difficoltà di coniugare le lesioni colpose più gravi con una perseguibilità rimessa alla valutazione della persona offesa dal reato.
Opportuna potrebbe essere l’introduzione di un termine più lungo di quello ordinario per la proposizione della querela, conservando altresì la competenza del Tribunale (in composizione monocratica) anche per le ipotesi connotate dalla procedibilità a querela. 

Nonostante il substrato certamente positivo, la natura puntiforme della riforma, limitata quasi in maniera chirurgica a un singolo aspetto, ne costituisce un evidente vulnus, profilandosi come (l’ennesima) occasione mancata per un’ampia valutazione di sistema che, agendo per macro-categorie di reato, individuasse la ratio comune sottesa alla modifica del regime di procedibilità per plurime fattispecie, nel contempo effettuando un vaglio più incisivo in termini di depenalizzazione, che avrebbe potuto ad esempio riguardare le lesioni lievi e lievissime (stradali e non).

Il Docente: Ad avviso degli scriventi, il principio direttivo della delega di cui alla lett. a) dell’art. 8 del disegno di legge A.C. 2435 sembrerebbe ragionevolmente conformarsi ai propositi di revisione dell’esecutivo, per quanto in modo prudente. Come noto, stando alla Relazione illustrativa della riforma, l’obiettivo principale consiste nel ripristinare una risposta più veloce ed efficiente del processo penale, garantendo efficacemente il bilanciamento fra l’azione giudiziaria e il rispetto dei diritti di difesa. Pertanto, un intervento in termini di procedibilità a querela per il delitto di lesioni personali stradali gravi, previsto dal 1° comma dell’art. 590-bis c.p., è da ritenere certamente auspicabile. Ciò risulta ancor più evidente se si pone mente alla sentenza n. 223 del 25 settembre 2019, in cui la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale del D. Lgs. 10 aprile 2018, n. 36 (emesso in attuazione della delega contenuta all’art. 1, 16° comma, lett. a) e b) della L. 23 giugno 2017, n. 103), sollevata, in riferimento all’art. 76 Cost., dal Tribunale ordinario di La Spezia con l’ordinanza dell’8 ottobre 2018. Atteso che la Consulta non ha accolto una simile modifica additiva, tenendo salva la procedibilità d’ufficio del 1° comma dell’art. 590-bis c.p., appare doverosa un’iniziativa del Governo che torni sul punto, guardandosi bene dall’inserire nel correttivo anche le lesioni gravissime. Chiaramente, la procedibilità a querela avrebbe potuto investire anche diverse altre fattispecie di reato, ma non stupisce che l’esecutivo al momento circoscriva il suo intervento ad impedire l’instaurazione di procedimenti non certo poco costosi e tantomeno sporadici nel nostro Paese. È inutile nascondere che le perizie intraprese per una necessaria ricostruzione del sinistro stradale oggi gravano molto – non solo in termini di tempo, ma anche di costi – sul carico processuale. In effetti, un simile aggravamento non può più certo ammettersi se la persona offesa non dimostri il proprio interesse di procedere all’istanza punitiva dell’autore del fatto



2. Il medesimo articolo prevede la remissione tacita della querela in caso di ingiustificata omessa comparizione a dibattimento della persona offesa citata a testimoniare. Quale il suo giudizio al riguardo?

Il Giudice: CONDIVIDO ANCHE IL “POTENZIAMENTO” DEFLATTIVO CHE POTREBBE DERIVARE DALL’INTRODUZIONE, IN AGGIUNTA ALLA MANCATA COMPARIZIONE SIN DALLA PRIMA UDIENZA DEL QUERELANTE (GIA’ OGGETTO DI ARRESTI DELLA SUPREMA CORTE ANCHE IN CONSESSO PLENARIO), ANCHE DELLA SUA ASSENZA ALL’UDIENZA FISSATA PER LA SUA AUDIZIONE, PER VALUTARE LA SUSSISTENZA DELLA CD. REMISSIONE TACITA DELLA QUERELA; MA NON PER TUTTE LE IPOTESI DI REATO PERSEGUIBILE A QUERELA PERO’, POICHE’ ALCUNE FATTISPECIE (QUALI AD ESEMPIO IL DELITTO DI ATTI PERSECUTORI) DEBBONO MANTENERE UNA STRUTTURA SANZIONATORIA ADEGUATAMENTE RIGIDA;

Il PM: Condivido pienamente questa previsione rappresentando che peraltro è già una prassi consolidata presso il Tribunale di Palermo procedere in tal senso limitatamente ai reati contro il patrimonio (nella specie truffa ed appropriazione indebita) e con lo specifico avvertimento che l’eventuale assenza della persona offesa regolarmente citata senza addurre un legittimo impedimento viene valutata dal giudicante quale remissione tacita della querela.

Ritengo che l’assenza ingiustificata in dibattimento di una persona offesa - che a suo tempo ha deciso di azionare un procedimento penale per far valere i suoi diritti ed ottenere, se del caso, anche un ristoro dei danni - debba essere considerata quale comportamento concludente di una sopravvenuta volontà di non volere più perseguire penalmente l’autore di quella determinata fattispecie delittuosa commessa in suo danno.

Tutto questo avrebbe un’indubbia valenza deflattiva e andrebbe a beneficio della celerità e dell’economia dibattimentale in ossequio al principio della ragionevole durata del processo consacrata, come noto, dall’art. 111, comma 2, Cost.

Anche la Suprema Corte, di recente, ha ribadito il principio di diritto secondo cui: “Integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela”; secondo i giudici di legittimità, dunque, perché possa essere validamente considerata una tacita remissione della querela è indispensabile che il querelante sia stato preventivamente avvisato delle conseguenze giuridiche del comportamento omissivo e benché siffatto avvertimento non sia espressamente previsto in nessuna disposizione normativa rappresenta una prassi non solo del tutto “legittima” bensì persino “auspicabile” al fine di rafforzare le esigenze informative della persona offesa.

Analogamente, qualora il querelato - previamente avvertito dal giudicante in ordine al significato della sua mancata comparizione - non si presenti alla udienza di comparizione si dovrebbe presumere da tale atteggiamento che il predetto non abbia intenzione di ricusare la remissione della querela e che, quindi, intenda “accettare” tale remissione e le relative conseguenze (emissione di sentenza a non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato). Gli avvisi da parte del giudice sono finalizzati, nella sostanza, a far emergere l’eventuale venir meno del “perdurante interesse della persona offesa all’accertamento delle responsabilità penali” e permettono di escludere “sin dalle prime battute lo svolgimento di sterili attività processuali destinate a concludersi comunque con un esito di improcedibilità dell’azione penale o di estinzione del reato”.

L'Avvocato: La disposizione consente di risolvere la stagnazione sul ruolo giudiziario di una miriade di processi - spesso incardinati a seguito di reati c.d. bagattellari – rinviati a più riprese proprio in ragione dell’assenza della persona offesa-testimone. D’altro canto, l’aver agganciato la remissione tacita di querela alla mera mancata comparizione della persona offesa sembra porsi in contrasto con l’insegnamento della Corte di Cassazione che ha ripetutamente evidenziato come l’abdicazione dalla pregressa istanza punitiva deve necessariamente ricavarsi dalla combinazione tra la condotta omissiva e il previo formale avvertimento del significato che ad essa viene attribuito. Con il rischio di far discendere dalla nuova previsione automatismi pregiudizievoli per la persona offesa, di cui non venga positivamente accertata la libera e consapevole scelta di disinteressarsi del processo da lei stessa sollecitato.

Il Docente: La proposta di cui all’art. 8, 1° comma, lett. c) del disegno di legge, per quanto sia di fondamentale rilevanza per ottemperare alle esigenze di semplificazione e speditezza del processo penale, appare però molto lontana dal suscitare un sentimento di stupore in chi scrive. La direttiva del delegante si caratterizza in modo certamente funzionale ad assicurare la volontà seria e concreta della persona offesa di portare avanti l’istanza punitiva perseguita in sede di querela, ma la portata della nuova disciplina non sembra possa assumere una connotazione rivoluzionaria. Invero, prevedere la remissione tacita della querela nell’ipotesi di ingiustificata mancata comparizione del querelante all’udienza dibattimentale in cui assume l’ufficio di testimone non rappresenta altro che un’estensione positiva e, dunque, vincolante di un principio di diritto già diffusamente applicato nella prassi processuale. In effetti, secondo quanto disposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31668 del 23 giugno 2016, qualificare come incompatibile con la volontà di persistere nella querela l’eventuale assenza all’udienza dibattimentale del querelante previamente ed espressamente avvertito dal giudice era ormai, da alcuni anni e in ottica giurisprudenziale, una consuetudine già consolidata nelle aule di giustizia. 

3. L’art. 9 riduce il criterio di ragguaglio tra le pene detentive e quelle pecuniarie dagli attuali 235 euro al giorno a 180 euro. Non le pare un tasso di conversione troppo alto, se si aspira davvero a “deflazionare, incassando”?

Il Giudice: IN RELAZIONE ALL’ART. 9, CONCORDO PIENAMENTE SUL FATTO CHE I CRITERI DI RAGGUAGLIO DELLE PENE DETENTIVE CON QUELLE PECUNIARIE DEBBANO ESSERE RAPPORTATI AL’EFFETTIVA SITUAZIONE CONGIUNTURALE CHE SI STA VIVENDO IN QUESTO PERIODO E PERTANTO RIDOTTI NEL LORO IMPORTO A NON PIU’ DI €150,00.

Il PMSi lo ritengo certamente un tasso di conversione troppo elevato, per non dire esoso, come tale inaccessibile alla stragrande maggioranza dei soggetti che si trovano ad affrontare un processo penale in veste di imputato. Ne è prova il fatto che nelle aule giudiziarie palermitane di rado si sceglie di definire la posizione con una conversione della pena detentiva eventualmente da infliggere, sola o congiunta a pena pecuniaria, in quanto siffatto meccanismo risulta assai oneroso e ciò in evidente contrasto con i principi di uguaglianza sostanziale e di finalità rieducativa della pena di cui agli articoli 3 co. 2 e 27 co. 3 della Costituzione. Secondo l’originaria previsione, il ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria avrebbe dovuto evitare a quei soggetti ritenuti responsabili di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi per potere impostare un reale percorso riabilitativo ma sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo scaturenti dall’ingresso in carcere mentre, di fatto, si è trasformato in un privilegio per i soli condannati abbienti. La stessa Consulta ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata al riguardo evidenziando come la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria sia diventata eccessivamente onerosa per molti condannati e segnalando, quindi, l'opportunità di revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale “nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione”, possa costituire una seria alternativa alla pena detentiva. Sarebbe dunque opportuno operare un rinvio non solo all’art. 133 ter (in materia di rateizzazione della pena pecuniaria) ma anche all'art. 133 bis per consentire al giudice di adeguare, nel caso concreto, l’ammontare della pena pecuniaria applicata in sostituzione di quella detentiva alle condizioni economiche effettive del reo, aumentandola o riducendola sino ad un terzo, nel rispetto dei criteri di uguaglianza sostanziale e ragionevolezza, nonché di finalismo rieducativo della pena irrogata.

L'Avvocato: La riduzione di € 55/die rischia di rendere poco efficace il principio ispiratore sotteso alla modifica, lasciando l’importo a soglie ancora significative (€ 180).

Il Docente: In realtà, sembrerebbe solo secondo un’analisi ictu oculi della proposta normativa che l’art. 9 del disegno di legge possa remare contro il principio “deflazionare, incassando”. A parere degli scriventi, la correzione nel ragguaglio fra pene pecuniarie e detentive della sostituzione con un importo «non superiore a 180 euro» dell’attuale criterio di 250 euro per ogni giorno di pena detentiva non risulta proprio una contraddizione delle istanze di contrasto all’ingente mole di lavoro che quotidianamente intasa la macchina della giustizia. Effettivamente, una simile previsione promuoverebbe ancor di più il ricorso alle sanzioni sostitutive che, come noto, non perseguono alcuna finalità di risocializzazione del reo, avendo invece il precipuo scopo di frenare – attraverso la tipica ‘vis’ retributiva – la desocializzazione che spesso si presenta a seguito dell’esecuzione di una pena limitativa della libertà personale di breve durata. Del resto, del medesimo avviso si è recentemente dimostrata anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 15 dell’11 febbraio 2020, in cui il legislatore è stato sensibilizzato alla restituzione di una pena pecuniaria sempre più effettiva, non solo nel superamento degli obsoleti strumenti di esecuzione forzata, ma anche intervenendo con misure di conversione di pene detentive. Inoltre, un ritocco di tal sorta potrebbe persino agevolare il ricorso ai riti alternativi come l’applicazione della pena su richiesta delle parti. D’altronde, è ormai di pubblica diffusione – oltre che suffragato da numerose risultanze statistiche – il sospetto che il congestionamento senza sosta del carico giudiziario italiano sia dovuto anche allo scarso successo che i riti alternativi consensuali ogni giorno riscuotono nella pratica. Tuttavia, il maggior dubbio suscitato dalla direttiva dell’art. 9 scaturisce dalle ragioni che possano aver spinto l’esecutivo a precisare solamente una soglia massima dell’importo di conversione, prefigurando quindi il concreto rischio di un’eccessiva discrezionalità nel delegato in punto di precisazione della soglia minima. 

4. La successiva disposizione prevede nuove cause estintive delle contravvenzioni. Condivide la riforma e se sì non le pare però troppo timida: dalla lettura della lett. a) dell’art. 10 pare che la riforma non interessi le contravvenzioni punite con sola penadetentiva, si escludono le contravvenzioni connesse a delitti (lett. b), e per quest’ultimi non si è minimamente pensato a cause estintive. 

Il Giudice: CONDIVIDO PIENAMENTE QUANTO INDICATO NEL PUNTO A), ASSICURANDOSI PERO’ L’EFFETTIVO PAGAMENTO, ANCHE TARDIVO, DELLA SOMMA DI DANARO, NONCHE’ IL CONTROLLO DELLA ESPLETATA PRESTAZIONE DI LAVORO DI PUBBLICA UTILITA’. ANCHE LA LETTERA B) E’ CONDIVISIBILE, MA SEMPRE PREVIA PREVISIONE DI ADEGUATE SANZIONI “SOSTITUTIVE” E PREVIO CONTROLLO DELL’EFFETTIVA LORO INTEGRALE PRESTAZIONE. IN RELAZIONE ALLA LETTERA C), CONDIVIDO IL MANTENIMENTO DELL’OBBLIGO DI CUI ALL’ART. 347 C.P.P.. SAREBBE INFINE CERTAMENTE OPPORTUNA, COME GIUSTAMENTE INDICATO AL PUNTO D), LA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO PENALE SINO ALLA CONOSCENZA DEL P.M. DELL’AVVENUTA EFFETTIVA PRESTAZIONE DELLE CONDOTTE RIPARATORIE; NOVITA’ ANCHE QUESTA DI ENORME VALORE DEFLATTIVO!

Il PM: Condivido questo aspetto della riforma che mira ad estinguere, già nella fase delle indagini preliminari, alcune fattispecie contravvenzionali secondo il meccanismo delineato nell’art. 10 lettera a) facendo rilevare che sarebbero interessati da siffatta modifica numerosi reati atteso che la maggior parte sono puniti con ammenda o con pena alternativa residuando poche ipotesi sanzionate con la sola pena detentiva. L'individuazione di un gruppo di reati contravvenzionali - così come indicato nella successiva lettera b) dell’art. 10 - in relazione ai quali, fermo restando per la polizia giudiziaria l'obbligo di riferire al pubblico ministero la notizia di reato, il procedimento penale rimarràsospeso fino alla scadenza del termine che sarà concesso al contravventore per l'adempimento delle prescrizioni impostegli al fine di elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e per il pagamento di una somma di denaro (con possibilità, in alternativa, della prestazione di lavoro di pubblica utilità), ricalca un modello di estinzione del reato già sperimentato per le contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro e in materia ambientale. Tale intervento consentirebbe, inoltre, di evitare al reo e al sistema giudiziario la celebrazione di un procedimento penale per reati meno gravi ogniqualvolta l'adempimento delle prescrizioni e il pagamento di una sanzione pecuniaria o la prestazione di lavoro di pubblica utilità garantiscono in tempi rapidi il ripristino dell'ordine giuridico violato dall'illecito e l'eliminazione di ogni conseguenza dannosa, effettiva o potenziale, derivante dallo stesso.

L'Avvocato: Ancora una volta la montagna ha partorito il topolino; ciò sia in ordine alla selezione delle contravvenzioni - risultando francamente poco chiare le ragioni che hanno determinato l’esclusione delle contravvenzioni connesse a delitti – che in merito alla mancata previsione di un regime riparatorio/risarcitorio suscettibile di incidere anche con riferimento alla commissione di determinati delitti. L’aver previsto una procedura ad hoc – la sospensione del procedimento sino all’avvenuta comunicazione all’Ufficio del Pubblico Ministero dell’effettiva esecuzione delle attività poste a carico dell’indagato – si presta ad operare in chiave estintiva anche in ipotesi diverse da quelle meramente contravvenzionali, rappresentando uno strumento di tipo deflattivo utilizzabile a più ampio raggio.

Il Docente: La timidezza della riforma non è da ritenere, a questo punto, un grande segreto. Un progetto così esteso e articolato non sembra adeguatamente supportato da un programma sistematico sufficientemente edificato sul binomio inscindibile fra le criticità tecniche del processo e le lacune economiche e organizzative. Lo scopo dell’art. 10 proposto consiste evidentemente nell’introdurre una nuova causa di estinzione del reato contravvenzionale e non è un caso che l’esecutivo si riferisca espressamente alla fase delle indagini preliminari. Secondo gli scriventi, infatti, la modifica non può considerarsi sorprendentemente innovativa, ma non rappresenta altro che un disperato tentativo di inserire nell’ordinamento nazionale una parvenza di archiviazione condizionata. Spesso, si attribuisce tale connotazione a quegli espedienti giuridici che consentono il mancato esercizio dell’azione penale ovvero l’estinzione dell’imputazione dopo che sia stata formulata, nelle circostanze in cui la persona sottoposta alle indagini realizzi tempestivamente dei prescritti comportamenti positivi nei confronti della generalità dei consociati, al punto da renderla meritevole di beneficiare dell’esito liberatorio. Non è un caso che proprio nell’ordinamento processuale tedesco, anch’esso caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, l’istituto dell’archiviazione meritata abbia avuto un esito più che positivo nello smaltimento del carico presente nelle aule di giustizia. Chiaramente, emulare il modello della Germania è un’opera a prima vista ambiziosa, ma certo non lo è fino in fondo se il bacino applicativo delle fattispecie a cui rivolgersi è così ristretto. Nel nostro ordinamento, per le ipotesi contravvenzionali già esistono i rimedi disciplinati dagli artt. 162, 162-bis e 162-ter c.p. Pertanto, ci si sarebbe aspettati una manovra sicuramente più audace, che potesse investire – con tutte le cautele del caso – anche talune fattispecie delittuose, senza aver timore di introdurre un’interpretazione dell’art. 112 Cost. che potesse far fronte, una volta per tutte, alle richieste di aiuto invocate dal nostro sistema processuale.

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