E' communis opinio che tra le cause di inefficienza del nostro processo penale debba annoverarsi lo scarso impiego dei riti alternativi al dibattimento.
Quali le cause del mancato ricorso a queste modalità di definizione del giudizio ?
Analogamente sul fronte delle riforme processuali si assiste almeno dal 2017 in poi, con gli interventi c.d. Orlando e Bonafede, che interessano tutti i reati, a modifiche che rendono difficile se non impossibile il maturare della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.
Ciò a voler tacere della circostanza che l'opinabile lettura dell'inammissibilità del ricorso in cassazione fa sì che da decenni nessuno possa ragionevolmente fare affidamento della declaratoria di estinzione del reato in sede di legittimità.
A fronte di uno scenario si fatto, l'invocata tattica difensiva di accedere al rito ordinario per guadagnare la prescrizione non può ritenersi la principale causa di insuccesso dei riti alternativi.
Allora le spiegazioni vanno cercate altrove.
Anzitutto, si potrebbe profilare il tema della completezza e della pregnanza delle indagini, dal punto di vista dell'accusato: le difese potrebbe ritenere che le indagini non siano esaustive, né rispetto al novero dei soggetti ascoltati dalla polizia giudiziaria, né rispetto ai temi indagati, o che comunque l'esito della prova assunta in contraddittorio possa essere diverso da quello rassegnato al PM. In altri termini, se la difesa ritiene che il dibattimento serva a rimediare all'esito delle indagini per ottenere un'assoluzione, è evidente che non chiederà di definire il giudizio con i riti alternativi.
Se tale lettura è corretta, si dovrebbe rovesciare l'ottica della comune spiegazione dell'insuccesso dei riti alternativi: il punto non è che si schiva il rito alternativo per ottenere la prescrizione, ma si va a dibattimento per "dimostrare" l'innocenza.
In tale ottica il dato che appare significativo è quello delle assoluzioni all'esito del giudizio ordinario (sul tema delle percentuali delle assoluzioni si rimanda a nostro post).
Secondo le tabelle riportate nella Relazione sull'amministrazione della giustizia per l'anno 2021, dispensata dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, le assoluzioni a seguito di giudizio ordinario rappresentano il 54,8% degli esiti decisori. Ora, sebbene nella tabella riportata a pag. 55 della relazione, il termine assoluzione sembri impiegato come equivalente di proscioglimento (posto che le assoluzioni, le condanne e gli esiti promiscui integrano quasi il totale degli esiti decisori), è pur vero che nel medesimo documento si indica che la percentuale delle prescrizioni davanti agli organi giurisdizionali di primo grado (esclusi i Giudici di pace) nell'ultimo quadriennio in analisi non ha mai neppure raggiunto il 7% delle definizioni (cfr. tabella di cui a pag. 53 della relazione).
Ora, per quanto probabilmente i dati andrebbero affinati (poichè si è costretti a paragonare assoluzioni in ordinario con prescrizioni davanti a tutti i giudici di primo grado, "compresi" i GUP), ai fini che qui interessano essi sembrano confermare che la scelta del rito ordinario è più correlata ad una prospettiva assolutoria che estintiva del giudizio.
Vi è poi un secondo e concorrente fenomeno da tener presente per comprendere l'insuccesso dei riti alternativi. Al riguardo non si può prescindere dalla tendenza, assunta dal legislatore in modo via via più marcato, di impedire o limitare tali forme di definizione del giudizio. Sembra quasi che il legislatore sia sempre più animato dall'esigenza di mostrare che i riti alternativi non siano un commodus discessus.
Muoviamo dal patteggiamento. Negli anni, tale modalità di definizione del giudizio è stata sempre più circondata da adempimenti "restitutori" (come per i reati tributari o per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) o da conseguenze negative penali ed extra penali, dovute all'equiparazione alla condanna (si pensi all'equiparazione tra condanna e patteggiamento in tema di confisca, ex art. 240 bis c.p., o all'art. 80 del c.d. codice degli appalti che equipara, ai fini dell'esclusione dagli appalti, la condanna, il decreto penale e il patteggiamento, almeno per determinati reati). In altri casi l'esigenza di escludere una "resa" dello Stato ha fatto sì che certi reati fossero esclusi non soltanto dal c.d. patteggiamento allargato, ma anche, senza troppe sottigliezze dogmatiche, dal concordato in appello.
Le esigenze sottese a tale approccio possono essere, integralmente o parzialmente, condivise, ma bisogna essere consapevoli degli effetti disincentivanti sulla scelta del rito speciale.
Per ciò che concerne il giudizio abbreviato, di per sè escluso con riguardo ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo, si possono osservare due principali criticità:
1) in un sistema caratterizzato da ampia forbice edittale della pena, la sanzione che il giudice potrebbe irrogare è imprevedibile. Significativo, in tal senso, risulta uno studio di qualche anno fa della DGSTAT. La Direzione ministeriale ha infatti accertato che, in tema di stalking, i condannati all'esito del giudizio abbreviato avevano riportato pene mediamente più elevate rispetto ai condannati all'esito del rito ordinario (ce ne eravamo già occupati su questo blog, post al link). Il tutto in un sistema giurisprudenziale che non favorisce di certo il controllo sulla motivazione della pena, se non allorquando la stessa è inflitta in prossimità del massimo edittale;
2) il giudizio ex art. 438 c.p.p. più che a prova contratta sembra a piattaforma incerta, mercé l'art. 441 c.p.p..
Ciò posto, a parere di chi scrive, un maggior ricorso ai riti alternativi dipende sostanzialmente da due fattori, uno di tipo selettivo nell'esercizio dell'azione penale e uno di tipo legislativo.
Per ciò che attiene al primo profilo, credo che obiettivamente molto dipenderà da una sorta di autoregolamentazione selettiva delle Procure, nell'esercizio dell'azione penale. Dubito invece che i vari filtri predibattimentali cui mira la c.d. riforma Cartabia abbiano concrete chance di successo. L'esperienza dell'udienza preliminare sarebbe dovuta servire da monito nella introduzione di ulteriori filtri.
Qualcosa si potrebbe tentare sul piano degli enunciati normativi, rendendo più appetibili i riti speciali, e qui la riforma è sembrata, per come già scritto su questo blog, piuttosto timida.
Ad esempio per incentivare il ricorso ai riti alternativi si potrebbe ampliare l'area della sospensione della pena: 3 anni, anziché 2, limite quest'ultimo che dovrebbe rimanere per il rito ordinario. Al riguardo deve considerarsi che il fallimento del c.d. patteggiamento allargato è verosimilmente da ricondursi al mancato ampliamento della possibilità di sospendere la pena. Peraltro la novella si renderebbe particolarmente interessante rispetto ai c.d. reati ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione.
Per ciò che concerne specificamente il patteggiamento si dovrebbe ripensare, almeno per quanto attiene alle conseguenze sul piano professionale o lavorativo, l'accostamento alla condanna o quanto meno modulare le conseguenze in modo diverso tra i due esiti giudiziari.
Rispetto al giudizio abbreviato, per mitigare gli effetti della incontrollabilità della sanzione, piuttosto che prevedere uno sconto di pena su un quid imponderabile si potrebbe stabilire che in caso di accesso al rito ex art. 438 c.p.p. il massimo edittale si riduca alla metà o similia. In sostanza l'idea sarebbe quella di ridurre la forbice edittale, rendendo meno imprevedibile la sanzione.
Deve poi notevolmente restringersi il rischio di mutamento della piattaforma probatoria: delineare un rito in cui l'imputato rinuncia al contraddittorio per la formazione della prova sulla scorta di un certo incartamento processuale e poi consentire di mutare quella piattaforma cognitiva, rimanendo il prevenuto vincolato alla sua scelta di rito, è una delle cause che scoraggiano l'adozione del rito.
Si è ovviamente consci che le superiori indicazioni sono meri spunti tematici, tuttavia ciò che appare fondamentale è che riporre speranze di incremento delle modalità alternative di risoluzione dei giudizi agendo sulla leva prescrittiva rischia di essere un esercizio inutile.