Il legislatore in tempi recenti, anche sulla scorta di una elevata attenzione mediatica, ha approntato delle modifiche normative volte a contenere la cd. violenza domestica e di genere; tuttavia tali interventi, pur apprezzabili per il lor carattere talvolta innovativo, non sempre sono stati preceduti da una rigorosa analisi del relativo fenomeno sociale e delle problematiche ad esso sottese.
Anche il cd. Codice Rosso di cui
alla L. 69/2019, con un atteggiamento di parziale sfiducia sul pregresso
operato di pubblici ministeri e forze dell’ordine, si è prevalentemente
soffermato sulla tempistica per lo svolgimento delle indagini, dettando dei
tempi rigidi per l’istruttoria. Inoltre il legislatore ha voluto imprimere un
segnale punitivo attraverso l’innalzamento, oltre che dei minimi, anche dei
massimi edittali di taluni reati, determinando così un nuovo ambito di
competenze per il Tribunale in composizione collegiale, ad oggi “intasato” dai
procedimenti di cui all’art. 572 co II c.p., con conseguente aumento della
durata dei processi.
Tuttavia non si è ancora proceduto
ad una rivisitazione organica del tessuto normativo creatosi a seguito
dell’introduzione delle modifiche legislative, uniformando i mezzi di tutela
ordinamentali; inoltre non sono state avviate riforme, non “a costo zero”, che
prevengano il fenomeno nella sua più ampia dimensione sociale.
Sul primo versante si rileva che
alcune situazioni di gravi pregiudizio per le persone offese sono ancora
rimaste sguarnite di tutela: sul punto ad esempio, non essendo prevista una
deroga ai limiti edittali di cui all’art. 280 c.p.p. per l’applicazione della
misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, la misura di
cui all’art. 282 ter c.p.p. non può essere richiesta nel caso di reati considerati
“meno gravi”, commessi ai danni di persone non conviventi (ad es. l’ex
compagna), ma che spesso degenerano in ulteriori condotte pregiudizievoli per
la vittima: si pensi all’ipotesi di minacce commesse con l’uso di armi o ancora
in presenza di lesioni di non lieve entità, che tuttavia non superano la soglia
dei 40 giorni di prognosi ovvero non risultano comunque aggravate ai sensi
dell’art. 576 c.p.
Al riguardo si potrebbe agevolmente
superare tale criticità inserendo anche nell’art. 282 ter c.p.p. la stessa
previsione dell’ultimo comma dell’art. 282 bis c.p.p., in materia di
allontanamento dalla casa familiare, che permette l’applicazione di tale
misura, per determinati reati, anche al
di fuori dei limiti di pena previsti dall'articolo 280 c.p.p.
Con riferimento poi alla trattazione
dei delitti con violenza domestica o di genere, mentre è stata scandagliata la
fase delle indagini, al contrario non è stato oggetto di analisi cosa accade
dopo, ovvero nel corso del dibattimento, perno centrale di tutto il
procedimento penale.
Al riguardo ad esempio di sovente si
assiste nelle aule di giustizia al fenomeno della cd. ritrattazione delle
persone offese, che inficia la tenuta dibattimentale delle ipotesi di reato
ipotizzate.
Escludendo il fenomeno fisiologico
di una rivisitazione dei fatti, magari originariamente esposti in un momento di
concitazione a seguito dell’intervento delle FF.OO., ciò che invece deve
destare attenzione è una ritrattazione “patologica”, che di solito si verifica
già a partire dall’applicazione nei confronti dell’indagato di una misura
cautelare.
Il netto ridimensionamento delle
dichiarazioni rese dalle vittime molto spesso è infatti dettato da un percorso
di auto-colpevolizzazione della persona offesa, che conduce la predetta a
riavvicinarsi al maltrattante, sminuendo la portata delle sue condotte.
Alla luce di tale evidenza,
pertanto, i motivi della ritrattazione devono essere attentamente vagliati in
tutte le fasi del procedimento, al fine di verificare se esse siano o meno
“patologici”; poiché ad esempio dovuti ad esigenze economiche, ovvero
determinati da meccanismi di “dipendenza” psicologica della persona offesa al
maltrattante, frutto del suo stesso stato di sottomissione.
Con riferimento a tale problematica potrebbe
essere efficace pertanto una modifica all’art. 500 co. IV c.p.p.: al riguardo
infatti una recente giurisprudenza, più attenta a tali dinamiche, ha tentato di
interpretare estensivamente tale disposto normativo, affermando che, in caso
riavvicinamento della vittima al maltrattante, è legittima l’acquisizione in
dibattimento delle dichiarazioni dalla stessa in precedenza rese.
Con riferimento poi al diverso
versante dell’analisi del fenomeno della violenza domestica, si ritiene che il
cd. “Codice rosso” abbia gettato le basi per una più ampia trattazione delle
problematiche sottese, senza tuttavia in alcuni casi essere supportato da
successive norme di attuazione, in grado di permettere una applicazione
efficace di tali previsioni.
Si pensi ad esempio alla sospensione
condizionale della penale, subordinata alla partecipazione a programma di
recupero per gli autori dei reati di maltrattamenti, atti persecutori etc.: al
riguardo si rileva infatti che gli enti che organizzato tali percorsi non abbisognano di specifiche certificazioni per
attestare il carattere “scientifico” dei loro programmi; a ciò si aggiunga che
tali percorsi a pagamento non risultano essere accessibili ad imputati meno
abbienti, creandosi così delle diseguaglianze nelle possibilità di recupero tra
condannati per i medesimi reati.
Infine si ritiene che, oltre ad
eventuali modifiche al codice penale, per combattere il fenomeno della violenza
domestica e di genere è assolutamente necessario intervenire in maniera
collaterale con riforme che riguardano la possibilità di accesso ai servizi che
indirettamente sono fondamentali per arginare il fenomeno.
Al riguardo, come è noto, una
cospicua percentuale delle violenze domestiche (maltrattamenti o estorsioni
intra-familiari) sono commesse da soggetti affetti da dipendenze, che sfuggono
al circuito del sistema sanitario. A ciò si aggiunga che numerosi imputati
soffrono di patologie psichiatriche che determinano o comunque incidono sulle
loro condotte: tuttavia per tali soggetti risulta difficile reperire le strutture
(REMS o CTA) per dare esecuzione alle misure di sicurezza, disposte nei loro
confronti.
Pertanto la “riforma che vorrei” non si deve arrestare al codice penale o a
quello di rito, ma deve andare ben al di là delle relative previsioni, per
arginare un fenomeno che, come attestano i dati percentuali, non accenna a
diminuire ma si presenta in costante aumento.