In conformità allo spirito di questo blog, abbiamo cercato di comprendere le ragioni altrui in ordine alla separazione delle carriere. A tal fine abbiamo posto alcuni quesiti al Presidente della sezione distrettuale dell'ANM di Palermo.
Presidente Tango, muoviamo da una domanda preliminare: ANM è contraria a questa proposta governativa di riforma costituzionale (n.1917 A.C.) oppure alla separazione delle carriere ex se?
R: Come magistratura associata non possiamo che mostrare tutta la nostra ferma contrarietà e non per entrare in logiche di gratuita contrapposizione, ma perché la riforma assume una tale gravità che non possiamo non pronunciarci a difesa dei valori costituzionali – primo fra tutti di uguaglianza del cittadino di fronte alla legge- che verrebbero certamente intaccati.
In altre parole, ogni volta che sono in
pericolo la nostra Carta Costituzionale, i valori ivi consacrati e le libertà
di tutti i cittadini, l’ANM non può non intervenire, esercitando il diritto,
riconosciuto dalla Costituzione, di manifestare liberamente il proprio
pensiero, nell’ovvio rispetto della potestà legislativa del Parlamento.
Presidente,
ma per voi l’ordinamento giudiziario può rimanere indifferente al tipo
processuale adottato, soprattutto dopo la riforma dell’art. 111 Cost. ?
R: La domanda semmai è un’altra: la separazione delle carriere è necessaria per attuare il modello accusatorio o comunque imposta dall’art. 111 Cost.?
Fermo restando che un modello accusatorio
“puro” è assai difficile da riscontrare anche nelle esperienze concrete
comparatistiche (e quello statunitense, con il quale si guarda con tanta
simpatia, presenta degli elementi ad oggi incompatibili con il nostro sistema,
quale la esistenza di una giuria, il trattarsi di una “giustizia negoziata” e
non di processi, ecc.), l’art. 111 Cost., laddove parla di un giudice “terzo ed
imparziale”, utilizza un’endiadi che indica la neutralità del giudice rispetto
alla “res iudicanda”, scevro da interessi propri e sgombro da convinzioni
precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi.
La verità è che tale rischio va
ridimensionato attraverso il rafforzamento delle garanzie processuali, mentre
non c’entra nulla lo status ordinamentale. Infatti, l’effettiva terzietà del
giudice dipende da dinamiche interne al procedimento: dalla disciplina della
competenza e dai presidi sanzionatori delle incompatibilità; dall’effettività
del contraddittorio; dalla qualità della motivazione; dalla fisionomia dei
controlli in sede di impugnazione.
Detto altrimenti: ci si illude che
intervenendo sull’ordinamento si rafforzi il giudice, il quale, finirà, al
contrario, per essere indebolito.
A
fronte dei paventati timori di soggezione del Pubblico Ministero al potere
esecutivo, non è un argine sufficiente la previsione costituzionale dell’art.
104 Cost., che rimarrà invariata, secondo cui “la magistratura costituisce
un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”?
R: Lo sarebbe nell’immediato, ma cosa accadrà con la creazione di un CSM della magistratura requirente?
In tal senso un’analisi lucidissima è stata
compiuta in tempi non sospetti da Vittorio Grevi, il quale metteva in guardia
dal «pericolo di un corpo separato di magistrati del pubblico ministero. Un
corpo di magistrati privi di cultura giurisdizionale e fortemente aggregati, in
sintonia con la mentalità dominante presso gli organi di polizia giudiziaria,
nell’ottica di un ruolo di “avvocati dell’accusa” pressoché aprioristicamente
indirizzati verso l’obiettivo accusatorio».
A quel punto è facile preconizzare che
l’accresciuto ruolo e peso della magistratura requirente costringerà il potere
politico (e non mi sto riferendo necessariamente all’attuale compagine
governativa) ad intervenire nuovamente, per ricondurre la corporazione dei PM
al circuito democratico, verosimilmente sottoponendola all’esecutivo.
Un
altro rischio che viene spesso invocato contro la separazione delle carriere è
quello della trasformazione cui andrebbe incontro il Pubblico Ministero,
perdendo la cultura giurisdizionale. Al riguardo Le chiedo un chiarimento:
siamo sicuri che attualmente non possa esserci un rischio opposto, cioè
un’attrazione del Giudice nella cultura dell’inquisitorietà del requirente?
R: I magistrati, per espressa volontà dei nostri saggi padri costituenti, appartengono allo stesso ordine giudiziario e condividono la medesima cultura della giurisdizione.
Si tratta di un modello che ci invidiano
anche all’estero e che è sicuramente garanzia di maggiore qualità della
giustizia e tutela per il cittadino.
Ritenere che pubblico ministero ed avvocato
ad oggi non abbiano lo stesso peso davanti al giudice è una considerazione
assolutamente errata.
Si tratta di un’argomentazione, che – se
letta in buona fede – non tiene conto del diverso ruolo che l’avvocato ed il
pubblico ministero esercitano: l’avvocato è chiamato a difendere gli interessi
di una parte e cercare la soluzione più conveniente per il suo cliente (a
prescindere dalla colpevolezza o meno), mentre il PM deve in ogni caso
ricercare la verità dei fatti. Se quest’ultimo nel corso delle indagini o
addirittura a processo avviato, si rende conto che non ci sono elementi per
sostenere validamente l’accusa, dovrà chiedere rispettivamente l’archiviazione
o l’assoluzione.
Se addirittura letta in mala fede, si
sarebbe indotti a pensare che l’autore della riforma sospetti che un giudice
possa farsi condizionare nel suo libero convincimento dal rapporto di
colleganza che ha con il PM: il che oltre ad essere estremamente offensivo nei
confronti di chi ha giurato sulla Costituzione, è all’evidenza smentito dai
numerosi procedimenti conclusisi con una assoluzione (nel 2019, per esempio, si
è registrato il 50% delle pronunce di proscioglimento del tribunale monocratico
e il 35% di quelle collegiali; molto più di quanto non abbiano fatto i giudici
francesi, che pur non sono colleghi in senso stretto del PM).
Peraltro, queste considerazioni dovrebbero
a maggior ragione valere per il giudice dell’impugnazione, che rimarrà collega
del giudice di primo grado anche dopo la separazione delle carriere: la loro colleganza
ha mai inficiato l’imparzialità e la terzietà del giudice del controllo? Anche
in questo caso un’analisi accurata dei dati statistici ci restituisce una
realtà ove i giudici di appello non si fanno scrupoli a riformare le sentenze
dei colleghi di primo grado.
La parità tra le parti da garantire –
ribadisco- deve essere semmai quella endoprocessuale attraverso le regole del
processo.
In
ogni caso, anche se il Pubblico Ministero dovesse trasformarsi in un “avvocato
dell’accusa”, la sua dimensione pubblica non integrerebbe una garanzia contro
la violazione dell’imparzialità?
R: Questo ragionamento è agevolmente ribaltabile. Anche adesso è innegabile la dimensione pubblica del Pubblico Ministero, eppure i fautori della riforma sostengono che ciò non sia sufficiente come garanzia contro la (presunta) violazione dell’imparzialità.
In realtà, il rischio è quello di creare un
corpo autoreferenziale di “superpoliziotti”, scevro da qualsiasi potere ed
imbevuto di cultura poliziesca: questo potrebbe essere un problema per la
tenuta democratica del Paese. Basti pensare al caso “Costa”, avvenuto l’anno
scorso in Portogallo, proprio uno dei pochissimi Paesi in Europa ad aver
adottato un modello con due CSM (analogo a quello proposto con la riforma in
questione). In particolare, il premier portoghese si è dimesso in seguito ad
un’indagine, salvo poi scoprire che la Procura portoghese aveva commesso un
errore di trascrizione nelle intercettazioni. È davvero questo il modello che
si vuole seguire, a fronte di raccomandazioni del Consiglio di Europa a favore
dell’unicità della carriera?
In sintesi, laddove in concreto è stato
adottato il modello delineato dalla riforma (con l’istituzione di due CSM) non
si è registrato un risultato significativo in termini di miglioramento della
qualità della giustizia o dei rapporti magistratura-politica.
Il paradosso è che mentre la comunità
internazionale viaggia verso il nostro modello ordinamentale, da noi invece
viene messo in discussione e rischiamo di disperderlo.