1. Premessa
Il tema del referendum, che
attiene alla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, non è
una questione tecnica da addetti ai lavori. È una questione di libertà, di
giustizia e di equilibrio tra i poteri dello Stato, che riguarda tutti noi.
2. Due funzioni diverse, due carriere diverse
Nel processo penale ci sono tre
protagonisti:
• il Pubblico Ministero (PM), che accusa;
• il Giudice, che decide;
• il Difensore, che difende.
Oggi, in Italia, PM e giudici
fanno parte dello stesso corpo, lo stesso ordine della magistratura, con lo
stesso percorso di carriera, lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura
(CSM) che li governa.
In pratica, chi oggi accusa,
domani può fare il giudice, e viceversa. È pur vero che, con una riforma del
2022, il cambio di funzioni può avvenire solo una volta ed entro i primi dieci
anni di attività (sei anni più quattro: arg. ex art. 13 comma 3 d.
legisl. n. 160/2006, come modificato dall’art. 12 l. n. 71/2002, in relazione
all’art. 194 dell’ord. giud.), diversamente dal passato in cui i magistrati
potevano cambiare fino ad un massimo di quattro volte: sennonché, la modifica
del 2022 è una legge ordinaria, il che significa, a testo costituzionale
invariato, che una nuova legge potrebbe ripristinare il vecchio limite di 4 volte,
o financo non prevedere limiti. La novella costituzionale, per contro,
renderebbe definitiva la separazione delle carriere, stabilendo che un
magistrato dovrà scegliere una volta per tutte tra la funzione requirente e
quella giudicante, senza poter cambiare: una modifica costituzionale, dunque,
senza possibilità di fluttuanti modifiche dovute alla legge e alle varie
contingenze del momento.
Orbene: PM e giudice sono
colleghi, avvocato e PM non sono colleghi, avvocato e giudice non sono
colleghi.
Questa commistione tra chi
accusa e chi giudica, che può sembrare un dettaglio burocratico, mina alla radice
un principio fondamentale: la terzietà del giudice.
In NESSUN altro ambito
della vita accettiamo che chi decide sia troppo vicino a una delle parti in
causa. Perché dovremmo farlo nella giustizia penale? Perché dovremmo farlo
quando è in gioco il bene più grande, cioè la libertà personale?
3. Il principio europeo della separazione
In quasi tutta Europa – Francia,
Spagna, Germania – le carriere di PM e giudici sono separate.
In Portogallo, la separazione
delle carriere inquirente e giudicante è stata frutto della riforma del sistema
giudiziario dopo la rivoluzione del 1974: la scelta fu accompagnata da una
totale e ferma indipendenza dall’Esecutivo, garantita dal Consiglio superiore
del pubblico ministero, composto da magistrati eletti e membri “laici”, con
maggioranza di magistrati, e presieduto dal Procuratore generale della
Repubblica.
È certo vero che non ha senso
“celebrare” in astratto altri ordinamenti – come quello francese, tedesco,
spagnolo o portoghese richiamati – poiché non possiamo conoscere fino in fondo
il clima culturale e il dibattito interno che circondano i loro sistemi di
giustizia. Come pure è indubbio che ogni ordinamento va valutato nel proprio
contesto storico, sociale e istituzionale, di talché i modelli stranieri non
possono essere semplicemente trapiantati o idealizzati. Tuttavia, il
riferimento a questi Paesi, lungi dal configurarsi come un’esaltazione
dell’“esotico” o del “diverso da noi”, induce una riflessione: si può
evidenziare, con spirito comparatistico, che in ordinamenti europei di solida
tradizione democratica e giuridica – e in cui il livello di tutela dei diritti
fondamentali non è certo inferiore al nostro – la separazione delle carriere è
già una realtà.
Questo dimostra che tale assetto
non rappresenta affatto un “male assoluto” o una minaccia all’indipendenza
della magistratura, come talvolta viene sostenuto nel dibattito italiano, ma
può convivere, per converso, con un sistema giudiziario equilibrato ed
efficiente
Separare le carriere non
significa mettere in contrasto i due ruoli, ma riconoscere la loro diversità.
Il giudice deve essere terzo,
imparziale, indipendente; il PM deve essere libero di indagare, ma non deve
appartenere alla stessa corporazione di chi lo giudica.
La separazione, dunque, rafforza
l’indipendenza di entrambi:
• il PM non sarà mai più sospettato di
“favori” o “protezioni” da parte dei giudici;
• il giudice non sarà mai più visto come
“collega dell’accusa”, talvolta tacciato – ad esempio con riguardo alla fase
delle indagini preliminari e in materia cautelare, là dove non ha la
disponibilità dell’intero fascicolo ma dei soli atti somministrati dall’organo
requirente – di appiattirsi acriticamente sulle richieste del PM.
4. Un equilibrio costituzionale da ricostruire
La Costituzione tutela la
magistratura come potere autonomo, ma non impone la confusione tra giudici e
PM, come qualcuno, sbagliando, ha sostenuto.
L’articolo 111 Cost. parla
chiaro: il processo deve svolgersi nel contraddittorio delle parti, davanti a
un giudice terzo e imparziale.
Terzietà significa essere
diverso tanto dal PM quanto dal Difensore.
Oggi questa terzietà, in senso
sostanziale, è messa in discussione da un sistema in cui PM e giudici
appartengono alla stessa carriera e spesso condividono gli stessi percorsi
formativi e le stesse valutazioni e progressioni di carriera.
Sono compagni di banco, per
usare una immagine chiara e sintetica.
Separarli non significa
“indebolire la magistratura”, ma rafforzare la fiducia dei cittadini nella
giustizia.
5. Giustizia più trasparente, più credibile, più
umana
Una giustizia credibile è una
giustizia trasparente, che non solo è imparziale, ma appare tale agli occhi del
popolo.
Quando un cittadino entra in
un’aula di tribunale, deve sentire CHIARAMENTE che il giudice non
appartiene né all’accusa né alla difesa, ma solo alla legge e alla
Costituzione.
Separare le carriere significa
anche questo: dare al giudice l’autonomia e l’isolamento necessario per
decidere secondo coscienza, non secondo appartenenze e correnti.
Al contempo, volendo
semplificare e usare una immagine impropria ma plastica, l’obiettivo
programmatico che si vorrebbe realizzare è quello di contrapporre un avvocato
della difesa e un avvocato dell’accusa (sia pur dotato di indipendenza e garanzie
ordinamentali forti), che si contendono lealmente l’esito davanti ad un giudice
diverso da entrambi. Cosa c'è da capire?
6. Nessuna punizione per i magistrati, ma una
riforma per i cittadini
Non è una battaglia contro i
magistrati, ma una riforma per i cittadini.
È un passo di civiltà, un modo
per rendere più chiaro e più giusto il sistema giudiziario.
Così come l’avvocato difende, il
PM accusa e il giudice giudica: funzioni diverse, ognuno nel proprio ruolo,
ognuno con la propria dignità, ognuno SEPARATO dall’altro.
7. Critiche alle ragioni del No
Si sostiene, da parte dei
promotori del no, che, in prospettiva, la separazione delle carriere potrebbe
portare i PM sotto il controllo dell’Esecutivo.
L’argomento è basato su una
paura ipotetica, non sui contenuti effettivi della riforma.
Chi afferma che la separazione
delle carriere porterebbe “inevitabilmente” alla subordinazione del PM all’Esecutivo,
in sostanza, fa un salto logico: la riforma in discussione non lo prevede, anzi
ribadisce l’indipendenza del PM e istituisce un CSM autonomo per la
magistratura requirente.
Il novellato art. 104 Cost., in
continuità con il testo attuale, rimarca che la magistratura costituisce un
ordine autonomo e INDIPENDENTE da ogni altro potere, soggiungendo – e così
esaltando non solo l’indipendenza esterna ma anche l’INDIPENDENZA INTERNA, non
meno importante – che è composta dai magistrati della carriera giudicante e
della carriera requirente.
Temere un rischio futuro, non
codificato nella norma, equivale a respingere una legge non per ciò che fa, ma
per ciò che potrebbe un giorno essere modificata e portata “a fare”: una forma
di argomento dal pendio scivoloso, che in logica è un errore, una vera e
propria trappola argomentativa.
Ma c’è di più.
L’attuale sistema non è privo di
“indirizzi” e priorità.
Oggi, nell’ambito di una cornice
generale definita dal Legislatore (art. 132 bis comma 1 disp. att.
c.p.p.), sono comunque i dirigenti degli uffici ad adottare i provvedimenti
organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione dei processi per i
quali è prevista la trattazione prioritaria (art. 132 bis comma 2 disp.
att. c.p.p.): in altre parole, i singoli uffici delle Procure della Repubblica
specificano i criteri di priorità, tenendo conto della loro realtà criminale
specifica, e delle risorse disponibili.
Oggi, dunque, i Procuratori
capi, nominati dal CSM, stabiliscono concretamente le priorità investigative.
Queste scelte riflettono comunque sensibilità personali, indirizzi culturali o
mediatici, e risorse limitate.
In altre parole, l’agenda
dell’azione penale è già selettiva, anche se formalmente “obbligatoria”.
Quindi, dire che la riforma
metterebbe “in mano all’esecutivo” l’agenda giudiziaria ignora che oggi non è
neutrale né rigidamente automatica: è semplicemente decisa da altri, in modo
forse meno trasparente e meno democraticamente partecipato.
Se anche l’esecutivo, in futuro,
avesse un ruolo d’indirizzo, il problema sarebbe di controlli e garanzie, non
di principio
In un sistema democratico, le
priorità nella repressione dei reati (es. mafia, corruzione, droga, reati
ambientali, violenze domestiche, reati dei colletti bianchi) possono essere
legittimamente orientate dal Parlamento o dal Governo, purché ciò avvenga in
modo trasparente e con limiti normativi chiari.
Non è scandaloso che la
politica, espressione della volontà popolare, definisca obiettivi generali,
purché il potere giudiziario resti libero nel giudizio concreto.
Anzi, questo argomento può
essere rovesciato: perché un singolo Procuratore capo deve decidere le priorità
a livello locale, con disparità di trattamento tra territori, e non potrebbe
essere l’Esecutivo a farlo in termini generali?
Chi sostiene la necessità di
conservare l’attuale sistema, vuole forse preservare di fatto il monopolio e
quindi, nella sostanza, lo fa per un interesse proprio all’autogoverno dei
criteri di priorità?
In ogni caso, i PM non
passeranno sotto l’Esecutivo: quella di cui sopra è solo una speculazione che
risponde ad un’altra speculazione.
A riprova di ciò, basti
considerare che né l’art. 107 (al netto di una modifica che non sposta nulla,
ma semplicemente raccorda la previsione alla istituzione dei due Consigli
superiori della magistratura) né l’art. 112 della Costituzione sono toccati
dalla riforma: il pubblico ministero gode e continuerà a godere delle garanzie
stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario e
continuerà altresì ad avere l’obbligo di esercitare l’azione penale (a garanzia
di uguaglianza dei cittadini).
Senza considerare il già
richiamato art. 104 della Costituzione, la cui chiarezza è lapidaria,
insuscettibile di strumentalizzazioni interpretative.
Del resto, chi paventa il timore
che il PM passi sotto l’Esecutivo, dimentica di dire - volutamente? - che anche
quella sarebbe una riforma costituzionale, che richiederebbe i tempi e le
maggioranze qualificate previste dall’art. 138 Cost., e, nel caso, un analogo
referendum costituzionale: se fosse quello il pericolo, si dovrebbe semmai
votare no a quell’ipotetico e futuro referendum, non già ora, a fronte di una riforma
che non fa altro che attuare sul piano ordinamentale, a oltre 30 anni di distanza,
il sistema accusatorio voluto dai riformatori del codice di procedura penale e
imposto dalla Costituzione.
In sintesi: criticare una
riforma costituzionale per timore di un abuso futuro è debole sul piano logico
e poco corretto sul piano giuridico.
Meglio discutere nel merito: se
la separazione delle carriere migliori o peggiori la qualità della giustizia,
la percezione di imparzialità, l’efficienza del sistema.
Il “fantasma” del PM sotto l’Esecutivo
è, allo stato, una distorsione polemica più che una previsione fondata.
8. Una riforma al passo con i tempi contro un
retaggio del passato
Partiamo da un’affermazione
sicuramente condivisa da tutti: giudice e pubblico ministero, pur assumendo
entrambi la qualifica di «magistrato», esercitano due funzioni radicalmente
diverse.
Occorre allora evitare una sorta
di strabismo concettuale che permea la questione, iniziando col porsi la giusta
domanda iniziale.
Se le funzioni di giudice e di
pubblico ministero sono diverse, la vera domanda è non già perché separare le
carriere - che è una logica conseguenza della diversità di funzioni - quanto
piuttosto chiedersi perché le carriere siano (ancora) unite.
Nella Costituzione del 1948, la
magistratura fu delineata come un ordine indipendente e unitario (“i magistrati
si distinguono solo per funzioni”), istituendo un organo di autogoverno ‘domestico’
(CSM). Tale assetto poggiava su due ragioni. La prima di (condivisibile)
reazione al regime totalitario: nel ventennio fascista la magistratura era,
purtroppo, influenzabile o coercibile dal potere esecutivo; la seconda: la
disciplina del processo penale dell’epoca era improntata ad un modello
autoritario, di tipo inquisitorio, che tendeva a “confondere” o comunque a non
distinguere chiaramente le funzioni inquirenti e giudicanti.
Oggi le cose sono profondamente
diverse.
Lo Stato ha una struttura
democratica, repubblicana, imperniata su reciproci controlli tra i poteri; il
(nuovo) codice di procedura penale del 1988 ha una impostazione di fondo
completamente diversa, di stampo accusatorio, in cui la figura del pubblico
ministero è staccata da quella del giudice.
I tempi sono dunque maturi per
modificare la Costituzione con regole precise sui ruoli di chi accusa e chi
giudica, che devono essere separati anche in relazione alle carriere, non solo
alle funzioni.
Insomma, questa è una riforma
figlia del suo tempo, che attua e perfeziona il modello dell’attuale codice di
procedura penale, così superando un retaggio che non ha più ragion d’essere.
Un processo autenticamente
accusatorio esige una rigorosa separazione delle funzioni fra accusa e difesa. Ma
ciò non è sufficiente: la logica propria del modello accusatorio non si
esaurisce nella mera distinzione funzionale, ma richiede anche una separazione
strutturale e culturale delle carriere. Questo perché, se è vero che il giudice
deve rimanere terzo rispetto alle parti, tale terzietà non può essere
pienamente garantita finché magistrati requirenti e giudicanti continuino a
condividere lo stesso percorso formativo, la stessa progressione professionale
e la stessa cultura di appartenenza istituzionale.
Anche a voler sostenere che non
vi sia una perfetta corrispondenza biunivoca tra giusto processo accusatorio e
separazione delle carriere, quest’ultima sicuramente rafforza il primo.
Semmai, avrebbe senso un
dibattito su come realizzare l’obbiettivo in concreto, con la partecipazione di
tutti, cittadini e addetti ai lavori, con i magistrati che potrebbero
sicuramente offrire un ausilio utile, se solo taluni (non tutti, per la verità)
abbandonassero aprioristiche barricate ideologiche.
Dunque, votare SÌ alla
separazione delle carriere significa:
• garantire più imparzialità nei processi;
• rafforzare la fiducia dei cittadini nella
giustizia;
• tutelare la Costituzione e lo Stato di
diritto;
• portare l’Italia al livello degli altri
ordinamenti europei.
Una giustizia equa non è una
giustizia più dura o più morbida, ma una giustizia più giusta.
Per questo, da avvocato, ma
soprattutto da cittadino, dico che occorre votare SÌ al referendum per la
separazione delle carriere tra PM e giudici.
9. Per concludere
Ci lamentiamo ogni giorno della
giustizia: dei processi infiniti, delle decisioni discutibili, delle
ingiustizie che sembrano inevitabili. Ma se davvero vogliamo cambiare le cose,
dobbiamo avere il coraggio di intervenire alla radice.
Abbiamo provato per decenni con
un sistema in cui pubblici ministeri e giudici appartengono allo stesso corpo.
Ora è il momento di cambiare
davvero, di voltare pagina, di separare ruoli e responsabilità per rendere la
giustizia più chiara, più indipendente, più giusta.
Se poi questo cambiamento non
dovesse bastare, si potrà sempre correggere il cammino.
Ma restare fermi, no:
significherebbe accettare che tutto resti com’è. E questo, per un Paese che
crede nel diritto e nella libertà, non è più possibile.
(*) Guido Todaro: Avvocato
del Foro di Bologna, Cassazionista, Specialista in Diritto Penale, è
Dottore di Ricerca in Diritto e Processo Penale presso l’Università di
Bologna, nonché Professore a contratto di Procedura Penale presso la
Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali afferente alla
medesima Università.
È componente del Comitato di Gestione della
Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”,
nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale e
Caporedattore della Rivista La Giustizia Penale.
È Autore di oltre 60
pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La
difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e
con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento
carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.