18 agosto 2021

Da oggi in vigore i nuovi importi dei diritti di copia

 


Per come avevamo anticipato (Post al link), da oggi sono in vigore i nuovi importi, per il prossimo triennio, dei diritti di copia

All'uopo alleghiamo la Gazzetta Ufficiale del 3.08.2021 n. 184 che alle pagine 10 e ss. contiene il decreto di adeguamento (Gazzetta al link)

17 agosto 2021

La riforma del Processo Penale. 6. La riforma delle indagini preliminari: tutte le risposte

Da qualche mese ci stiamo occupando della riforma del processo penale.

Lo abbiamo fatto, sin dal testo Bonafede, per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.

Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.

Terminate le varie sezioni pubblichiamo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.

Proseguiamo oggi con la sezione La riforma delle indagini preliminari , per la quale abbiamo rivolto le nostre domande a Piergiorgio Morosini (giudice), Maria Bambino (pm), Rachele Nicolin e Dario Lunardon (avvocato) e Pasquale Bronzo (docente).




1- Ritiene che la riforma dell’art.125 disp.att. avrà un reale effetto deflattivo?

Il Giudice: Una prima considerazione appare doverosa.
Con la novità della riformulazione dell’art.125 att. c.p.p., relativo alla richiesta di archiviazione, si mira a rendere più selettiva la regola di giudizio per l’esercizio dell’azione, al fine di evitare inutili esperienze processuali destinate sin dall’inizio ad esiti assolutori (lett.a).
La lett.a) dell’art. 3 fissa come criterio direttivo: “il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari risultano insuffiicienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio. 
In questo senso, la novità si presenta come del tutto speculare alla previsione di modifica dell’art. 425 c.p.p. e non poteva essere altrimenti.
Ebbene, la formula, praticamente identica per la richiesta di archiviazione e per la regola di giudizio dell’udienza preliminare, mantiene una sua vaghezza che, nel consentire ampi margini esegetici, potrebbe trovare le resistenze di un approccio mentale consolidatosi nella nostra esperienza giurisdizionale nell’arco di trent’anni.
Il tema della riformulazione di certe regole di giudizio, da tempo, si ripropone nel dibattito sulle disfunzioni della nostra procedura penale ed è stato già in passato oggetto di interventi riformatori (legge Carotti)[1], che tuttavia non hanno risolto i problemi di fondo.
Da più parti si sostiene che l’interpretazione della regola di giudizio di cui all’art. 425 c.p.p. seguita dai pubblici ministeri e dai giudici dell’udienza preliminare, sarebbe inidonea a produrre un effettivo filtro su richieste azzardate in quanto fondate su compendi probatori ampiamente lacunosi, contradditori o comunque destinati, sin dall’origine, ad inutili vagli dibattimentali.
La tesi sembra confortata dal fatto che la percentuale di rinvii a giudizio si attesterebbe oggi intorno alla cifra del 79 % delle richieste, secondo una recente indagine dell’Eurispes. 
Il Disegno di legge si propone, dunque, di superare la versione “debole” di “utilità del dibattimento”, accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità, che si è spinta ad affermare che, per il rinvio a giudizio, il GUP è chiamato a valutare non tanto la fondatezza dell’accusa, bensì la capacità degli elementi posti a sostegno della richiesta di cui all’art.416 c.p.p., eventualmente integrati ai sensi degli artt.421 bis e 422, di dimostrare la sussistenza di una “minima probabilità” che, all’esito del dibattimento, sia dimostrata la colpevolezza” (cfr. Cass. 24 febbraio 2016, Tali).
In altri termini, il vigente comma 3 dell’art.425 c.p.p. non pare che imponga al g.u.p. il proscioglimento dell’imputato qualora gli elementi acquisiti risultino insufficienti o contraddittori per una futura pronuncia di condanna, se si scorge la possibilità di superare con l’istruttoria dibattimentale il deficit o le antinomie. 
Per questo motivo alla lettera i) dell’art. 3 del disegno di legge si propone di modificare la regola di giudizio di cui all’art.425 comma 3 c.p.p., “al fine di escludere il rinvio a giudizio nei casi in cui gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contradditori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria”.
Vorrebbe così introdursi una versione “forte” di utilità del dibattimento, suscettibile di incidere anche sulle determinazioni del pubblico ministero ai sensi dell’art.125 disp.att., in virtù della modifica di cui all’art.3 lett.a del disegno di legge .
Tuttavia sia consentito nutrire qualche dubbio sulla reale efficacia di una simile riformulazione della regola di giudizio. 
La norma mantiene una sua vaghezza che, nel consentire ampi margini esegetici, potrebbe trovare le resistenze di un approccio mentale consolidatosi nella nostra esperienza giurisdizionale nell’arco di trent’anni. D’altronde, tutte le regole di valutazione delle prove attengono alla cosiddetta “clinica giurisprudenziale”, che, secondo autorevoli processualpenalisti, rappresenta una sorta di “giardino proibito” per il legislatore (l’espressione è di Paolo Ferrua).
Certo la novità potrebbe anche essere interpretata come la promozione di un orientamento secondo cui si passa da regola di giudizio prognostica ad una regola diagnostica. 
In altri termini, i pubblici ministeri e i g.u.p. non sarebbero più tenuti a considerare le possibili evoluzioni del materiale raccolto in sede di indagine nella sede dibattimentale, ma soltanto a valutare in modo statico la serietà del compendio probatorio esistente nel fascicolo delle indagini in merito alla colpevolezza dell’imputato, ordinando il proscioglimento in caso di prova insufficiente o contraddittoria.
Insomma la novità destinata ad incidere sugli artt.125 disp.att. e 425 c.p.p., comporrebbe anche un mutamento dell’approccio del p.m. in prima battuta e del giudice dell’udienza preliminare poi.
L’organo requirente non sarebbe più tenuto soltanto a compiere indagini complete, ma dovrebbe formulare l’imputazione solo se l’accusa appare sostenibile in abbreviato, dove pacificamente si applicano le regole del giudizio di cognizione che risolvono il dubbio in favore dell’imputato [2]. Ciò eviterebbe agli accusatori di continuare a contare sulla possibilità futura di colmare un quadro investigativo incerto.
In questo senso, la novella dell’art.125 disp.att. potrebbe sortire degli effetti deflattivi.
Quanto alla novella speculare dell’art.425 c.p.p., invece, non parrebbe la soluzione più adatta per far fronte alla grave crisi dei tempi della giustizia italiana.
Anche secondo una parte della dottrina, più si restringe il filtro, aumentando le chance di sentenza di non doversi procedere, tanto più si sarà indotti a considerare la fase avanti al Gup come un primo parziale grado di giudizio suppletivo ed anticipato rispetto ai gradi di cognizione piena. 
Di qui il rischio non solo che l’eventuale decreto di rinvio a giudizio venga a esercitare un peso psicologico eccessivo sulla valutazione del giudice dibattimentale, ma soprattutto di un possibile ulteriore allungamento della durata media della udienza preliminare, la quale già oggi secondo gli studi Eurispes ha in media una durata tutt’altro che breve.
D’altronde, è fisiologico che una maggiore incidenza del filtro implichi un maggiore impegno (anche istruttorio) da parte del g.u.p. che corrisponde ad una maggiore durata della fase. 
In virtù di questi riflessi, occorre chiedersi se la novità sia davvero utile anche in chiave di abbattimento dei tempi processuali e di recupero delle risorse.
[Nota 1: Nel vigore del testo originario dell’art.425, la sentenza di non luogo a procedere poteva pronunciarsi solo quando era “evidente” che il fatto non sussisteva o non costituiva reato o che l’imputato non lo aveva commesso, come tale il filtro risultava ancora meno rigoroso di quanto non lo sia stato dopo la riforma della legge. n. 479 del 1999 (legge Carotti).

Nota 2: Si pensi al fascicolo che contiene gli stessi elementi che si sono rivelati inidonei a sostenere un giudizio di gravità indiziaria alla base di una richiesta di applicazione di una misura cautelare]


Il pubblico ministero: La previsione della nuova regola di giudizio di cui all’art. 3 lett. a) del disegno di legge di riforma che impone al pubblico ministero di avanzare richiesta di archiviazione “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio”, è chiaramente finalizzata alla necessità di limitare il numero di procedimenti in relazione ai quali l’organo dell’accusa deve esercitare l’azione penale, selezionando, all’esito della fase delle indagini preliminari, i soli procedimenti effettivamente meritevoli di essere sottoposti al vaglio dibattimentale.

L’approccio del legislatore della riforma appare però eminentemente nominalistico e infatti nella prassi degli uffici di procura le formule contemplate già ricorrono con frequenza nelle richieste di archiviazione avanzate al giudice per le indagini preliminari.

Esaurite le attività di indagine, la valutazione da parte del pubblico ministero degli elementi raccolti, implica necessariamente una lettura combinata della formula di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p. (“il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”) e della formula contenuta nell’art. 425 c.p.p. (come modificato dalla legge 16.12.1999, n. 479), che ha in particolare introdotto nel comma 3 la previsione in forza della quale “il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. 

Elemento di novità è quindi unicamente rappresentato dall’introduzione della necessità che il pubblico ministero proceda ad una valutazione in ordine “alla ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio”, non essendo più sufficiente la mera sostenibilità dell’ipotesi accusatoria nella fase processuale.

Si tratta a ben vedere di novità soltanto apparente. La previsione di accoglimento dell’ipotesi accusatoria invero si impone al pubblico ministero ai fini delle determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale anche sulla base del vigente assetto codicistico, posto che l’organo dell’accusa deve in ogni caso procedere tenendo conto della prospettiva che una eventuale sentenza di condanna potrà essere pronunciata all’esito del giudizio solo se l’imputato risulti colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio ai sensi dell’art. 533 c.p.p.

La regola di giudizio da ultimo indicata presuppone – a codice di rito invariato – che il pubblico ministero acquisisca al proprio patrimonio conoscitivo ogni elemento relativo alla vicenda trattata, anche favorevole alla persona sottoposta a indagini, come peraltro imposto dall’art. 358 c.p.p. Nell’ipotesi in cui le indagini restituiscano elementi indicativi della non colpevolezza dell’indagato, dovrà necessariamente essere avanzata richiesta di archiviazione, proprio sul presupposto implicito che la prospettazione accusatoria non potrà trovare accoglimento nel successivo iter processuale.

Gli intenti della riforma sono condivisibili e devono essere valutati positivamente, anche se ritengo che la modifica oggetto di commento non potrà portare gli effetti deflattivi sperati. 


L'avvocato: Facciamo due considerazioni generali.
La prima è che le riforme delle norme processuali – se e nella misura in cui vogliono realmente introdurre delle modifiche alla struttura del processo – scontano inevitabilmente l’inerzia del sistema, nel senso che difficilmente possono comportare un immediato effetto nel concreto svolgersi dell’attività giudiziaria se realizzano interventi limitati e non sono accompagnate da un rinnovato approccio culturale.
Ciò è senz’altro vero per una norma cardine come quella dell’art. 125 disp.att. c.p.p. che incide direttamente sul metro di valutazione a cui il pubblico ministero dovrebbe ancorare la propria decisione in ordine all’alternativa tra richiesta di archiviazione vs richiesta di rinvio a giudizio.
La seconda considerazione generale è che la “resistenza del sistema” non può essere – per ciò solo – un motivo per valutare negativamente la proposta di modifica. Anzi: l’intervento riformatore può e deve essere stimolo e occasione per alimentare delle trasformazioni nella cultura del processo e dei suoi attori.
Queste considerazioni generali consentono di provare a dare una risposta alla domanda: la specifica proposta di modifica ha l’evidente scopo di introdurre un ulteriore filtro di valutazione per cercare di evitare la celebrazione di processi sostanzialmente inutili, quando gli elementi raccolti in fase di indagini appaiono insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio. Anzi, e di più: scopo della riforma dovrebbe essere proprio quello di giungere a una definizione di questi procedimenti già in fase di indagini preliminari, con la richiesta di archiviazione.
La formula evidentemente riecheggia e ricorda quella contenuta nel testo dell’art. 425 co. 3 c.p.p. a seguito all’intervento riformatore del 1999, che pur non è riuscito a porre un effettivo argine avverso contestazioni che apparissero, già sulla scorta degli atti di indagine, non meritevoli di approfondimento dibattimentale. Da più parti, infatti, si è rivelato il sostanziale fallimento di ogni effettivo ruolo di filtro da parte dell’udienza preliminare.
Il rischio è evidentemente che questo fallimento finisca per ripetersi anche per le indagini preliminari – anche se la riforma, sul punto, sembra sicuramente animata dai migliori intenti.
Ciò non significa, però, come abbiamo detto qui sopra, che questo possa essere un sufficiente motivo per esprimere un giudizio negativo.

Il docente: Direi di no. Prima ancora, dubito che la proposta sia traducibile in una norma dotata di una qualche effettività: credo che l’attuale soglia gnoseologica dell’imputazione, determinata in relazione alla sostenibilità dell’accusa (e già innalzata, come noto, rispetto all’assetto del rito penale previgente) sia collocata al massimo livello realisticamente esigibile in quella fase. 
L’idea si lega alla parallela modifica della regola decisoria del non luogo a procedere. E presenta analoga – se non più grave – opinabilità. Mi spiego: oggi quando gli elementi accusatori sono suscettibili di letture alternative il giudice dell’udienza preliminare deve rinviare a giudizio: è vero che questo accade con troppa frequenza, ma è lecito supporre l’incidenza dei rinvii a giudizio non sarebbe troppo diversa se la regola diventasse quella opposta (nel dubbio, non rinviare a giudizio): come è stato condivisibilmente osservato in dottrina, resterebbe troppo facile evitare la pesantissima responsabilità di prosciogliere sulla base di informazioni “naturalmente” perfettibili optando nei casi incerti per un rinvio a giudizio che per giunta non richiede nemmeno una motivazione. 
Inoltre, e soprattutto, il rinvio a giudizio diventerebbe un macigno per l’imputato, e questo vale a fortiori se al pregiudizio di un rinvio a dibattimento si cumula il pregiudizio derivante dalla mancata archiviazione. Al fondo, dobbiamo decidere se le informazioni importanti le forniscono le indagini o il dibattimento: in un sistema accusatorio la risposta non può che essere nel secondo senso. 
Per l’archiviazione il mutamento della regola decisoria è ancora più discutibile, anche perché sarebbe accompagnata, nel disegno riformatore, da una serie di misure di contenimento temporale delle indagini. 
Senza contare il rischio di un forte aumento delle opposizioni.
L’effetto più probabile di questo doppio innalzamento della soglia gnoseologica per l’accesso al dibattimento costituirebbe un forte incentivo alla scelta dei riti speciali, in una logica apertamente inquisitoria.
La deflazione processuale mi sembrerebbe assai meglio perseguita ampliando diversamente l’ambito applicativo dell’istituto archiviativo, ossia attraverso l’introduzione delle archiviazioni condizionate o “meritate”, da tempo sperimentate nel sistema processuale francese, come nel d.d.l. per le contravvenzioni.


2- Il di legge rimodula i termini di durata delle indagini preliminari e prevede che, scaduto il termine delle stesse, il p.m., ove non abbia assunto una qualche determinazione entro termini specifici, dovrà procedere ad una discovery delle indagini compiute. Quale è a riguardo il suo giudizio?

Il Giudice: Il disegno di legge in esame propone direttive di delega tendenti ad incidere su diversi aspetti dell’operato della magistratura requirente per orientare l’azione delle procure verso obiettivi di maggiore trasparenza, rigore, celerità ed efficienza, anche con riferimento ai tempi di assunzione delle determinazioni dopo la conclusione delle indagini preliminari .
L’intervento riguarda i termini di durata delle indagini preliminari prevedendo una modulazione degli stessi in funzione della differente gravità dei reati (lett.c), nonché l’indicazione di tempi certi, dopo la conclusione delle indagini preliminari, per la manifestazione delle determinazioni del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di archiviazione (lett. e).
La soluzione trova un punto di equilibrio tra esigenze di speditezza, segretezza e adeguatezza delle indagini e diritti di difesa in relazione ai risultati acquisiti all’esito delle indagini, stabilendo opportunamente uno strumento di discovery obbligatoria degli atti di indagine in favore dell’indagato, del suo difensore, nonché della persona offesa, operante nel caso in cui il pm non abbia adottato tempestivamente le suddette determinazioni.
Inoltre, una volta notificato alle parti l’avviso di deposito atti, il rappresentante dell’accusa dovrà presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di trenta giorni, e scatterà nei suoi confronti la responsabilità disciplinare se per negligenza inescusabile violi la disposizione sui tempi di cui alla lett. e (lett.g). 
Si comprende come il “deposito coatto delle investigazioni” voglia evitare situazioni di stallo, da una parte pungolando l’accusa e dall’altra consentendo all’indagato e alla persona offesa di attivarsi per compiere indagini difensive, in una logica di continuità e di completamento rispetto alla regola introdotta dalla riforma Orlando nell’art.407 comma 3 bis (che non aveva prescritto un termine perentorio entro il quale notificare l’avviso conclusione indagini). 
Tuttavia le riserve derivano dalle opzioni in ordine alla tipologia delle sanzioni per il mancato rispetto dei termini. La proposta, infatti, non prevede sanzioni processuali per certe inerzie (invalidità speciali o situazioni di improcedibilità), ma punta su ipotesi di responsabilità disciplinare dei pubblici ministeri (lett.f e g).
Ebbene, nella quasi totalità dei casi, le inerzie dipendono dalle condizioni di carico di lavoro e da deficit strutturali, che non riguardano forme di responsabilità del singolo magistrato. Peraltro già è prevista una responsabilità disciplinare ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett.q del d.lgs n.109 del 2006 per il ritardo nel compimento di atti relativi all’esercizio delle funzioni.
In questo senso, sarebbe più ragionevole l’introduzione di sanzioni processuali collegate ad una inerzia che non trova cause di giustificazione plausibili.

Il pubblico ministeroL’art. 3 lett. e) del disegno di legge di riforma ha introdotto l’obbligo in capo al pubblico ministero di notificare l’avviso del deposito della documentazione relativa alle indagini espletate e della facoltà di prenderne visione ed estrarne copia, decorsi i termini specificamente previsti. 
L’intento della riforma è quello di introdurre meccanismi procedurali che rendano più celere l’attività “definitoria” del pubblico ministero, ma non tiene conto dell’esistenza di un sistema di controllo sulla tempestività dell’operato degli uffici di procura, affidato alle procure generali e previsto dall’art. 412 c.p.p., ai sensi del quale “il procuratore generale presso la corte di appello, se il pubblico ministero non esercita l’azione penale o non richiede l'archiviazione nel termine previsto dall’articolo 407 comma 3 bis, dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari. Il procuratore generale svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste entro trenta giorni dal decreto di avocazione”, sistema che prevede l’adempimento periodico di specifici obblighi informativi da parte dei magistrati della procura per rendere effettivo il suddetto controllo.
Pur reputando essenziale garantire la rapida definizione della fase delle indagini preliminari a tutela sia delle persone sottoposte a indagini (in ragione dei riflessi negativi che la pendenza di un procedimento penale inevitabilmente produce in ambiti diversi da quelli strettamente legati alla contingente vicenda giudiziaria) sia delle persone offese dai reati, credo che la discovery anticipata prevista dalla riforma non sia uno strumento idoneo a tale scopo. Non è infatti prevista alcuna conseguenza procedurale in ipotesi di inosservanza da parte del pubblico ministero delle nuove prescrizioni.
L’introduzione dell’istituto in commento sarebbe stata più utile se accompagnata dal riconoscimento espresso in capo ai soggetti interessati di prerogative e facoltà analoghe a quelle previste dall’art. 415 bis c.p.p., anche nell’ottica di garantire un effettivo esercizio del diritto di difesa in una fase antecedente a quella della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. 
    L'avvocato: Occorre, sul punto, cercare di essere pragmatici e rilevare come vi siano numerosi procedimenti in cui l’indagato neppure è a conoscenza del suo status apprendendo ciò soltanto dalla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari: in questi casi, prevedere un obbligo di notifica di un avviso del deposito della documentazione relativa alle indagini espletate rischia di introdurre una formalità ulteriore la cui omissione è sostanzialmente priva di conseguenze e il cui adempimento, salvo assicurare una conoscenza anticipata degli atti, non garantisce un effettivo potenziamento del diritto difesa. 
    Sul punto, infatti, sarebbe interessante conoscere, quanti – tra i procedimenti penali definiti con un provvedimento di archiviazione – sono quelli in cui il pubblico ministero ha presentato la relativa richiesta modificando la propria iniziale determinazione espressa dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari. 
    In altre parole: quanto effettivamente incide la discovery sulla possibilità per la difesa di offrire un contributo che il pubblico ministero sappia apprezzare per determinarsi chiedendo l’archiviazione del procedimento?
    L’impressione che abbiamo è che – purtroppo – l’eventuale contributo difensivo all’esito della discovery sia sostanzialmente irrilevante, come l’esperienza dimostra in riferimento a quello che avviene dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
    Ma la questione dei termini di durata delle indagini preliminari e della successiva discovery pone anche un tema diverso, che ne costituisce il presupposto logico e giuridico, ed è il controllo sul momento genetico del procedimento, ovvero sull’iscrizione del nome della persona nel registro degli indagati, su cui la riforma non sembra intervenire. 

    Il docente: Quale il suo giudizio al riguardo? Mi pare eccessivamente ottimistico pensare che la razionalizzazione dei termini possa condurre ad una velocizzazione delle indagini: molto spesso la dilatazione dei tempi dipende da fattori non governabili dal pubblico ministero.
    La norma finale poi è singolare. Mira ad indurre il pubblico ministero che, a termini scaduti, resti inerte a “sbloccare" il procedimento imponendogli una discovery forzata dei materiali investigativi: il che evidentemente presuppone che il pubblico ministero temporeggi senza giustificazioni o addirittura nel proposito di continuare ad indagare ultra vires.
    Peraltro quella discovery rischierebbe di rendere (o di far ritenere) poi superflua quella dovuta prima della richiesta di rinvio a giudizio, non senza qualche perdita per la difesa. 
    Come antidoto alla dilatazione della fase preliminare è più utile stabilire la sindacabilità dell’obbligo di immediata iscrizione delle notizie di reato, come del resto si prevede nel d.d.l.: l’unica sanzione davvero sensata per l’inquirente è quella ‘processuale’ che sterilizza gli atti investigativi tardivi. 

    3- La riforma rimette alle singole Procure l’individuazione di criteri di priorità “al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. La giudica una riforma opportuna?

    Il Giudice: Per garantire l’uniforme ed efficace esercizio dell’azione penale, il disegno di legge dedica una specifica direttiva di delega (art. 3 lett. h) al tema dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali da parte degli uffici del pubblico ministero.
    L’opzione in esame riguarda il modo di declinare in concreto il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale con i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
    Secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 88 del 1991), “l’obbligatorietà dell’esercizio della azione penale a carico del pubblico ministero è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”. 
    E’ noto come quel principio debba misurarsi con la difficoltà di gestione di un elevatissimo e crescente numero di notizie di reato che pervengono agli uffici di procura; col pericolo di favorire, nella prassi, forme incontrollabili di aggiramento dell’obbligo previsto dall’art.112 Cost., attraverso forme di discrezionalità del singolo magistrato nelle scelte di priorità.
    In tale prospettiva, è condivisibile l’opzione del disegno di legge in esame, laddove prevede, quale dovere istituzionale del procuratore della Repubblica, la redazione di criteri di priorità, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte di appello e con il presidente del tribunale. E appare, inoltre, opportuno che quei criteri vadano a confluire nel progetto organizzativo, secondo un orientamento apparso da anni nell’ambito del circuito del governo autonomo della magistratura [3].
    Sempre in sintonia con i principi costituzionali sopra indicati, la proposta di riforma prevede che la redazione dei criteri di priorità tenga conto delle direttive elaborate dal Consiglio Superiore della Magistratura, nonché delle specificità territoriali e delle risorse, personali e reali, disponibili, così coinvolgendo anche i vari Consigli giudiziari. 
    In altri termini si va verso documenti organizzativi che, sulla base di un percorso partecipato e avallato dal Consiglio Superiore della magistratura, suscettibile di coinvolgere nelle scelte di priorità anche componenti non togate, prevedono forme di “tracciabilità” delle regole che le procure si danno nelle scelte sul cosa far progredire e con quali tempi.
    Tale strumento costituisce un antidoto alla possibilità di esercizio arbitrario delle prerogative del pubblico ministero e alle “personalizzazioni” dei procuratori della repubblica nella direzione dell’ufficio, ed è funzionale ad una gestione più trasparente degli affari, preziosa per la collettività.
    Tuttavia lo stesso strumento non può trasformarsi in una alibi per la definitiva non trattazione di categorie di fatti di reato e come tale va inteso come “soluzione ponte” in un contesto emergenziale, quindi auspicalmente destinato ad essere sostituito da misure strutturali di ben altra portata (es. significative iniziative di depenalizzazione). 

    [Nota n. 3: Una prima indicazione venne al CSM nella seconda metà degli anni settanta a proposito del terrorismo cfr. Notiziario CSM, 31 luglio 1977. Successivamente si segnala una circolare sottoscritta dal Presidente della Corte di appello e dal Procuratore Generale di Torino pubblicata in Cass .pen. 1989, p.1373 ss. e una circolare del Procuratore della repubblica presso la pretura di Torino del 1990 in Cass. pen. 1991, p.361 ss. Sul tema più in generale V. ZAGREBELSKY, L’organizzazione del lavoro: esame delle notizie di reato, i flussi di lavoro e le sezioni specializzate, in Quaderni CSM 1995 n.78 p.19 ss. Da ultimo per una ricognizione dei problemi si veda la circolare del CSM sulla organizzazione degli uffici di procura del 16 novembre 2017 in www.csm.it.].

    Il pubblico ministeroLa riforma mira a introdurre un sistema sanzionatorio di carattere disciplinare a carico del pubblico ministero che ometta di procedere alla discovery nei termini indicati o che, dopo aver ritualmente notificato l’avviso di deposito, non presenti richiesta di archiviazione o non eserciti l’azione penale nel termine di trenta giorni dalla richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa, nelle ipotesi di negligenza inescusabile.
    In questo caso sembra che il legislatore persegua finalità di natura esclusivamente punitiva nei confronti dei rappresentanti dell’accusa, senza prevedere alcuna conseguenza di carattere processuale a fronte delle inerzie che vorrebbe contrastare, con la conseguenza che nessun effetto realmente positivo si produrrà sul singolo procedimento. È verosimile infatti che l’effetto deterrente della minaccia della sanzione disciplinare, che dovrebbe indurre i pubblici ministeri ad attivarsi per definire celermente il procedimento, sarà limitato, in quanto le condizioni di sovraccarico di lavoro in cui versano molti Uffici di procura difficilmente consentiranno di ravvisare nell’inerzia del pubblico ministero una situazione di negligenza inescusabile.

    L'avvocato: Come abbiamo anticipato qui poco sopra, l’esperienza giurisprudenziale ha dimostrato che i termini di durata delle indagini preliminari (con relativi effetti sulla garanzia della ragionevole durata del procedimento) scontano la mancanza di una previsione che consenta di svolgere un effettivo controllo processuale sulla decorrenza di suddetti termini e precisamente sulla tempestività dell’iscrizione da parte del pubblico ministero di una notizia di reato soggettivamente orientata. 
    Sul punto, infatti, è noto il consolidato e criticato orientamento secondo il quale il Pubblico Ministero ha un potere discrezionale insindacabile circa l’an e il quando effettuare l’iscrizione, per cui il ritardo, rilevante ai fini della decorrenza del termine per le indagini preliminari, non può essere censurato in sede processuale, fatta salva ovviamente la responsabilità disciplinare ed eventualmente penale del magistrato inquirente, ricorrendone i presupposti -  (cfr. Cass., SS. UU. n. 16 del 21–30 giugno 2000, Tammaro).
    Ecco allora che, senza introdurre previsioni sul controllo del momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, ogni ipotetica riforma sul punto rischia di perdere ogni possibile effetto concreto.
    La previsione di una norma che sanziona l’inerzia esclusivamente come illecito disciplinare del pubblico ministero anziché con una forma di decadenza dell'azione, senza alcun controllo sul momento dell’iscrizione, non risolve alcun problema ma piuttosto aumenta quelli già esistenti. 

    Il docente: La decadenza dal potere di agire, dove esiste, come nel dismissal, si colloca in un quadro di azione discrezionale. D’altra parte mi pare molto difficile in concreto formulare un addebito in termini di inescusabilità per carenze che presentano solitamente carattere multifattoriale e sono spesso ‘ambientali’. 


    4. La riforma rimette alle singole Procure l’individuazione di criteri di priorità “al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”, La giudica una riforma opportuna?

    Il pubblico ministeroL’intento del legislatore è anche in questo caso da apprezzare, posto che il principio di obbligatorietà dell’azione penale risulta di fatto inoperante – in base a inevitabili scelte di priorità dei singoli magistrati fondate però su criteri non determinati né trasparenti – a fronte dell’elevatissimo numero di notizie di reato che quotidianamente ciascun pubblico ministero gestisce, soprattutto nell’ambito di uffici di piccole dimensioni, penalizzati da croniche scoperture di personale e da limitatissime risorse. 
    Rimettere ai singoli procuratori, in sinergia con il procuratore generale e il presidente del tribunale e sulla base “delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”, l’individuazione dei criteri di priorità, se da un lato reca con sé il vantaggio della “prossimità territoriale” e quindi la conoscenza approfondita dei fenomeni criminali che più interessano una determinata area geografica, dall’altro potrebbe determinare disparità nel trattamento di notizie di reato omogenee, inevitabilmente conseguenti alla diversa sensibilità dei singoli capi degli uffici. Sarebbe pertanto a mio parere opportuna la elaborazione di linee guida a un livello sovraordinato rispetto a quello individuato dalla riforma che, al di là delle peculiarità delle diverse realtà territoriali, assicuri il rispetto del principio di uguaglianza, che lo stesso principio di obbligatorietà dell’azione penale è diretto a garantire.

    L'avvocato: Questa proposta sembra prendere atto della assoluta incapacità del sistema di attuare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale.
    Pertanto, prima di giudicare dell’opportunità della proposta di riforma, sarebbe necessario valutarne la legittimità nell’attuale assetto costituzionale, che pur richiederebbe un intervento di revisione che prenda atto della sostanziale e quotidiana violazione di quel principio costituzionale, che è oggi poco più che un “totem” difeso in nome di un principio di uguaglianza quotidianamente violato nella concreta prassi giudiziaria.
    In questo quadro appare evidente che l’idea di rimettere alle singole Procure l’individuazione di criteri di priorità sia incompatibile con la legalità del sistema. 
    Il sovraccarico delle Procure è noto e provoca un rallentamento dei tempi della giustizia. 
    Tuttavia, si ritiene debba essere affrontato con proposte che mirino a snellire e semplificare i procedimenti penali senza svuotare di significato i principi costituzionali. 
    In quest’ottica, eventuali criteri di priorità possono essere ammessi solo se preventivamente stabiliti, quanto meno in via generale, dal Parlamento ossia da un organo che possa assumersi la responsabilità politica delle proprie scelte, e non rimesse alla mera discrezionalità (senza controllo) di ciascuna Procura della Repubblica – con l’ulteriore ed inevitabile effetto di creare disparità di trattamento che sarebbero lesive non soltanto del principio di obbligatorietà dell’azione penale ma anche del fondamentale principio di uguaglianza.

    Il docente: A parte l’ipocrita denominazione di “criteri di priorità” per congegni che in realtà finiscono per selezionare, all’interno del carico giudiziario, i reati per i quali procedere e quelli da lasciar prescrivere, non mi pare il modo migliore di regolare la materia: proporre trasparenza e predeterminazione dei criteri, col proposito di far emergere una discrezionalità oggi sommersa, dà per risolto quello che è il problema di fondo, ossia la discrezionalità del pubblico ministero. Il p.m., che ha tanti spazi di discrezionalità tecnica nel codice vigente, non ha discrezionalità “politica” perché privo di legittimazione democratica; un organo politicamente irresponsabile non potrebbe infatti essere titolare di opzioni di politica criminale. Io credo non si possa sfuggire al fatto che i criteri di priorità, per questa loro portata, non possono non avere un qualche momento di controllo da parte del Parlamento.

      12 agosto 2021

      La riforma Cartabia: la prescrizione non è impunità - di Daniele Carra

      Prosegue sul nostro blog il dibattito sulla Riforma Cartabia (il piano completo al link). 

      Dopo gli interventi dei professori Giorgio Spangher (link), Bartolomeo Romano (link), Paolo Ferrua (link), il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), e gli intervento di Daniele Livreri (link) e Michele Passione (link), pubblichiamo oggi l'intervento del collega Daniele Carra.


      Quello della prescrizione dei reati è certamente un tema spinoso, da prima pagina, che da anni divide il mondo politico di casa nostra; è questa la ragione per cui assistiamo in questi giorni a un acceso scontro tra opinionisti, giuristi ed esponenti della politica sul contenuto della riforma Cartabia.

      In realtà, a fronte di un disegno di legge che riempie una cinquantina di pagine di previsioni destinate, nelle intenzioni del Governo, a dare una complessiva maggior efficienza al processo penale, il dibattito di questi giorni si sofferma sul contenuto di due sole paginette, quelle dedicate alla prescrizione del reato e alla improcedibilità dell’azione per superamento dei termini dei giudizi di impugnazione.

      D’altro canto, del fatto che la prescrizione rappresenti un terreno minato era ben consapevole anche l’ex Ministro della Giustizia Bonafede, il quale riuscì a far approvare una norma dal contenuto dirompente, invocata e anelata da una parte politica che ne aveva fatto una vera e propria bandiera ideologica, inserendola – come corpo estraneo - nell’impianto normativo della cd “Spazzacorrotti”, giusto un attimo prima dell’approvazione parlamentare di tale legge, dedicata al contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione.

      E’ stata questa la modalità attraverso la quale è stata inserita la previsione di imprescrittibilità di tutti i reati per i quali fosse intervenuta una sentenza di primo grado (assolutoria o di condanna), il tutto camuffato per “momento sospensivo”.

      Ciò significa che a far tempo dal 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge, una volta intervenuta una sentenza di primo grado (sia essa di condanna o di assoluzione), qualora vi sia impugnazione di una delle parti processuali il reato diviene imprescrittibile e l’unico evento in grado di estinguerlo rimane la morte dell’imputato.

      Trattandosi di una legge applicabile ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore, ad oggi la riforma Bonafede non ha potuto ancora spiegare i propri effetti. Sul punto, però, il primo Presidente della Corte di Cassazione aveva immediatamente sottolineato che la riforma stessa avrebbe avuto quale effetto quello di provocare un accumulo di fascicoli tale da portare alla inevitabile paralisi del terzo grado di giudizio.

      Forse anche per questa ragione il governo Conte bis aveva ipotizzato una modifica della neonata riforma, attraverso un disegno di legge (denominato “Lodo Conte bis”) che non ha visto la luce a causa della crisi del gennaio 2021.

      Il Ministro di Giustizia in carica, Marta Cartabia, pur facendo sfoggio di un certo equilibrismo politico ed evitando di manifestare apertamente la volontà di disinnescare la riforma Bonafede, ha dimostrato una sensibilità verso le tematiche sottese al processo penale ignota a chi l’aveva preceduta.

      Operando una vera e propria inversione di rotta rispetto a chi l’aveva preceduta, il Ministro ha sottolineato la necessità di espandere la giustizia riparativa e le assoluzioni per particolare tenuità del fatto, l’esigenza di ricorrere alla pena detentiva quale misura residuale (e non quale automatica conseguenza dell’accertamento della responsabilità penale), con conseguente ampliamento delle misure alternative alla reclusione, senza trascurare il richiamo convinto al fondamentale principio della presunzione di innocenza,

      Coerentemente con le conclusioni della Commissione di studio presieduta da Giorgio Lattanzi, voluta dallo stesso Ministro, l’originaria formulazione del disegno di legge di cui inizierà nei prossimi giorni la discussione parlamentare prevedeva la reintroduzione della decorrenza della prescrizione del reato anche durante i successivi gradi di giudizio, pur con allungamenti del termine previsti proprio per permettere la celebrazione dei processi.

      Quando sembrava che il Governo avesse raggiunto, sul punto, unanimità e quadratura del cerchio è intervenuto un revirement che ha fatto propendere per il mantenimento della imprescrittibilità dei reati dopo la sentenza di primo grado e per il passaggio ad un sistema di improcedibilità dell’azione penale nel caso in cui non venga concluso il grado di appello in due anni e il giudizio di Cassazione in un anno (il tutto con esclusione dei reati puniti con l’ergastolo e con possibilità di proroga del termine per i reati di mafia, terrorismo, traffico di stupefacenti e violenza sessuale). E’ stata prevista anche una disciplina transitoria, fino al 31.12.2024, che prevede termini più lunghi (tre anni per l’appello e due per la Cassazione).

      E’ agevole ipotizzare che il cambio in corsa del governo sia dovuto alle imposizioni di una importante componente della compagine governativa, non disponibile a rinunciare alla bandiera della imprescrittibilità dei reati, al grido di mai più rischio impunità per i delinquenti”. Quel che è certo è che la soluzione trovata è tecnicamente assai discutile e che il ricorso all’istituto della improcedibilità darà corso a criticità tecniche di non poco conto, già puntualmente evidenziate dai primi commenti della dottrina.

      Per il resto, la riforma Cartabia ha il pregio, di non poco conto, di tentare di rimuovere dal nostro sistema giuridico la barbarie del processo eterno, quell’obbrobrio contro il quale invano i penalisti italiani si erano schierati, nel tentativo di sensibilizzare la collettività sulle gravi violazioni del Legislatore di principi di diritto sovranazionale (art. 6 della CEDU), costituzionali (art. 111 della Costituzione: “la legge assicura la ragionevole durata del processo”) e, forse, dello stesso diritto naturale, inteso quale imprescindibile diritto dell’imputato ad essere giudicato in un giusto processo.

      E’ vero, anche i propugnatori della “imprescrittibilità dei reati”, hanno sempre invocato, a fondamento della propria lettura del processo penale, il principio costituzionale della certezza della pena, salvo dimenticare di rapportarlo a tutti gli altri principi di pari rango. Ancora oggi fa male leggere esternazioni allarmistiche di autorevoli componenti della magistratura e dello stesso CSM, secondo le quali la riforma Cartabia creerebbe impunità, con enorme vantaggio per mafiosi e narcotrafficanti e migliaia di processi in fumo.

      Ferma restando la necessità di stigmatizzare l’ennesimo tentativo del potere giudiziario di condizionare le scelte del Legislatore, è necessario sottolineare come il grido di allarme dei magistrati sia davvero privo di fondamento, dal momento che è fatto notorio a chi frequenta le aule di giustizia che i processi celebrati in tempi rapidi sono proprio quelli contro gli imputati dei reati più gravi, per evitare la decorrenza dei termini di custodia cautelare.

      La realtà è che la durata ragionevole del processo è un sacrosanto diritto dell’imputato e pretendere l’applicazione di tale diritto, di rango costituzionale, non significa invocare impunità.

      Il nostro sistema penale prevedeva già prima della riforma Bonafede l’imprescrittibilità dei reati puniti con la pena dell’ergastolo e tempi di prescrizione, per gli altri reati, così lunghi da permettere a uno Stato civile di celebrare tutti i gradi del processo: non vi era alcuna necessità, quindi, di intervenire sul sistema; al contrario, è oggi indispensabile rimuovere la norma “Bonafede” dal nostro ordinamento.

      A ciò sta provvedendo il progetto di riforma del Ministro Cartabia, progetto al quale va quindi riconosciuto il pregio di ripristinare il principio fondamentale secondo cui il processo penale non può durare in eterno.

      Daniele Carra

      Presidente Camera Penale di Parma





      11 agosto 2021

      Vuoto per pieno (luci ed ombre della riforma Cartabia) - di Michele Passione

      Prosegue sul nostro blog il dibattito sulla Riforma Cartabia (il piano completo al link). Dopo gli interventi dei professori Giorgio Spangher (link), Bartolomeo Romano (link), Paolo Ferrua (link), il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), e l'intervento di Daniele Livreri (link), pubblichiamo oggi l'intervento del collega Michele Passione. 





      Sommario : 1) Premessa; 2) Quel che resta del giorno. Lo scorrere del tempo; 3) Una certa idea della pena; 4) Spigolature


      1) Vuoto per pieno; per chi intendesse leggere queste brevi note sul DDL A.C. 2435 – A, tenendo unicamente conto dello scampato pericolo rispetto al testo Bonafede l’invito è a fermarsi qui, dedicandosi ad altro. In Politica non è mai opportuno limitarsi al “poteva andare peggio” (dimenticare Frankenstein Junior). 

      Specularmente, non ci si prefigge il compito di raffrontare il testo licenziato dalla Commissione Lattanzi con quello approvato dalla Camera dei deputati il 3 agosto u.s., poi trasmesso al Senato per l’esame in seconda lettura.

      Com’è a tutti evidente, quel che oggi rileva è l’esame di un testo ancora in fieri e la sua corrispondenza alle finalità rese esplicite dalla delega, avuto riguardo delle diverse sensibilità politiche che hanno animato il dibattito.

      Credo sia utile liberarsi dalla tentazione (un po' vanesia) di far prevalere la propria visione dello stato dell’arte senza tener conto delle ragioni dell’altro e (soprattutto) di quanto fuoriesce dal perimetro disegnato (le ragioni sono note) dal (raccogliticcio) legislatore delegante.

      Fatte queste premesse, senza prefiggersi il compito del puntuale esegeta, vorrei qui limitarmi ad alcune osservazioni random, che tengano conto di quelle già svolte in precedenza da autorevoli commentatori, con qualche ulteriore aggiunta su aspetti meno commentati della novella.


      2) Quel che resta del giorno. Lo scorrere del tempo - Si è osservato (cfr., in particolare, sul tema della rivisitata prescrizione nella sua ibrida veste sostanziale/processuale, le note critiche dei Proff. Marcello Daniele, Paolo Ferrua, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati, Giorgio Spangher su Il Dubbio del 27 luglio nonché di Ferrua e Spangher su questo blog, link e link), e non è il caso di scendere in ulteriori dettagli, che la disciplina licenziata in prima lettura si porrebbe in contrasto con diverse disposizioni costituzionali (25/2, 111/2 e 112, inter alia), esponendo tra l’altro le disposizioni di nuovo conio a censure della Corte EDU (in relazione all’art. 6 della Convenzione per ciò che concerne l’eventuale vanificazione delle misure disposte a favore della parte civile) e della Corte di Giustizia (laddove dovesse ritenersi un pregiudizio agli interessi dell’Unione, senza possibilità di invocare i controlimiti costituzionali, come accaduto per l’affaire Taricco).

      A questi rilievi, certamente esenti da partigianerie e unicamente dettati dall’attitudine scientifica degli autori, mi permetto in primo luogo di rispondere con le parole della Corte (sent.n.12/2016), secondo la quale “una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli, scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono”. Nell’occorso si è evidenziato che (anche richiamando l’art. 16, § 1 della Direttiva 2012/29/UE), “con riguardo all’asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo, [la] Corte ha ripetutamente affermato che alla luce dello stesso richiamo al connotato di ragionevolezza che compare nella formula costituzionale, possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza.” La stessa Corte EDU ha infine affermato (Sezione terza, 25.6.2013, Associazione delle persone vittime del sistema s.c. Rompetrol s.a. e s.c. Geomin s.a. e altri c. Romania; Sezione prima, 4.10.2007, Forum Maritime s.a. c. Romania) che la violazione dell’art. 6 emerge solo quando la vittima non fruisca di altri rimedi accessibili ed efficaci per far valere le sue pretese o siano indebitamente frustrate le sue aspettative per essere maturata la prescrizione  per ingiustificati ritardi nella conduzione del procedimento penale (Grande Camera, 2.10.2008, Atanasova c. Bulgaria; Sezione prima, 3.4.2003, Anagnostopoulos c. Grecia). A tal proposito, e ciò a prescindere dalla condivisibilità della scelta, non può sottacersi come il ddl contenga la modifica sul punto dell’art. 578 c.p.p., con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello in caso di dichiarata improcedibilità dell’azione penale per il superamento dei termini di cui al nuovo art. 344 bis c.p.p., e dunque non mi pare che la riforma, ove approvata, potrebbe presentare sul punto contrasti con l’art.117/1 Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 Cedu.

      Quanto ai controlimiti e al prospettato vulnus all’art.112 Cost., trovo del tutto condivisibili le acute osservazioni del Prof. Mazza (A Midsummer Night’s Dream: la riforma Cartabia del processo penale (o della sola prescrizione?), recentemente pubblicate su Archivio Penale.

      In quel testo, per “sgombrare il campo dallo scandalo che susciterebbe la nuova categoria dell’estinzione dell’azione ai sensi dell’art. 344 bis c.p.p.” viene giustamente indicato l’art.27/2 Cost., poiché “nel corso del processo l’unico atto che può estinguersi è l’azione”, e dunque il fenomeno estintivo deve essere ricollegato “alla condotta processuale del pubblico ministero piuttosto che al fatto reato” (che ancora giuridicamente non esiste, giusta la presunzione di cui all’art. 27/2 Cost.).

      Non solo; si afferma ancora che la frizione dell’improcedibilità con l’art. 112 Cost. provi troppo, dovendosi allora per coerenza considerare tale vulnus in relazione a tutte le altre similari ipotesi dogmatiche previste dall’ordinamento. Infine, si sostiene come il “nascituro” art. 344 bis c.p.p. andrebbe letto in relazione all’art.25/2 Cost., sottraendo la disposizione costituzionale dai confini sostanziali cui sembrerebbe formalmente riferita per estenderla alla “punibilità in concreto(e qui, sia pur in relazione a diversa vicenda processuale, mi pare indispensabile il richiamo alla storica sent.32/2020 Corte cost.).  

      Come si vede, liberato il campo dalle strumentali diatribe politiche, alle quali per fortuna sfuggono gli autori delle tesi richiamate, resta in campo (e qui potrebbe e – a mio parere dovrebbe – esercitarsi l’azione politica modificativa del testo) il tema grande del controllo del tempo, rimesso al potere discrezionale di proroga da parte del giudice nei processi di appello e di legittimità, ovviamente condizionato (questo il nodo gordiano che andrebbe definitivamente reciso) dalle scelte compiute dal pubblico ministero.  Tra l’altro, in questo caso viene in gioco davvero la lesione dell’art. 7 Cedu, così come emergono evidenti frizioni con la ratio decidendi di cui alla sent. n. 140/2021 del Giudice delle leggi. 

      Infine, con valutazioni che verranno riprese nel paragrafo che segue, la rinnovata damnatio del doppio binario, che pare aprirsi a nuove catalogazioni (non solo pentastellate), del tutto in contrasto con la presunzione di non colpevolezza, piegando il processo (non più solo la sanzione) ad arnese di lotta sociale.


      3) Una certa idea della pena - Con (molto più che) apprezzabile coerenza rispetto alle affermate linee programmatiche, la Ministra ha fortemente spinto per l’inserimento nel testo della RJ (restorative justice, giustizia riparativa) in ogni stato e grado del procedimento (e dunque non più soltanto nella fase esecutiva, come accaduto nella precedente legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario). Del resto, la vis espansiva della Giustizia riparativa deve molto all’insufficienza della leva incapacitante del diritto penale. Forse anche per questo, ancora, tenendo conto del plurale costituzionale (“le pene”) da sempre tradito, si è prevista la possibilità per il giudice del merito di applicare sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (nel limite di quattro anni), tuttavia “assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario per l’accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare”. Pur dovendosi apprezzare la previsione citata, non ci si può esimere dal sollecitare maggiore coraggio nel superamento delle preclusioni dettate dal tipo di autore e dal titolo di reato, come del resto si è previsto per i LLPU (lavori di pubblica utilità, ndr), estesi per durata e per tipologia dei reati rispetto alla legislazione vigente. Per evitare eterogenesi dei fini, sarà dunque opportuno tener conto dell’esperienza maturata in ambito penitenziario da parte di tutti gli operatori che nel corso degli anni hanno portato al superamento delle preclusioni in materia, sì da evitare che la riforma riproduca ciò che si propone di superare.


      4) Spigolature - Qualche annotazione sparsa, per chiudere.

      In termini positivi va letto il controllo del rispetto dei termini per le indagini preliminari (com’è universalmente noto, il vero motivo del maturare dei termini di prescrizione) e della data di iscrizione, ex art. 335 c.p.p., ma ovviamente andrà particolarmente sorvegliata l’efficacia della verifica, affinché la riforma spieghi i suoi effetti auspicati.

      Molto positive l’introduzione di uno strumento ad hoc per la revisione europea, l’estensione della messa alla prova, l’ampliamento dei poteri di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione e l’introduzione di un provvedimento di deindicizzazione che garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio di indagati o imputati.

      In termini negativi, l’ampliamento dei delitti di competenza del Tribunale monocratico e di una preliminare valutazione da parte di un magistrato diverso rispetto a quello chiamato al giudizio sulla fondatezza dell’ipotesi di accusa (di difficile praticabilità nei Tribunali più piccoli e foriera di ulteriori allungamento dei termini).

      Analogamente, la necessaria allegazione all’atto di appello di una formale elezione di domicilio dell’imputato (sul punto, si rinvia alle convincenti spiegazioni di Giovanna Ollà su il Dubbio del 10 agosto u.s.).

      Forti le critiche alla necessità di richiedere la trattazione orale e partecipata dei giudizi di appello e di Cassazione, ipotesi sulle quali andrà certamente dispiegata l’azione politica autunnale.

      Ancora, senza pretesa di esaustività (e pur dovendosi immaginare che la disposizione di cui all’art. 13 verrà difesa dalla magistratura associata, per intuibili ragioni di convenienza), trovo assolutamente pericolosa l’introduzione dell’Ufficio per il processo penale volto (tra l’altro) a “compiere tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giudiziaria da parte del magistrato, provvedendo, in particolare, allo studio dei fascicoli e alla preparazione dell’udienza, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e alla predisposizione delle minute dei provvedimenti”. Una specie di “massimario dei precari”, previsto anche per le Procure e in Cassazione, non può certo vicariare l’ubi consistam del mestiere del giudice (qui, di nuovo, si fa rinvio alle considerazioni del Prof. Oliviero Mazza pubblicate su Il Sole 24 Ore del 23.6.2021). Altre sono le pratiche da adottare per concorrere ad una più rapida organizzazione del lavoro.

      Come spero emerga da queste brevi considerazioni sparse, penso sia allora utile abbandonare il campo delle contrapposizioni, per più utilmente lavorare ad una riforma che pure non affronta, all’evidenza, i punti di debolezza del modello accusatorio italiano, ormai reso l’ombra di se stesso.

      Non si tratta dunque di prender parte per questa o quella tesi (con Cataldo Intrieri o con Marco Siragusa, sarebbe davvero riduttivo “metterla giù così”), quanto cercare di fornire un contributo utile (non solo per lucrare i fondi del PNRR: link, link e link). 

      L’orizzonte temporale è tiranno, e per esperienza personale so che i lavori delle Commissioni ministeriali sono lunghi e complessi. Invecchio male, ma non sono ancora diventato democristiano; non è la logica del compromesso che mi sta a cuore, quanto quella del confronto, della considerazione dell’altro da te, che può indurre a vedere ciò che in prima battuta non scorgevi. 

      La consapevolezza che sia sempre più difficile un confronto con la Politica, sgombro da convenienze minute e teso ad un vero riformismo democratico, non può autorizzare timidezze. Andrà dunque rivendicata la necessità dell’avvocatura di fornire un contributo in tutte le sedi utili, com’è capitato in passato. Quanto all’inutile campagna referendaria, utile solo per i promotori (ma questa è l’opinione personale di chi scrive), credo sia chiaro a tutti (comunque la si pensi) che questa è un’altra storia.


      Michele Passione

      avvocato del Foro di Firenze

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