16 maggio 2021

La Riforma del Processo penale - 6.1 la riforma delle Indagini Preliminari - Le risposte del giudice, Piergiorgio Morosini (*)

Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", pubblichiamo l'intervento del Giudice Piergiorgio Morosini relativo alla sezione "Indagini Preliminari" della riforma.
La nuova rubrica sottopone alcune domande a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).
Su questo tema abbiamo già ospitato il contributo degli amici della Camera Penale Vicentina - CPV,  Avvocati, Rachele Nicolin Dario Lunardon (link).

Il progetto di legge per la “DELEGA AL GOVERNO PER LA MODIFICA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE, DEL CODICE PENALE E DELLA COLLEGATA LEGISLAZIONE SPECIALE E PER LA REVISIONE DEL REGIME SANZIONATORIO DELLE CONTRAVVENZIONI”, è all’esame, in sede referente, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che ha anche svolto numerose audizioni inerenti il testo della riforma.



Una telegrafica premessa dell’autore sulle ragioni della riforma:
Il disegno di legge n.2435 coltiva l’obiettivo di rendere “il processo penale più veloce ed efficiente, assicurando l’efficacia della risposta giudiziaria nel rispetto delle garanzie difensive”, alla luce delle drammatiche lentezze del sistema italiano fotografate plasticamente nelle statistiche pubblicate nell’epigrafe della relazione illustrativa.
La genesi della iniziativa riformatrice intende completare un iter che muove dalla netta riduzione dell’ambito di operatività della prescrizione per via della legge n.3 del 2019. 
In effetti, se quella novità rimanesse un rimedio isolato, senza la “mannaia” della prescrizione su tanti processi d’appello, potremmo registrare un aumento delle pendenze a danno degli imputati, per via dell’ulteriore dilatazione dei giudizi d’impugnazione (in particolare con riferimento ad alcune corti d’appello in cui, da anni, si registra una condizione di sofferenza, secondo i dati del Ministero: Roma, Napoli, Venezia, Torino, Catania) 
Comprensibilmente, quindi, il testo in esame dedica alcune direttive di delega (art.7) all’ampliamento dei casi di inappellabilità delle sentenze sia per il pubblico ministero sia per le parti private, alla composizione monocratica della corte per i reati di minore gravità; alla previsione di casi in cui si procede con rito camerale non partecipato (sul modello del giudizio in cassazione). 
In realtà la proposta in esame coltiva un riequilibrio complessivo tra efficienza dell’accertamento del reato e tutela dell’imputato contro l’irragionevole durata del processo, attraverso l’estrema varietà degli interventi di natura penal-sostanziale, processuale e organizzativo-ordinamentale, alcuni dei quali effettuati attraverso disposizioni di immediata applicazione, altri nella forma di progetti di legge delega.
Così l’iniziativa di riforma, lungi dal riguardare solo il giudizio di appello, è diretta ad incidere su diversi snodi del procedimento penale ed, in particolare, su: indagini preliminari; udienza preliminare; riti alternativi; giudizio dibattimentale; condizioni di procedibilità; informatizzazione del processo, sistema delle notifiche.
Le risposte che di seguito verranno sinteticamente illustrate prendono spunto dall’esperienza maturata nelle funzioni di giudice delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare e del dibattimento. 

1- Ritiene che la riforma dell’art.125 disp.att. avrà un reale effetto deflattivo?
Una prima considerazione appare doverosa.
Con la novità della riformulazione dell’art.125 att. c.p.p., relativo alla richiesta di archiviazione, si mira a rendere più selettiva la regola di giudizio per l’esercizio dell’azione, al fine di evitare inutili esperienze processuali destinate sin dall’inizio ad esiti assolutori (lett.a).
La lett.a) dell’art. 3 fissa come criterio direttivo: “il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari risultano insuffiicienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio. 
In questo senso, la novità si presenta come del tutto speculare alla previsione di modifica dell’art. 425 c.p.p. e non poteva essere altrimenti.
Ebbene, la formula, praticamente identica per la richiesta di archiviazione e per la regola di giudizio dell’udienza preliminare, mantiene una sua vaghezza che, nel consentire ampi margini esegetici, potrebbe trovare le resistenze di un approccio mentale consolidatosi nella nostra esperienza giurisdizionale nell’arco di trent’anni.
Il tema della riformulazione di certe regole di giudizio, da tempo, si ripropone nel dibattito sulle disfunzioni della nostra procedura penale ed è stato già in passato oggetto di interventi riformatori (legge Carotti)[1], che tuttavia non hanno risolto i problemi di fondo.
Da più parti si sostiene che l’interpretazione della regola di giudizio di cui all’art. 425 c.p.p. seguita dai pubblici ministeri e dai giudici dell’udienza preliminare, sarebbe inidonea a produrre un effettivo filtro su richieste azzardate in quanto fondate su compendi probatori ampiamente lacunosi, contradditori o comunque destinati, sin dall’origine, ad inutili vagli dibattimentali.
La tesi sembra confortata dal fatto che la percentuale di rinvii a giudizio si attesterebbe oggi intorno alla cifra del 79 % delle richieste, secondo una recente indagine dell’Eurispes. 
Il Disegno di legge si propone, dunque, di superare la versione “debole” di “utilità del dibattimento”, accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità, che si è spinta ad affermare che, per il rinvio a giudizio, il GUP è chiamato a valutare non tanto la fondatezza dell’accusa, bensì la capacità degli elementi posti a sostegno della richiesta di cui all’art.416 c.p.p., eventualmente integrati ai sensi degli artt.421 bis e 422, di dimostrare la sussistenza di una “minima probabilità” che, all’esito del dibattimento, sia dimostrata la colpevolezza” (cfr. Cass. 24 febbraio 2016, Tali).
In altri termini, il vigente comma 3 dell’art.425 c.p.p. non pare che imponga al g.u.p. il proscioglimento dell’imputato qualora gli elementi acquisiti risultino insufficienti o contraddittori per una futura pronuncia di condanna, se si scorge la possibilità di superare con l’istruttoria dibattimentale il deficit o le antinomie. 
Per questo motivo alla lettera i) dell’art. 3 del disegno di legge si propone di modificare la regola di giudizio di cui all’art.425 comma 3 c.p.p., “al fine di escludere il rinvio a giudizio nei casi in cui gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contradditori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria”.
Vorrebbe così introdursi una versione “forte” di utilità del dibattimento, suscettibile di incidere anche sulle determinazioni del pubblico ministero ai sensi dell’art.125 disp.att., in virtù della modifica di cui all’art.3 lett.a del disegno di legge .
Tuttavia sia consentito nutrire qualche dubbio sulla reale efficacia di una simile riformulazione della regola di giudizio. 
La norma mantiene una sua vaghezza che, nel consentire ampi margini esegetici, potrebbe trovare le resistenze di un approccio mentale consolidatosi nella nostra esperienza giurisdizionale nell’arco di trent’anni. D’altronde, tutte le regole di valutazione delle prove attengono alla cosiddetta “clinica giurisprudenziale”, che, secondo autorevoli processualpenalisti, rappresenta una sorta di “giardino proibito” per il legislatore (l’espressione è di Paolo Ferrua).
Certo la novità potrebbe anche essere interpretata come la promozione di un orientamento secondo cui si passa da regola di giudizio prognostica ad una regola diagnostica. 
In altri termini, i pubblici ministeri e i g.u.p. non sarebbero più tenuti a considerare le possibili evoluzioni del materiale raccolto in sede di indagine nella sede dibattimentale, ma soltanto a valutare in modo statico la serietà del compendio probatorio esistente nel fascicolo delle indagini in merito alla colpevolezza dell’imputato, ordinando il proscioglimento in caso di prova insufficiente o contraddittoria.
Insomma la novità destinata ad incidere sugli artt.125 disp.att. e 425 c.p.p., comporrebbe anche un mutamento dell’approccio del p.m. in prima battuta e del giudice dell’udienza preliminare poi.
L’organo requirente non sarebbe più tenuto soltanto a compiere indagini complete, ma dovrebbe formulare l’imputazione solo se l’accusa appare sostenibile in abbreviato, dove pacificamente si applicano le regole del giudizio di cognizione che risolvono il dubbio in favore dell’imputato [2]. Ciò eviterebbe agli accusatori di continuare a contare sulla possibilità futura di colmare un quadro investigativo incerto.
In questo senso, la novella dell’art.125 disp.att. potrebbe sortire degli effetti deflattivi.
Quanto alla novella speculare dell’art.425 c.p.p., invece, non parrebbe la soluzione più adatta per far fronte alla grave crisi dei tempi della giustizia italiana.
Anche secondo una parte della dottrina, più si restringe il filtro, aumentando le chance di sentenza di non doversi procedere, tanto più si sarà indotti a considerare la fase avanti al Gup come un primo parziale grado di giudizio suppletivo ed anticipato rispetto ai gradi di cognizione piena. 
Di qui il rischio non solo che l’eventuale decreto di rinvio a giudizio venga a esercitare un peso psicologico eccessivo sulla valutazione del giudice dibattimentale, ma soprattutto di un possibile ulteriore allungamento della durata media della udienza preliminare, la quale già oggi secondo gli studi Eurispes ha in media una durata tutt’altro che breve.
D’altronde, è fisiologico che una maggiore incidenza del filtro implichi un maggiore impegno (anche istruttorio) da parte del g.u.p. che corrisponde ad una maggiore durata della fase. 
In virtù di questi riflessi, occorre chiedersi se la novità sia davvero utile anche in chiave di abbattimento dei tempi processuali e di recupero delle risorse.
[Nota 1: Nel vigore del testo originario dell’art.425, la sentenza di non luogo a procedere poteva pronunciarsi solo quando era “evidente” che il fatto non sussisteva o non costituiva reato o che l’imputato non lo aveva commesso, come tale il filtro risultava ancora meno rigoroso di quanto non lo sia stato dopo la riforma della legge. n. 479 del 1999 (legge Carotti).

Nota 2: Si pensi al fascicolo che contiene gli stessi elementi che si sono rivelati inidonei a sostenere un giudizio di gravità indiziaria alla base di una richiesta di applicazione di una misura cautelare]




2- Il disegno di legge rimodula i termini di durata delle indagini preliminari e prevede che, scaduto il termine delle stesse, il p.m., ove non abbia assunto una qualche determinazione entro termini specifici, dovrà procedere ad una discovery delle indagini compiute. Quale è a riguardo il suo giudizio?
Il disegno di legge in esame propone direttive di delega tendenti ad incidere su diversi aspetti dell’operato della magistratura requirente per orientare l’azione delle procure verso obiettivi di maggiore trasparenza, rigore, celerità ed efficienza, anche con riferimento ai tempi di assunzione delle determinazioni dopo la conclusione delle indagini preliminari .
L’intervento riguarda i termini di durata delle indagini preliminari prevedendo una modulazione degli stessi in funzione della differente gravità dei reati (lett.c), nonché l’indicazione di tempi certi, dopo la conclusione delle indagini preliminari, per la manifestazione delle determinazioni del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di archiviazione (lett. e).
La soluzione trova un punto di equilibrio tra esigenze di speditezza, segretezza e adeguatezza delle indagini e diritti di difesa in relazione ai risultati acquisiti all’esito delle indagini, stabilendo opportunamente uno strumento di discovery obbligatoria degli atti di indagine in favore dell’indagato, del suo difensore, nonché della persona offesa, operante nel caso in cui il pm non abbia adottato tempestivamente le suddette determinazioni.
Inoltre, una volta notificato alle parti l’avviso di deposito atti, il rappresentante dell’accusa dovrà presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di trenta giorni, e scatterà nei suoi confronti la responsabilità disciplinare se per negligenza inescusabile violi la disposizione sui tempi di cui alla lett. e (lett.g). 
Si comprende come il “deposito coatto delle investigazioni” voglia evitare situazioni di stallo, da una parte pungolando l’accusa e dall’altra consentendo all’indagato e alla persona offesa di attivarsi per compiere indagini difensive, in una logica di continuità e di completamento rispetto alla regola introdotta dalla riforma Orlando nell’art.407 comma 3 bis (che non aveva prescritto un termine perentorio entro il quale notificare l’avviso conclusione indagini). 
Tuttavia le riserve derivano dalle opzioni in ordine alla tipologia delle sanzioni per il mancato rispetto dei termini. La proposta, infatti, non prevede sanzioni processuali per certe inerzie (invalidità speciali o situazioni di improcedibilità), ma punta su ipotesi di responsabilità disciplinare dei pubblici ministeri (lett.f e g).
Ebbene, nella quasi totalità dei casi, le inerzie dipendono dalle condizioni di carico di lavoro e da deficit strutturali, che non riguardano forme di responsabilità del singolo magistrato. Peraltro già è prevista una responsabilità disciplinare ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett.q del d.lgs n.109 del 2006 per il ritardo nel compimento di atti relativi all’esercizio delle funzioni.
In questo senso, sarebbe più ragionevole l’introduzione di sanzioni processuali collegate ad una inerzia che non trova cause di giustificazione plausibili.

3- La riforma rimette alle singole Procure l’individuazione di criteri di priorità “al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. La giudica una riforma opportuna?
Per garantire l’uniforme ed efficace esercizio dell’azione penale, il disegno di legge dedica una specifica direttiva di delega (art. 3 lett. h) al tema dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali da parte degli uffici del pubblico ministero.
L’opzione in esame riguarda il modo di declinare in concreto il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale con i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
Secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 88 del 1991), “l’obbligatorietà dell’esercizio della azione penale a carico del pubblico ministero è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”. 
E’ noto come quel principio debba misurarsi con la difficoltà di gestione di un elevatissimo e crescente numero di notizie di reato che pervengono agli uffici di procura; col pericolo di favorire, nella prassi, forme incontrollabili di aggiramento dell’obbligo previsto dall’art.112 Cost., attraverso forme di discrezionalità del singolo magistrato nelle scelte di priorità.
In tale prospettiva, è condivisibile l’opzione del disegno di legge in esame, laddove prevede, quale dovere istituzionale del procuratore della Repubblica, la redazione di criteri di priorità, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte di appello e con il presidente del tribunale. E appare, inoltre, opportuno che quei criteri vadano a confluire nel progetto organizzativo, secondo un orientamento apparso da anni nell’ambito del circuito del governo autonomo della magistratura [3].
Sempre in sintonia con i principi costituzionali sopra indicati, la proposta di riforma prevede che la redazione dei criteri di priorità tenga conto delle direttive elaborate dal Consiglio Superiore della Magistratura, nonché delle specificità territoriali e delle risorse, personali e reali, disponibili, così coinvolgendo anche i vari Consigli giudiziari. 
In altri termini si va verso documenti organizzativi che, sulla base di un percorso partecipato e avallato dal Consiglio Superiore della magistratura, suscettibile di coinvolgere nelle scelte di priorità anche componenti non togate, prevedono forme di “tracciabilità” delle regole che le procure si danno nelle scelte sul cosa far progredire e con quali tempi.
Tale strumento costituisce un antidoto alla possibilità di esercizio arbitrario delle prerogative del pubblico ministero e alle “personalizzazioni” dei procuratori della repubblica nella direzione dell’ufficio, ed è funzionale ad una gestione più trasparente degli affari, preziosa per la collettività.
Tuttavia lo stesso strumento non può trasformarsi in una alibi per la definitiva non trattazione di categorie di fatti di reato e come tale va inteso come “soluzione ponte” in un contesto emergenziale, quindi auspicalmente destinato ad essere sostituito da misure strutturali di ben altra portata (es. significative iniziative di depenalizzazione). 
[Nota n. 3: Una prima indicazione venne al CSM nella seconda metà degli anni settanta a proposito del terrorismo cfr. Notiziario CSM, 31 luglio 1977. Successivamente si segnala una circolare sottoscritta dal Presidente della Corte di appello e dal Procuratore Generale di Torino pubblicata in Cass .pen. 1989, p.1373 ss. e una circolare del Procuratore della repubblica presso la pretura di Torino del 1990 in Cass. pen. 1991, p.361 ss. Sul tema più in generale V. ZAGREBELSKY, L’organizzazione del lavoro: esame delle notizie di reato, i flussi di lavoro e le sezioni specializzate, in Quaderni CSM 1995 n.78 p.19 ss. Da ultimo per una ricognizione dei problemi si veda la circolare del CSM sulla organizzazione degli uffici di procura del 16 novembre 2017 in www.csm.it.].


(*) Piergiorgio Morosini,
Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo

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