Da qualche settimana ci stiamo occupando della riforma del processo penale attualmente all'esame della commissione c.d. Cartabia e del Parlamento.
Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e un docente universitario.
Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.
Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.
Proseguiamo oggi con i riti speciali (abbreviato e applicazione della pena), per il quale abbiamo rivolto le nostre domande a Emanuele Cersosimo (giudice), Franco Belvisi (pm), Guido Colaiacovo (avvocato) e Caterina Scaccianoce (docente).
1-Il progetto di legge prevede un nuovo patteggiamento allargato fino ad otto anni di pena, ma escluso per numerosi reati, qual è la sua opinione al riguardo?
La risposta del giudice: Il limitato ricorso al cd. patteggiamento allargato previsto dal vigente articolo 444 comma 1 c.p.p. nella prassi giudiziaria induce a ritenere che un mero innalzamento del limite di pena ad otto anni non comporterebbe quel sostanziale aumento dei procedimenti definiti mediante applicazione concordata della pena che appare essere l’obiettivo principale della riforma. Appare necessario rendere maggiormente “appetibile” il ricorso al patteggiamento prevedendo la possibile applicazione di una pena più mite di quella che comporterebbe la condanna dibattimentale non necessariamente cristallizzata nella misura di 1/3 ma concordata con l’Ufficio del Pubblico Ministero; la pena concordata dovrebbe esser frutto di una reale negoziazione tra le parti ed il Giudice avente ad oggetto la valutazione in concreto della specifica condotta illecita oggetto di giudizio, dei motivi a delinquere, del comportamento procedimentale e della personalità dell’indagato (come avviene nel sentencing bargaining statunitense). Altro strumento che potrebbe aumentare sensibilmente il ricorso al patteggiamento allargato è una modifica legislativa che preveda la detenzione domiciliare con braccialetto elettronico come modalità di espiazione della pena in caso di applicazione concordata della pena, scelta del legislatore che permetterebbe anche una sensibile riduzione del numero dei detenuti in carcere ed un conseguente alleggerimento della pressione sul sistema penitenziario.
La risposta del pm: Favorevole, anche se non ritengo possa trovare significativa applicazione pratica in quanto già l’attuale forma di applicazione pena “allargata” non conosce nella prassi un ricorso degno di nota.
La risposta dell'avvocato: Vorrei partire da una considerazione più generale: siamo dinanzi a un nuovo intervento sul codice di rito, che si colloca a quasi tre anni dalla precedente “Riforma Orlando”. Nel frattempo, altri interventi del legislatore e, soprattutto, della Corte costituzionale e della Suprema Corte hanno inciso profondamente sul sistema processuale. Il risultato è che il codice che usiamo oggi, sottoposto a costanti modifiche, è profondamente diverso non soltanto da quello che è entrato in vigore trenta anni fa, ma anche dalle conformazioni “intermedie” che ha assunto nel corso del tempo. Mi chiedo, allora, se non sia giunto il momento di una riflessione più profonda che sia il preludio di una rinnovazione radicale nell’ambito della quale ristrutturare anche i riti premiali. Detto questo, se, in astratto, non sono contrario alla scelta di innalzare la soglia della pena patteggiabile, credo che su alcuni aspetti siano opportune disposizioni di supporto più efficaci, come, ad esempio, sull’opportunità di escludere talune fattispecie: non è chiaro il criterio di selezione dei reati esclusi da questo patteggiamento “extra”, poichè il progetto accomuna incriminazioni obiettivamente differenti, in punto di gravità, e ne trascura altre che pure destano particolare allarme sociale.
La risposta del docente: Trovo che sia l’ennesimo tentativo del legislatore di rendere maggiormente appetibile il rito del patteggiamento, che, soprattutto nella forma allargata, non ha condotto ai risultati sperati. Tuttavia, la manovra legislativa non mi pare adeguata allo scopo, non avendo fatto leva sul corredo degli incentivi premiali: appare ragionevole presumere che l’imputato preferirà optare per il concorrente giudizio abbreviato. Visti i dati scoraggianti degli ultimi anni, forse, i tempi sono maturi per pensare a un rito ibrido, metà patteggiamento e metà abbreviato, auspicandone un maggiore impatto sul piano della deflazione. Quanto alle preclusioni, già positivizzate a partire dal 2003, è noto che la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla loro legittimità, le ha considerate opzioni non arbitrarie e ragionevoli nell’ottica di riequilibrio rispetto alla scelta di dilatare il perimetro della giustizia negoziata. Far prevalere alle esigenze di economia processuale la necessità di un vaglio completo del fondamento dell’accusa, restituendo al giudice le leve del comando sanzionatorio su materie che destano particolare allarme sociale, lo trovo un compromesso equilibrato, purché i criteri posti a base della individuazione delle fattispecie escluse siano uniformi e rispondano alla medesima ratio. Oggi, come si sa, si tende ad attingere a un catalogo ormai affollato di ipotesi delittuose sempre più variegate ed eterogenee, alle quali si aggiungono le nuove esclusioni proposte dal legislatore.
2-Per il nuovo patteggiamento, stante la sensibile soglia di pena, non è forse necessario prevedere nuovi e più stringenti oneri motivazionali?
La risposta del giudice: La necessità di evitare l’applicazione della severa pena prevista dal progetto di riforma ad imputati innocenti indotti, in momenti di particolare vulnerabilità, a patteggiare la pena dal timore di subire pesanti condanne dibattimentali (fenomeno tristemente noto ai sistemi processuali che prevedono in modo massivo il ricorso al patteggiamento allargato) impone, a mio giudizio, la previsione di maggiori oneri motivazionali rispetto a quelli riscontrabili nella prassi vigente. Appare necessario prevedere un più approfondito scrutinio delle fonti di prova poste a base dell’accusa ed una dettagliata ricostruzione storico-fattuale della vicenda oggetto di giudizio. La motivazione della sentenza, pur non dovendo esser sovrapponibile alla motivazione della sentenza a seguito di giudizio abbreviato, dovrebbe contenere una puntuale ricostruzione dei fatti e della relativa responsabilità del prevenuto che giustifichi il mancato ricorso ad una pronuncia ex art. 129 c.p.p., evitando il ricorso a mere formule di stile.
La risposta del pm: Favorevole, purché ad un tempo concisa e completa (anzi potrebbe costituire un’utile palestra per impostare un modo diverso di redigere le motivazioni sovente inutilmente prolisse).
La risposta dell'avvocato: Sicuramente l’applicazione di pene tanto consistenti in relazione a reati di notevole gravità mal si concilia con la attuale configurazione del patteggiamento che è equiparato, soltanto per alcuni aspetti, alla sentenza di condanna.Sarebbe opportuno introdurre degli ulteriori requisiti che, pur non compromettendo le esigenze di semplificazione, assicurino un accertamento effettivo sulla responsabilità dell’imputato, ma una soluzione simile presuppone un radicale ripensamento della architettura del rito. Senza considerare che, d’altro canto, da una simile ristrutturazione deriverebbe anche la necessità di una riflessione sul tema dei limiti al ricorso per cassazione avverso la sentenza che applica la pena su richiesta, soprattutto qualora si inseriscano particolari requisiti in punto di motivazione. In una prospettiva di radicale ripensamento, mi viene in mente il tentativo compiuto con la stesura originaria della Riforma Orlando che prevedeva l’introduzione di un nuovo istituto - la sentenza di condanna su richiesta dell’imputato - che andava a sostituire per pene più gravi il patteggiamento. Qui l’imputato, dopo aver reso confessione, poteva essere condannato a una pena non superiore a otto anni, risultante dalla applicazione alla pena base dell’effetto premiale riconosciuto per la scelta del rito che poteva variare da un terzo alla metà. L’intento era appunto di sostenere condanne patteggiate per reati di notevole gravità con un accertamento più approfondito, ma è stato espunto dal progetto pressochè immediatamente nel corso dei lavori parlamentari. Nonostante le criticità, il modello potrebbe offrire utili spunti per la disciplina del patteggiamento “extra”.
La risposta del docente: In istituti di giustizia negoziata, come il patteggiamento, si intrecciano diversi temi cruciali, dalla funzione cognitiva del processo alla tensione tra garanzie individuali e speditezza del processo, dalla tutela della vittima alle finalità della pena. L’opportunità di prevedere nuovi e più stringenti oneri motivazionali per il nuovo super-patteggiamento investe la dimensione cognitiva del rito. La motivazione del giudice, infatti, rispecchia i limiti del controllo condotto dal giudice sullo stato degli atti. Ampliare gli oneri motivazionali implicherebbe, in primis, l’irrobustimento della base cognitiva, potenziando il controllo ed estendendolo alla prova della colpevolezza, sì da ricucire il legame che collega quest’ultima alla pena; ed ancora la conseguente possibilità di ricorrere per cassazione per vizio di motivazione, oggi preclusa grazie alla “riforma Orlando”. Sicché, per tale via, si dovrebbe riscrivere, introducendovi un forma, sia pure non piena, di accertamento sulla responsabilità, la struttura del rito, che, al momento, fondato su logiche negoziali, è un procedimento anti-cognitivo, quindi, senza giudizio, nel quale il giudice, pure rivestendo un ruolo tutt’altro che marginale, deve pronunciarsi sull’accordo tra pubblico ministero e imputato sul merito dell’imputazione, dopo avere escluso la possibilità di prosciogliere ai sensi dell’art. 129 c.p.p.; il che non implica alcun controllo positivo sulla fondatezza della ipotesi accusatoria al di là di ogni ragionevole dubbio, bensì un controllo sull’assenza di cause di non punibilità. Elevare a otto anni la soglia di pena richiederebbe, per ragioni di giustizia sostanziale, un controllo più penetrante, quanto meno che impedisca l’applicazione della pena in presenza di un quadro probatorio incerto. Come debba comportarsi il giudice di fronte all’eventuale situazione di incertezza o contraddittorietà della prova è, infatti, una questione a tutt’oggi aperta. Ma può ben sperarsi se si pensa che il parlamento è chiamato ad attuare la Direttiva 2016/343 UE sulla presunzione di innocenza, ove all’art. 6, si precisa come l’onere probatorio circa la colpevolezza di indagati e imputati incomba sulla pubblica accusa, e come ogni dubbio in merito alla colpevolezza sia valutato in favore dell’indagato o imputato, anche quando il giudice valuta se la persona in questione debba essere assolta. Al futuro legislatore, quindi, il compito di estendere l’operatività della regola in dubio pro reo al patteggiamento, stabilendo quale sia, tra il rigetto del pactum e il proscioglimento, la decisione da emettere in presenza di una ipotesi accusatoria incerta o contraddittoria.
3-La riforma tralascia il patteggiamento sulla qualificazione giuridica del fatto, che potrebbe avere efficacia deflattiva, e restituisce una polverizzazione del patteggiamento. Cosa ne pensa?
La risposta del giudice: Il patteggiamento sulla qualificazione giuridica del fatto, strumento fondamentale dal punto di vista deflattivo, non appare compatibile con il vigente principio dell’azione penale obbligatoria, principio posto a garanzia dell’uguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge; nel sistema processuale italiana, a differenza da quello statunitense, non è riconosciuta al Pubblico Ministero la possibilità di selezionare i fatti e gli autori contro cui procedere e di attribuire al fatto commesso una qualificazione giuridica vincolante per il giudice. Parimenti il sistema del patteggiamento sulla qualificazione giuridica non appare compatibile con il ruolo di controllo attivo svolto dal Giudice e finalizzato alla ricerca della verità processuale. Per quanto riguarda la cd. polverizzazione del patteggiamento non si condivide la scelta della proposta di riforma di prevedere diverse discipline a seconda dei titoli di reato contestati dal Pubblico Ministero, il principio costituzionale tutelato dall’art. 3 della Costituzione e l’esigenza deflattiva a base del rito alternativo in esame impone, per essere realmente efficace, una disciplina unitaria dell’istituto che prescinda dalla natura e dall’offensività dei reati commessi.
La risposta del pm: Contrario. Ogni negoziato sulla qualificazione giuridica del fatto si tradurrebbe di fatto in un accordo sull’esercizio o meno della azione penale.
La risposta dell'avvocato: È una dimensione nella quale si avvertono in maniera più evidente i problemi che si sono accumulati a seguito delle cicliche riforme dei singoli settori. Appare quanto mai opportuna una ristrutturazione complessiva dell’istituto che riconduca entro un’unica cornice normativa le varie ipotesi.
La risposta del docente: Patteggiare non solo la pena ma anche i reati risponde a una logica che non collima con molti dei nostri principi costituzionali posti a presidio dell’uguaglianza dei cittadini e dell’indipendenza del pubblico ministero. Sicché è inimmaginabile una riforma in tal senso. Il giudice ha, infatti, il compito di controllare la corretta definizione giuridica del fatto, e, se in base alle risultanze degli atti di indagine non vi ravvisi una corrispondenza, deve rigettare la proposta, a fortiori quando la medesima qualificazione del fatto è oggetto di accordo nei termini di una concordata derubricazione. La scelta del legislatore di non intervenire sul punto effettivamente ci consegna una normativa che prevede modelli di patteggiamento differenti a seconda della fattispecie di reato per cui si procede: oltre ai patteggiamenti c.d. allargato e super allargato, vi sono quelli per così dire condizionati, che si applicano per alcune fattispecie di reato contro la pubblica amministrazione e in materia tributaria, prevedendosi discutibili limiti di accesso al rito: l’ammissibilità è subordinata rispettivamente al risarcimento del danno e al pagamento del debito tributario. Ciò comporta una evidente compressione del diritto di difesa che, peraltro, è stata all’origine di ripetuti interventi correttivi da parte della giurisprudenza, non solo di legittimità, che mostrano un chiaro segnale della necessità di una disciplina quanto più possibile uniforme.
4-Non le pare che la riforma qualifichi il giudizio abbreviato condizionato nel metodo ordinario di accertamento del fatto, prevedendo che l’attuale giudizio di compatibilità non venga più rapportato alle finalità di economia processuale proprie del giudizio abbreviato, ma con i tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale?
La risposta del giudice: La proposta di riforma nel ridefinire il concetto di “economia processuale” necessaria per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria non fa più riferimento alla natura “contratta” del giudizio abbreviato ma “ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale”; tale condivisibile scelta permette al Giudice di valutare in concreto se il richiesto rito alternativo non trasformi il giudizio abbreviato condizionato in un giudizio dibattimentale “mascherato”. Di conseguenza il Giudice dovrebbe respingere la richiesta di giudizio abbreviato condizionato ogniqualvolta il numero e la qualità delle prove richieste dalla parte comporti una dilatazione dei tempi di definizione tale da vanificare la natura deflattiva del rito alternativo, non solo dal punto di vista del numero delle pendenze dibattimentali, ma anche e soprattutto dal punto di vista temporale della durata dei procedimenti.
La risposta del pm: Concordo. Ritengo che la valutazione di ammissione o meno del giudizio abbreviato debba rimanere ancorata agli attuali parametri di valutazione.
La risposta dell'avvocato: Il cambio di prospettiva nell’impostazione della valutazione da compiere per accogliere una richiesta di abbreviato condizionato estenderà senz’altro il campo di applicazione di tale declinazione dell’istituto, rendendolo più appetibile. Sicuramente c’è da notare che il difensore si troverà dinanzi alla necessità di compiere una più accorta e approfondita valutazione ai fini dell’impostazione della strategia processuale poichè il passaggio alla verifica dibattimentale dovrebbe essere una opzione da riservare ai casi in cui sia utile una più incisiva elaborazione del compendio probatorio. Non credo, tuttavia, che l’abbreviato condizionato possa assurgere a modello “alternativo” di accertamento: in primo luogo, perchè probabilmente occuperebbe maggiore spazio a discapito dell’abbreviato “secco” e non del giudizio dibattimentale.In secondo luogo, perchè il passaggio dibattimentale concede margini per un più efficace esercizio dei diritti di difesa.
La risposta del docente: Anche questa modifica può leggersi come l’ennesimo tentativo del legislatore di rimuovere ogni ostacolo, di tipo procedurale, alla celebrazione del rito abbreviato, operando sui criteri di ammissibilità della forma condizionata, quindi, sui margini di discrezionalità del giudice. Si propone quindi che questi debba verificare la compatibilità dell’integrazione probatoria non più con le finalità di economia processuale proprie del rito ma con i tempi di svolgimento del dibattimento, fermo restando il presupposto della necessità ai fini della decisione: l’integrazione, infatti, deve aggiungere volume alla prova e non sostituire gli elementi di prova già esistenti. Lo scopo, dunque, è quello di allargare le maglie, sebbene potrebbe obiettarsi come il giudice più idoneo a compiere il predetto vaglio sembri essere il giudice del dibattimento, il quale è senz’altro più interessato a celebrare il rito semplificato, diversamente dal giudice dell’udienza preliminare, che potrà sempre contare sulla più comoda alternativa decisoria del rinvio a giudizio. Il rischio, per contro, è di rendere sempre meno semplificato il rito. Ad ogni modo, sono dell’opinione che per potenziare il giudizio abbreviato si dovrebbe insistere, ma con più coraggio, sulla leva sanzionatoria, aumentando e diversificando la premialità per classi di reato, inclusi quelli puniti con l’ergastolo.