Con la pronuncia che si annota il CNF torna su uno dei canoni fondamentali della professione di avvocato: l’indipendenza (da intendersi sia da sia per l’assistito).
Invero, affinché possa dirsi rispettato il canone deontologico posto dall’art. 24 cdf (già art. 37 codice previgente) non solo deve essere chiara la terzietà dell’avvocato, ma è altresì necessario che in alcun modo possano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato – e quindi anche la sola apparenza del conflitto – per il significato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla collettività, alla luce dell’id quod plerumque accidit, sulla scorta di un giudizio convenzionale parametrato sul comportamento dell’uomo medio, avuto riguardo a tutte le circostanze e peculiarità del caso concreto, tra cui la natura del precedente e successivo incarico.
Si annota in sentenza che “sul tema del conflitto di interessi, ... il rapporto tra l’avvocato e il suo assistito deve essere sempre basato sulla fiducia e che l’avvocato deve evitare di trovarsi in conflitto di interessi anche solo potenziale con il suo cliente
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