09 maggio 2021

La Riforma del processo penale - 5. La riforma dell'appello: tutte le risposte

Da qualche settimana ci stiamo occupando della riforma del processo penale attualmente all'esame della commissione c.d. Cartabia e del Parlamento.

Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e un docente universitario.

Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.

Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.

Iniziamo oggi con l'appello, per il quale abbiamo rivolto le nostre domande a Massimo Corleo (giudice), Emanuele Ravaglioli (pm), Andrea Lazzoni (avvocato) e Annalisa Mangiaracina (docente).





1- La previsione dello specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza di condanna, rischia di diventare un inutile orpello deflattivo che limiterà il diritto di difesa degli imputati assistiti d’ufficio e/o irreperibili di fatto?

La risposta del giudice: Credo che si tratti di una modifica di non eccessiva rilevanza. Nella normalità, i rapporti tra difensore ed imputato continuano ad essere attivi anche dopo l’emissione della sentenza di primo grado e non reputo che i limitati casi in cui tale nuova regola avrà rilievo, possano costituire la chiave di volta per alleggerire l’insopportabile peso delle impugnazioni per le Corti d’Appello; né ritengo che tale regola procedurale, così come prefigurata, possa contribuire, anche indirettamente, allo scopo. 
In ogni caso, sul piano concettuale, che l’imputato esprima una inequivocabile volontà di proseguire nella linea difensiva, e di sopportare anche gli eventuali ulteriori costi del processo, mi sembra in linea di massima condivisibile.
Quanto alle evidenti conseguenze negative che potrebbero configurarsi per gli imputati irreperibili, si potrebbero prevedere singoli casi in cui stabilire una eccezione alla regola generale. 
Devo, tuttavia, segnalare una mia personale convinzione: dobbiamo tornare ad una generale responsabilizzazione del cittadino in tutti i settori della vita pubblica. Chi è a conoscenza di essere sottoposto a processo, soprattutto se non gravato da vincoli cautelari, deve essere chiamato a fornire un contributo di leale collaborazione all’attività giudiziale, quanto meno sotto il profilo dell’interesse alle proprie sorti processuali e non concordo sull’attività sempre e comunque vicariante dello Stato. 
Di tal che, fermo restando il diritto a restare in stato di assenza nel corso delle attività dibattimentali o, comunque, del giudizio, l’imputato, una volta conosciuto l’esito del giudizio di primo grado, deve essere chiamato alla decisione in ordine alla eventuale prosecuzione del processo; e, qualora se ne disinteressi, non credo possa essere compito del suo difensore tecnico sostituirsi al proprio assistito in tale personalissima decisione.

La risposta del pm: E’ evidente che l’intenzione deflattiva della riforma non può in alcun modo andare a scapito delle garanzie difensive dell’imputato.
Tuttavia non ritengo che la riforma proposta limiti il diritto di difesa: la delega infatti non preclude l’impugnazione ma richiede semplicemente un mandato difensivo conferito successivamente alla pronuncia della sentenza.
Siamo certi che un mandato difensivo conferito magari all’inizio della attività di indagine e articolato in modo tale da coprire tutti i successivi ed eventuali gradi di giudizio (come spesso accade attualmente) garantisca maggiormente i diritti difensivi dell’imputato? O non è forse più vero che l’imputato sarebbe maggiormente garantito nei propri diritti se dopo la sentenza di primo grado avesse piena contezza dell’esito del giudizio a suo carico e solo allora decidesse – conferendo mandato difensivo ad hoc – se impugnare la sentenza.
Per quanto attiene agli imputati assistiti d’ufficio ritengo che i termini della questione non cambino. 
A chiunque è garantita una difesa tecnica (art. 24 Cost.) e pertanto lo Stato assicura l’assistenza di un difensore di ufficio (la cui nomina peraltro non dipende dal reddito dell’imputato, che dovrà comunque farsi carico delle spettanze economiche del difensore). Essere difesi da un avvocato d’ufficio non significa non avere rapporti con il proprio legale. Decidere di difendersi impugnando la sentenza di primo grado è una decisione che spetta solo ed esclusivamente all’imputato. Come l’imputato che ha nominato un difensore di fiducia, così l’imputato che si è visto nominare un difensore di ufficio si vedrà allo stesso modo tutelato nelle proprie garanzie difensive decidendo al termine del giudizio di primo grado se impugnare o meno la sentenza. 
In questo caso ovviamente non sarà previsto un mandato difensivo vero e proprio (che di fatto si tradurrebbe in una nomina come difensore di fiducia) ma ritengo che saranno previsti degli accorgimenti formali affinchè anche l’imputato difeso di ufficio possa decidere se impugnare la sentenza sempre avvalendosi di un difensore di ufficio.
La questione relativa all’irreperibile “di fatto” mi sembra, invece, un falso problema. Per il “vero” irreperibile è prevista la sospensione del processo ai sensi dell’art. 420quater cpp. L’irreperibile “di fatto” è invece colui che avendo conoscenza del procedimento penale a suo carico (art. 420bis cpp), sostanzialmente se ne disinteressa fino a far perdere ogni traccia di sè. Certamente non si può parlare di limiti al diritto di difesa se un soggetto, a cui sono state messe a disposizione tutte le garanzie difensive, decida di disinteressarsi dell’esito del processo di primo grado e quindi non conferisca uno specifico mandato per l’impugnazione.

La risposta dell'avvocato: La domanda è posta in termini suggestivi ma il punto è proprio quello: per risolvere il vero o presunto problema degli appelli “defatigatori” proposti dai difensori di soggetti irreperibili di fatto, si incide pesantemente su un istituto di garanzia quale l'autonoma facoltà d'impugnazione del difensore. Il quale, invece, merita di essere salvaguardato per una serie di buone ragioni che partono dall'impossibilità di calibrare l'ampiezza del diritto di difesa in base alla meritevolezza processuale dell'imputato, passano per la necessità di garantire comunque una decisione “giusta” e pervengono alla considerazione, solo apparentemente ovvia, che la facoltà d'impugnazione deve comunque essere garantita anche al difensore dell'imputato latitante.

La risposta del docente: La norma che prevede lo specifico mandato ad impugnare dopo la sentenza di condanna non appare condivisibile per due ordini di ragioni: da un lato, sul versante del diritto di difesa; dall’altro, sul piano della deflazione. Dal punto di vista della difesa – al di là di considerazioni legate alla continuità dell’esercizio del munus difensivo – ad essere penalizzati saranno gli imputati che siano assistititi da un difensore d’ufficio: le difficoltà nella comunicazione potrebbero impedire al difensore l’impugnazione e, di conseguenza, determinare il passaggio in giudicato della sentenza. Secondo la Relazione al d.d.l. l’obiettivo è quello di “evitare l’inutile celebrazione di procedimenti nei confronti di imputati incolpevolmente ignari del processo penale”. Tuttavia, l’imputato che sia stato condannato potrebbe poi accedere al rimedio straordinario della rescissione del giudicato ex art. 629 bis c.p.p., per incolpevole mancata conoscenza del processo. In questo modo si tradirebbe l’effetto deflattivo apparentemente perseguito dal testo del d.d.l.: tanto più che la competenza a decidere sulla rescissione del giudicato è, a far data dalla riforma “Orlando” del 2017, proprio della Corte di appello. 

2- La previsione del giudice monocratico di appello per i casi di citazione diretta a giudizio riduce la collegialità. Considera quest’ultima un valore? e la previsione avrà autentica efficacia sui tempi di celebrazione del processo, considerato che in primo grado, da quando la riforma “monocratica” è in vigore non si sono avute ricadute sui tempi di celebrazione del processo?

La risposta del giudice:  Anche in questo caso, si tratta di un pannicello caldo. 
Ho svolto, per la gran parte della mia carriera, funzioni monocratiche, sia da Pretore, che, soprattutto, da GIP.
Conosco, dunque, pregi e limiti delle funzioni monocratiche.
Tra i pregi, non c’è certamente quello della maggior celerità del processo, in senso assoluto.
Forse, in alcuni casi, in quegli uffici giudiziari in cui i collegi sono mutevoli per frequenti cambiamenti dei giudici che li compongono, le funzioni monocratiche possono portare a qualche rinvio in meno; ma si tratta di vantaggi eventuali e, comunque, di dettaglio.
La maggiore agilità del giudizio monocratico, paga pegno di fronte alla mancanza di confronto tipica del Collegio, che, non di rado, porta ad una maggiore ponderazione della decisione. E ciò vale anche e soprattutto in appello, dove, al di là di ciò che si può superficialmente ritenere, proprio il sistema devolutivo e la maggiore rigidità decisionale che caratterizza l’operato del giudice di secondo grado, esalta la figura del dialogo intercollegiale, anche alla luce delle recenti innovazioni giurisprudenziali sulla motivazione rafforzata, che deve sorreggere la riforma da verdetto assolutorio in giudizio di condanna, o della interpretazione dell’art. 603 comma 3° bis cpp in ordine alla necessità di procedere ad una nuova assunzione delle prove dichiarative, nel caso di appello del PM o della Parte Civile.

La risposta del pm: La previsione della competenza della Corte di Appello in composizione monocratica per i procedimenti a citazione diretta rappresenta certamente uno strumento in grado di ridurre i tempi del processo di appello. E’ vero che la collegialità è un valore, ma può sicuramente essere riservata nel giudizio di appello ai soli casi non previsti dall’art. 550 cpp, senza che per questo si possa dubitare della autorevolezza del giudicato monocratico in appello. Sono convinto che una riforma in tal senso avrebbe positive ripercussioni sui tempi del processo d’appello, soprattutto se collegata alla nuova disciplina introdotta per il giudizio d’appello in epoca pandemica (trattazione scritta in camera di consiglio come regola, e trattazione orale come eccezione).

La risposta dell'avvocato: La collegialità è certamente un valore che merita di essere salvaguardato proprio nei casi in cui la decisione di primo grado provenga da un giudice monocratico. Che, poi, la realtà quotidiana ci consegni una collegialità più di forma che di sostanza non è valida ragione per rassegnarci ad una qualità inferiore del processo decisionale. Oltretutto, la storia e l'esperienza insegnano che la disponibilità di qualche magistrato in più raramente ha inciso sui tempi dei processi che sono condizionati da numerosi altri fattori, in primo luogo di natura logistica.

La risposta del docente: La previsione che intende attribuire alla Corte di appello in composizione monocratica la “competenza” nei procedimenti a citazione diretta ex art. 550 c.p.p. non è in alcun modo condivisibile. La collegialità è un valore e la sua perdita in secondo grado, a fronte di provvedimenti relativi anche a fattispecie di reato di una certa complessità, rischia di incidere anche sul piano dell’imparzialità del decidente. Il confronto dialettico che si schiude nella camera di consiglio rappresenta il miglior antidoto alla “prevenzione”. Ancorché il giudice relatore sia colui che meglio conosce il fascicolo processuale, l’apertura al dialogo con gli altri colleghi può schiudere prospettive non esplorate, consentendo una maggiore ponderazione della decisione finale. Peraltro, la soppressione della collegialità non apporterebbe alcun vantaggio sul versante dell’efficienza processuale. Anzi, richiederebbe la disponibilità di un maggior numero di magistrati e, conseguentemente, di personale di cancelleria (nonché di aule!)

3- Le riforme progettate mirano, da un lato, a rendere più razionale l’invio telematico degli atti di impugnazione e recano in corollario l’eliminazione della regola del deposito fuori sede, dall'altro, mirano a razionalizzare le modalità di celebrazione del giudizio di appello c.d. cartolare pandemico, in quest'ultimo caso rimettendo la scelta opzionale alla espressa richiesta dell’imputato e del suo difensore. Qual è il suo parere?

La risposta del giudice:  Francamente non sono in grado di intervenire significativamente in ordine alla proposta di riforma sui sistemi telematici di invio degli atti di appello, trattandosi di normativa che riguarda più da vicino l’attività delle parti e quelle di cancelleria.
Sono fermamente convinto, invece, che l’eventuale riforma in senso cartolare del giudizio di appello, sia pure in casi disciplinati, possa essere un interessante esperimento di deflazione delle udienze.
Baso questa mia riflessione sulla esperienza personale, dalla quale ho potuto rilevare come, anche prima delle norme emergenziali dovute alla pandemia, il contraddittorio in ben più del 50% dei processi di appello, sia stato niente più che un vuoto simulacro.
Dovere celebrare udienze con venti processi, per sentire in dodici o tredici di questi il PG dire “chiedo il rigetto” e il difensore “insisto nell’atto di appello”, significa volere ipocritamente tacere sul fatto che si tratta di giudizi cartolari travestiti.
E, allora, meglio uscire dalla ipocrisia e disciplinare un vero e proprio giudizio a contraddittorio scritto, che consenta, così come avviene sulla base delle norme emergenziali, di decidere fuori udienza, sentite le parti nella forma cartolare, sì da riservare il contraddittorio orale a quei processi che lo meritano e per i quali le parti abbiano fatto apposita richiesta.
Ciò proprio nell’interesse di quei processi che implicano un maggiore studio nella fase dell’impugnazione e necessitano di un effettivo contraddittorio, o, magari, della riapertura dell’istruzione dibattimentale, da svolgersi davanti al giudice di appello.
Spero, sia pure nella sintesi imposta, di essere stato esaustivo nella risposta ai quesiti posti.

La risposta del pm: Il processo penale deve necessariamente diventare sempre più telematico e la possibilità di depositare l’atto di impugnazione con modalità telematiche ne è la logica conseguenza. La digitalizzazione in sede penale è un processo ormai necessario per velocizzare i tempi della giustizia e assolutamente irreversibile.

La risposta dell'avvocato: I nuovi mezzi tecnologici dovrebbero rappresentare un ausilio e non il pretesto per perseguire scopi deflattivi mediante l'introduzione di vere e proprie “trappole telematiche”, come è invece accaduto con le recenti normative “pandemiche”. Se il sistema fosse snello ed efficiente, ad esempio prevedendo la semplice regola che l'invio a mezzo pec di un atto d'impugnazione equivale all'invio a mezzo raccomandata di quel medesimo atto, il suo effettivo utilizzo aumenterebbe esponenzialmente e parimenti diminuirebbe il ricorso al deposito fuori sede da parte dei difensori. Ad oggi l'abrogazione degli articoli 582 comma 2 e 583 c.p.p. È assolutamente inaccettabile, anche perché esiste e deve essere salvaguardato l'autonomo diritto d'impugnazione delle parti private (che tra l'altro potrebbero non disporre di una casella pec). 
Non sono, invece, sfavorevole alla possibilità del rito camerale non partecipato su richiesta dell'imputato o del suo difensore, in specie nei casi indicati nelle linee di riforma (e con esclusione, per quanto detto sopra, dell'appello monocratico). Alla fine, sarebbe assai più seria questa scelta che non partecipare ad un'udienza per “riportarsi” ai motivi di appello come sempre più accade.

La risposta del docente: Come emerge dalla Relazione annuale del Primo Presidente della Corte di Cassazione sull’amministrazione della giustizia, uno dei nodi del giudizio di appello è costituito dai c.d. “tempi di attraversamento”, legati al passaggio del fascicolo processuale dal primo al secondo grado di giudizio. Se così è, va favorita – in un’ottica di speditezza – la presentazione dell’atto di impugnazione da parte del difensore mediante la PEC; rimane però fuori l’imputato che continuerebbe a presentare l’atto di appello in forma cartacea. Sotto il profilo dell’utilizzo della PEC per il deposito anche degli atti di impugnazione, la normativa “pandemica” ha consentito di fare un passo in avanti. Questo, però, non basta. Occorre lavorare sul fascicolo telematico, consultabile da tutte le parti processuali. Rispetto invece al modello di appello cartolare “salvo richiesta di discussione orale”, introdotto dal d.l. ristori bis, il giudizio non è positivo. In una prospettiva di snellimento effettivo del giudizio di appello – tema che richiederebbe considerazioni ben più approfondite – mi sembra maggiormente percorribile la strada inversa: mantenere l’oralità in appello, rimettendo alle parti la possibilità di chiedere la trattazione scritta. In questo senso, le lettere g) ed h) dell’art. 7, comma 1, del d.d.l. intendono introdurre un rito camerale non partecipato, su istanza, qualora ne facciano richiesta l’imputato e il suo difensore nei procedimenti di impugnazione innanzi alla Corte d’appello in composizione monocratica (evenienza, come detto, da escludere) o, ancora, nei casi in cui si proceda in camera di consiglio ex art. 599 c.p.p., sempre che non debba procedersi alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale: questo modello camerale non partecipato su richiesta potrebbe estendersi al di là dei casi individuati nel testo governativo.




Il testo della legge delega sull'appello:

Art. 7.

(Appello)

1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di appello, per le parti di seguito indicate, sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

   a) prevedere che il difensore possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato a impugnare, rilasciato successivamente alla pronunzia della sentenza medesima;

   b) modificare le modalità di presentazione dell'impugnazione e di spedizione dell'atto di impugnazione, con l'abrogazione dell'articolo 582, comma 2, e dell'articolo 583 del codice di procedura penale e la previsione della possibilità di deposito dell'atto di impugnazione con modalità telematiche;

   c) prevedere l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, salvo che per i delitti di cui agli articoli 590, secondo e terzo comma, 590-sexies e 604-bis, primo comma, del codice penale;

   d) prevedere l'inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità;

   e) prevedere l'inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere nei casi di cui alla lettera c);

   f) prevedere la competenza della corte di appello in composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta di cui all'articolo 550 del codice di procedura penale;

   g) prevedere la forma del rito camerale non partecipato nei procedimenti di impugnazione innanzi alla corte d'appello in composizione monocratica, qualora ne facciano richiesta l'imputato o il suo difensore e non vi sia la necessità di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale;

   h) prevedere la forma del rito camerale non partecipato, qualora ne facciano richiesta l'imputato o il suo difensore e sempre che non sia necessaria la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nei casi in cui si procede con udienza in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 599 del codice di procedura penale




Art. 15.

(Misure straordinarie per la definizione dell'arretrato penale presso le corti d'appello)

1. Al   decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, della legge 9 agosto 2013, n. 98, sono apportate le seguenti modificazioni:

   a) all'articolo 62, comma 1, dopo le parole: «definizione dei procedimenti» sono inserite le seguenti: «penali e» e dopo le parole: «Corti di appello» sono inserite le seguenti: «ai sensi dell'articolo 132-bis, comma 2, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, ovvero»;

   b) all'articolo 63, comma 1, la parola: «trecentocinquanta» è sostituita dalla seguente: «ottocentocinquanta».

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