Tribunale di Marsala, sentenza n. 262 del 30 marzo 2021 (link)
L’art. 595 c.p. punisce colui che, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione: si tratta di una fattispecie che, a differenza del depenalizzato reato di ingiuria, richiede che l’espressione sia resa in assenza della persona offesa e sia percepita da una pluralità di soggetti.
Il bene giuridico tutelato da tale ipotesi delittuosa è l’onore nella sua proiezione esterna.
Infatti, il diritto all’onore è ricondotto per condivisibile giurisprudenza costituzionale nel novero dei diritti fondamentali di cui all’art. 2 Cost.: presenta una sua proiezione interna, intesa quale considerazione che ognuno ha di sé, ed una esterna, da intendersi quale rappresentazione che si fornisce agli altri di sé o, in altri termini, la reputazione.
Sotto tale profilo, pertanto, il delitto di diffamazione punisce chi lede l’onore della persona offesa, diminuendo la considerazione che terzi hanno della stessa.
La condotta in questione risulta aggravata nel caso in cui alla persona offesa venga attribuito un fatto determinato e, ancora, nel caso in cui la diffamazione venga realizzata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Tale ultima modalità, infatti, è astrattamente compatibile con la diffusione dell’offesa ad un numero indeterminato ed indeterminabile di persone e, quindi, comporta un maggiore allarme sociale: per costante giurisprudenza viene ricondotta in tale paradigma anche la diffamazione realizzata tramite social network, ritenuta una piazza virtuale che permette la diffusività propria di un “mezzo di pubblicità”.
La tutela del diritto all’onore, tuttavia, deve confrontarsi con la garanzia di altri diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta costituzionale, determinando la necessità di un bilanciamento volto a determinare la convivenza degli stessi, senza che sia ammissibile un totale sacrificio di alcuni in favore di altri.
Così, una copiosa produzione giurisprudenziale ha cercato di tracciare l’equilibrio tra il diritto all’onore e i contrapposti diritti di critica, di cronaca e di satira, che trovano un addentellato normativo nell’art. 21 Cost.
Con particolare riferimento al diritto di critica, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’indicare i requisiti che la propalazione deve possedere per ritenersi una legittima espressione del diritto di critica, non trasmodante in una gratuita offesa dell’altrui onore: la continenza dei termini; la connessione con la finalità di disapprovazione espressa, senza che, quindi, vi sia una gratuita aggressione fine a sé stessa; la verità dei fatti oggetto di critica, laddove gli stessi siano posti a fondamento della critica.
Relativamente al requisito della continenza formale, poi, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che, “In tema di diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato. (Fattispecie in cui la Corte non ha ritenuto esorbitante dai limiti della critica legittima l'accusa di "assoluta incapacità ad organizzare il reparto" rivolta al direttore di un Pronto Soccorso da un consigliere del comitato consultivo di un'Azienda Ospedaliera che, nell'esercizio delle proprie funzioni di controllo dell'attività e dell'organizzazione aziendale, evidenziava reali disservizi organizzativi e sollecitava i dovuti controlli).” (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 17243 del 19.02.2020).
Per completezza espositiva, occorre rilevare che anche la satira è legittima in presenza di un nucleo di verità e di espressioni che non trasmodino in una gratuita offesa fine a sé stessa e non esuberino il canone della continenza: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, sussiste l'esimente del diritto di critica, quando le espressioni utilizzate, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, consistano in un'argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolve in un'aggressione gratuita alla sfera morale altrui.” (Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 5695 del 05.11.2014).