Nonostante l’esito
dell’incidente di legittimità, il tema proposto e i rilievi contenuti nella
sentenza meritano attenzione.
Val la pena
ricostruire brevemente il caso scrutinato dal Tribunale di Torre Annunziata.
All’esito
dell’istruzione dibattimentale, il Giudice campano invitava le parti a
instaurare il contraddittorio in ordine ad un’eventuale riqualificazione
giuridica del fatto contestato sub art. 612-bis cpv. c.p., in quello di cui
all’art. 572 c.p..
Invero dalla
lettura della sentenza della Corte, si coglie che il Tribunale riteneva che il requisito della convivenza, ex art. 572, possa ricorrere anche ove si riscontri soltanto
un <<contesto affettivo
protetto, caratterizzato come tale da legami affettivi forti e stabili, tali da
rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti
sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua
proseguire», pur prescindendosi
da una convivenza comunemente intesa.
A sostegno di tale
interpretazione il Giudice a quo invocava numerosa giurisprudenza di
legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9
maggio 2019, n. 19922; sezione seconda penale, sentenza 23 gennaio-8 marzo
2019, n. 10222; sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n.
31121; sezione quinta penale, sentenza 17 marzo-30 giugno 2010, n. 24688; sezione
terza penale, sentenza 3 luglio-3 ottobre 1997, n. 8953; sezione sesta penale,
sentenza 18 dicembre 1970-20 febbraio 1971, n. 1587)
A fronte
dell’invito formulato dal Tribunale, l’imputato, per
il tramite del difensore, chiedeva la
restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2,
cod. proc. pen., in modo da essere rimesso in termini per formulare richiesta
di rito abbreviato; in subordine, ove il fatto fosse ritenuto il medesimo di
quello già oggetto di contestazione, instava di
essere comunque giudicato nelle forme del rito abbreviato.
Il Giudice, ritenendo il fatto storico identico a quello
contestato, rilevava che l’art. 521 nella sua
attuale formulazione non consentiva al prevenuto di essere ammesso al rito
alternativo e tuttavia elevava a sospetto di legittimità costituzionale la disposizione
codicistica.
In particolare il remittente adduceva la violazione degli artt. 24 e
111 Cost., nonché dell’art. 3 della Legge fondamentale.
Riguardo ai primi
due parametri costituzionali, il Giudice a quo rilevava che:
-
a seguito della
modifica in iure dell’imputazione, la difesa potrebbe constatare di
avere minori spazi di contraddittorio rispetto a quelli prospettatisi
allorquando aveva, sulla scorta della contestazione, operato la scelta del
rito;
-
la diversa
qualificazione prospettata dal giudice potrebbe in concreto determinare «uno
stravolgimento nella risposta sanzionatoria», fattore idoneo a condizionare
in maniera determinante la scelta del rito;
-
non avrebbe alcun
pregio l’obiezione secondo cui la regressione del processo, ormai giunto al suo
esito, frustrerebbe le esigenze deflattive sottese ai riti alternativi. E ciò
non soltanto perché un simile effetto si produce, proprio in conseguenza di
alcuni precedenti della Corte costituzionale, anche nelle ipotesi in cui la
restituzione del termine per accedere al rito speciale consegue a mutamenti
fattuali dell’imputazione, ma soprattutto perché la logica deflattiva propria
del rito abbreviato è subvalente rispetto alla tutela della pienezza del diritto
di difesa e del rispetto del principio di eguaglianza;
-
parimenti infondato
è il rilievo secondo cui la modifica della veste giuridica dell’imputazione
costituirebbe un rischio del dibattimento, che l’imputato si addossa allorché
opti per il rito ordinario. Di tale rilievo infatti hanno già fatto giustizia
le sentenze della Corte che, in caso di mutamento della contestazione, hanno
riconosciuto, dapprima con riferimento alle contestazioni cosiddette
“patologiche” e poi anche nelle ipotesi di contestazioni “fisiologiche”, la
possibilità di acceso ai riti alternativi. Ed anzi per il Tribunale campano la
riqualificazione giuridica si porrebbe alla stregua della contestazione
“patologica”, giacché si tratterebbe della correzione di un «errore di
selezione della veste giuridica addebitabile all’accusa», che non potrebbe
come tale «risolversi in un nocumento delle prerogative proprie del diritto
di difesa».
Con specifico riguardo alla violazione del
principio di uguaglianza, il rimettente lamentava che:
-
l’attuale
formulazione dell’art. 521 dà luogo ad un’ingiustificata disparità di
trattamento tra l’imputato destinatario sin dal principio di una contestazione
qualificata correttamente in diritto e il prevenuto “vittima” dell’errore del
pubblico ministero;
-
la disparità di
trattamento è resa ancora più acuta nei casi in cui il Giudice, nel procedere
alla riqualificazione giuridica del fatto, debba restituire gli atti all’organo
dell’accusa per un nuovo esercizio dell’azione penale. Si pensi alle ipotesi in
cui il reato riqualificato appartenga alla competenza di un giudice superiore o
sia attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale. In
tali evenienze infatti si consentirebbe all’imputato di optare per un rito
alternativo;
-
la violazione
dell’art. 3 Cost. potrebbe apprezzarsi anche lì dove il mutamento in iure
della contestazione dovesse conseguire
ad una iniziativa dell’organo dell’accusa, poiché in tal caso al prevenuto
sarebbe restituita la facoltà di accesso ai riti speciali.
La Corte costituzionale, per come supra rilevato, ha dichiarato la
questione inammissibile, censurando i presupposti
della riqualificazione giuridica operata dal Tribunale.
Infatti il Giudice delle leggi ha rilevato non
soltanto che l’arresto di legittimità invocato dal Tribunale non è univoco, ma
soprattutto che l’”interpretazione
estensiva” della nozione di convivenza, operata dal Giudice circondariale,
celi, seppur con intenti del tutto
apprezzabili, un’operazione analogica, che consente di considerare convivenza, invero da intendersi alla stregua
dell’ordinario significato di questa espressione, <<un rapporto affettivo
dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non
continuative di un partner nell’abitazione dell’altro …>>.
Al riguardo
la Corte ha rammentato che <<il divieto di analogia non
consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad
alcuno dei suoi possibili significati LETTERALI>>, rimarcando che <<è il testo della legge
– non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che
deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze
sanzionatorie delle proprie condotte; sicché NON E’ TOLLERABILE che la sanzione
possa colpirlo per fatti che il LINGUAGGIO COMUNE non consente di ricondurre al
significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore>>.
Il Giudice delle leggi non ha neppure risparmiato
di ricordare che il divieto di analogia <<costituisce un ovvio pendant dell’imperativo
costituzionale, rivolto al legislatore, di formulare norme concettualmente precise
sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini
impiegati>>.
Sia consentito chiudere con una nota di un pratico
del diritto: si è assistito ad un
dialogo garantista.
La Corte costituzionale ha richiamato principi ovvi
sui manuali di diritto penale, ma non davanti ad “un diritto
giurisprudenziale totipotente”, secondo la fortunata espressione di Massimo
Donini, e ad una legislazione spesso mal congegnata; il Tribunale, dal canto
suo, ci ha ricordato che lo statuto delle garanzie, a fronte di imputazioni
errate, è ancora da completare.