27 gennaio 2023

Associazione mafiosa tra divieto di analogia, concorso di persone e giurisprudenza della Corte EDU - di Mariangela Miceli (*)



Sommario: Premessa; 1. Il divieto di analogia; 2. Il concorso di persone : "una nuova tipicità" 3. La Corte EDU;4. Decisione delle Sezioni unite Genco; 5. Principio di legalità: concorso esterno in associazione mafiosa e cd. reato di “creazione giurisprudenziale” – esclusione della portata generale dei principi affermati dalla sentenza corte edu 14 aprile 2015, contrada contro italia; 5. Conclusioni. 


Premessa: 

Il presente elaborato si occuperà di dare una disamina del delitto di associazione esterna di stampo mafioso, partendo dall’analisi del principio di divieto di analogia, al concorso di persone fino ad arrivare all’analisi del delitto in esame da parte della Corte EDU. Principi, questi essenziali, per poter dare una disamina completa della creazione giurisprudenziale del delitto di associazione esterna di stampo mafioso. 


  1. Il divieto di analogia 

Il precetto penale nella sua funzione di norma comando ha come scopo primario quello di tutelare il diritto del privato alla prevedibilità delle conseguenze penali di una condotta contraria all’ordinamento. 

Un procedimento analogico è adeguatamente sviluppato nei suoi requisiti minimi, qualora l’interprete argomenti sia sulle somiglianze che sulle differenze tra classi di casi raffrontate. Pertanto, un giudizio di prevalenza delle somiglianze si concluderà per l’irrilevanza delle differenze e di conseguenza, potrà attribuirsi il medesimo trattamento giuridico alle fattispecie in esame. Così, un giudizio di prevalenza delle differenze ne negherà il medesimo trattamento giuridico delle classi coinvolte (Velluzzi). 

Per procedere ad un giudizio di rilevanza è necessario far riferimento alla ratio legis, quale perno dell’analogia giuridica. 

In tal senso, il secondo comma, dell’art. 12 disp. pr., rinvia ai “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. I principi ai quali si fa riferimento sono sia quelli espressi che inespressi e che si inseriscono nel più ampio ambito dei principi di diritto. In particolare, i principi ai quali fa riferimento l’art. 12 sono i principi inespressi, diversamente, questi potrebbero essere applicati direttamente, come qualsiasi disposizione dell’ordinamento.  Tali principi, di conseguenza, nell’ottica dell’interpretazione analogica della disposizione operano come strumenti per colmare le lacune eventualmente rilevate dall’interprete. Questi essendo generalissimi e a fattispecie aperte, permettono l’interpretazione analogica, consentendo l’individuazione della ratio. 

In tale ottica, il legislatore ha posto dei limiti all’analogia in diritto penale. Tale divieto  non è espressamente codificato né dal codice penale né dal codice di procedura penale ma è ricavabile dalla lettura dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, il quale dispone che l’“Applicazione delle leggi penali ed eccezionali. Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. 

Una logica giuridica costituzionalmente orientata esige che il divieto di analogia trovi le sua fondamenta nell’art. 25, comma 2, cost., sotto i due duplici principi dell’irretroattività della norma penale e del principio di tassatività dei reati e delle pene.

Diversamente, l’argomento analogico essendo ‘produttivo’ di diritto, in caso di lacune dell’ordinamento, permetterebbe all’interprete di creare norme inespresse che siano, allo stesso tempo, nuove e retroattive.


Quanto fin ora esposto ha consentito di illustrare la regola generale da applicare in tema di analogia in diritto penale. Le disposizioni preliminari al codice civile, dispongono all’art. 14 che le “Leggi penale e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre ai casi ei tempi in esse considerati”.

In ambito giuridico si ritiene che, la disposizione in commento miri a vietare l’analogia in diritto penale e lo specifico utilizzo di norme eccezionali per creare attraverso l’interpretazione analogica di nuove, al fine di colmare le eventuali lacune dell’ordinamento.

L’argomento analogico (o a simili), come ha avuto modo rilevare autorevole dottrina può essere utilizzato sia per motivare una interpretazione estensiva sia una interpretazione analogica. La norma di cui all’art. 14 disp.pr. non fa alcun espresso riferimento al divieto di analogica, posto che, lo stesso  ricavabile anche dalla lettera dell’art. 1 del codice penale, il quale prevedendo che “ nessuno può essere punito per un fatto che non sia previsto come reato, né con pene che non siano da essa stabilite” ha sancito il principio di stretta interpretazione in diritto penale (Guastini).

Pertanto, si può ricavare che tutto ciò che non è rinvenibile come reato, sia lecito. 

Le norme alle quali l’art. 14 disp. prel. si riferisce sono espressamente le norme eccezionali, mentre esulano dal divieto le cause di giustificazione, le quali – come si vedrà successivamente – essendo norme che fanno capo ai generali principi dell’ordinamento possono essere oggetto di applicazione analogica, fatto salvo i casi tassativamente esclusi dalla legge.

Mentre ricadono all’interno del divieto le norme che prevedono circostanze attenuanti essendo oggetto di una specifica volontà del legislatore di attribuire loro una precisa funzione di politica criminale a ben individuate situazione e solo a quelle. 

Secondo l’opinione prevalente la disposizione di cui all’art. 14 disp. prel. vieta di addurre ad altre norme per crearne di nuove, facendo leva sul fondamento della somiglianza tra le fattispecie espresse e quelle non previste. In altre parole, in ossequio al principio di legalità e di tassatività della norma penale, non solo non è possibile applicare l’argomento analogico alle norme generali  - se non in bonam partem e nei limiti che saranno successivamente specificati -  ma non è applicabile anche a tutte quelle norma caratterizzate dall’eccezionalità nella loro formulazione.

Tale divieto appare in linea con quanto disposto dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione, all’interno del quale non solo è possibile rintracciare il principio di riserva di legge ma è anche possibile ricavare come corollario, il principio di prevedibilità del fatto di reato.

Tale divieto trova un’ulteriore ratio, all’interno del secondo comma, dell’art. 12 delle preleggi, il quale se da un permette l’argomento analogico, dall’altro questo può essere sviluppato adeguatamente, soltanto se si argomenta sia intorno alle somiglianze che alle differenze della fattispecie astratta considerata delle classi di casi presi in considerazione.


2. Il concorso di persone : "una nuova tipicità"

In materia di concorso di persone, il codice penale segue un modello unitario indifferenziato che rimette alla causalità concreta, e non allo stereotipo astratto, la selezione dei contributi rilevanti. Il fondamento dell'incriminazione non risiede allora nell'accessorietà dell'apporto periferico rispetto al fatto autoriale completo di base, ma nell'integrazione di una condotta che alimenti, in termini causali e soggettivi, l’autonoma “fattispecie plurisoggettiva eventuale" partorita dall'amplesso tra l'articolo 110 cp e le singole norme di parte speciale. Come necessario in un sistema imperniato sulla legalità formale e sul "tipo restrittivo d'autore", le norme sul concorso di persone assolvono così alla formidabile funzione “estensiva” di incriminare contributi che sarebbero atipici in base alle singole disposizioni sui reati monosoggettivi o necessariamente plurisoggettivi.

I tifosi della "portata penalizzante massima" dell'articolo 110 valorizzano l’esigenza politica di colpire più severamente la rincarata pericolosità insita nella fusione, con effetti moltiplicatori, delle potenzialità criminose dei singoli. 

La lettura più forte della portata della "nuova tipicità " concorsuale reputa allora che la "legge concorsuale" incrimini:

a) gli apporti atomisticamente atipici a reati a esecuzione frazionata (o congiunta);

b) i contributi di compartecipazione atipici, anche solo agevolativi, sul versante materiale o morale (per gli apporti ideologici si parla di "atipicità estrema");

c) le condotte atipiche integranti un tentativo di reato (l'articolo 110 è una forma generale di manifestazione del reato che può ibridarsi con l'altra figura universale di cui all'articolo 56);

d) le condotte atipiche relative a delitti  colposi, con particolare riguardo all'agevolazione morale o materiale della fattispecie colposa tipica: l'articolo 113 è, infatti, norma non solo di disciplina ma anche incriminatrice, capace di partorire obblighi cautelari secondari e di estendere  le condotte integranti reati colposi causalmente orientati (incriminando  apporti agevolativi non strettamente necessari), di mera condotta  (artt. 438-452), a condotta vincolata (artt. 442-452, comma 2), propri e omissivi  (colpendo, in quest'ultima ipotesi, comportamenti posti in essere da soggetti che non siano titolari di   posizioni di garanzia);

e) apporti con dolo generico a reato permeato dall'altrui dolo specifico; 

f) condotte atipiche di partecipazione colposa a reato doloso e viceversa (in base a una lettura elastica secondo cui la "medesimezza" del reato, ex art. 110, si riferisce al piano oggettivo dell'unicità dell'evento non a quello soggettivo del coefficiente psicologico; vedi, epraltro, sul cocnrso colposo nel reato doloso Cass. IV, 7032/2018); 

g) i "concorsi unilaterali", caratterizzati dalla presenza del "dolo concorsuale" o della "colpa di concorso" in capo a un solo concorrente (la suddetta essenza oggettiva dell'unità concorsuale fa sì che la "volontà o consapevolezza di concorrere" non deve animare tutti i concorrenti, essendo sufficiente, oltre che necessaria, la sussistenza del collante psicologico in capo anche a uno solo dei protagonisti);

h) le condotte atipiche di un soggetto che cooperi con altro non colpevole, non imputabile o non punibile (sono, infatti, da computare come concorrenti, anche se non sono sanzionabili come tali, tutti coloro che assumono la paternità in senso oggettivo del fatto plurisoggettivo tipico);

i) le condotte, anche atipiche, di strumentalizzazione dell'azione altrui incolpevole, anche oltre le figure di "autore mediato " tipizzate dalla legge (si pensi ad “autorie mediate" eccentriche rispetto all'articolo 48 cp, in quanto, ad esempio, non caratterizzate dalla produzione di un inganno ma dallo sfruttamento di un errore preesistente in cui, anche nei reati propri, versa l'autore immediato); 

l) le condotte atipiche di supporto al reato omissivo altrui (proprio o improprio, in questo secondo caso anche in assenza di una posizione di garanzia ex articolo 40, capoverso);

m) le condotte di concorso omissivo nel reato attivo altrui, in presenza di un obbligo di prevenzione o impedimento; 

n) le condotte atipiche poste in essere dell'extraneus che funga da autore o coautore nei reati propri non esclusivi a fronte di un intraneus compartecipe o istigatore;

o) le condotte dell'extraneus-autore mediato che sfrutti l'apporto materiale dell'intraneus inconsapevole, non imputabile o, comunque, non punibile;

p) le condotte atipiche (per assenza di elemento soggettivo) che integrano reati, naturalisticamente o giuridicamente, diversi da quelli voluti, rispettivamente nei casi di cui agli articoli 116 e 117 del codice penale; sul concorso dell’ extraneus  nel reato di esercizio arbitrario dxelle proprie ragioni con violeza alle persone, vedi Cass., sez. unite 29541/2020=

q) le condotte atipiche (o tipiche, ma non punite, nel controverso caso di concorrente necessario non sottoposto a pena nei reati plurisoggettivi impropri) di concorso ai reati necessariamente plurisoggettivi (vedi la violenza sessuale di gruppo), con precipuo riguardo al concorso esterno  nel reato di associazione di stampo mafioso, ove la condotta non integri la partecipazione piena ma non si limiti neanche al patto di scambio ex art. 416 ter o alle speciali forme di assistenza-agevolazione previste da norme specifiche incriminatrici o aggravanti (artt. 418, 378, comma 2, e art. 7 d. l. 152/1991).

La stessa Corte di Cassazione ha evidenziato che: “L’elemento che distingue il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso è occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati, con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo Nel reato associativo, invece, l’accordo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti”.



3. La Corte EDU 

La Corte EDU Contrada contro Italia nel 2015 ha ritenuto il deficit di base legale e la violazione dell’art. 7 CEDU in relazione alla condanna pronunciata ai danni del ricorrente Contrada per il reato di «concorso esterno in associazione di tipo mafioso», in quanto lo stesso sarebbe stato il «risultato di un’evoluzione della giurisprudenza successiva all’epoca dei fatti di causa» (commessi tra il 1979 e 1988); dunque, «tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali sull’esistenza di tale reato, il ricorrente non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti che gli erano ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava le sue condotte; la Corte afferma con chiarezza la portata garantistica del principio di prevedibilità declinato dall’art. 7 quale «elemento essenziale dello stato di diritto», mai derogabile.



4. Principio di legalità: concorso esterno in associazione mafiosa e cd. reato di “creazione giurisprudenziale” – esclusione della portata generale dei principi affermati dalla sentenza Corte EDU 14 aprile 2015, contrada contro Italia


Il Supremo Consesso a SS.UU. si è espresso in materia di concorso esterno in associazione mafiosa e cd. reato di “creazione giurisprudenziale” e sull’ esclusione della portata generale dei principi affermati dalla sentenza corte EDU 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, affermando che: “In tema di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, i principi enunciati dalla sentenza della Corte EDU, sez. IV, 14 aprile 2015 n. 66655/13, non si estendono a coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione, non abbiano proposto ricorso in sede europea, in quanto la richiamata decisione del giudice sovranazionale non è una sentenza pilota e non può neppure ritenersi espressione di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea”.

Ad avviso delle Sezioni Unite, non può convenirsi con la tesi difensiva, come recepita dalla Sezione rimettente.

Il ricorrente non può invocare in proprio favore l’applicazione diretta dell’art. 46 della CEDU, per il quale “gli Stati contraenti sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte”, non essendo stato parte del giudizio al cui esito è stata pronunciata la sentenza Contrada. S’impone quindi la verifica circa la sussistenza delle condizioni che legittimino l’attribuzione alla stessa decisione dell’idoneità all’applicazione generalizzata degli affermati principi e la riferibilità della violazione dell’art. 7 CEDU a tutti i casi di condanna già irrevocabile per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, consumato in epoca antecedente al febbraio 1994.

La soluzione risiede nella considerazione della natura della violazione della norma convenzionale riscontrata e dei rimedi per la sua eliminazione.

È opportuno premettere che nel sistema convenzionale l’espansione degli effetti di una decisione della Corte EDU ad altri casi non oggetto di specifica disamina rinviene una base normativa nell’art. 61 del regolamento CEDU, per il quale, ove venga rilevata una violazione strutturale dell’ordinamento statale, causa della proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, è possibile adottare una sentenza “pilota”, che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al decisum della sentenza stessa con eventuale rinvio dell’esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell’adozione dei rimedi indicati.

Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perchè, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all’esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione. La nozione di sentenza a portata generale trova fondamento positivo nel predetto art. 61, comma 9 (…).

Se ne trae conferma dalla giurisprudenza della Corte EDU che, sin dalla sentenza della Grande Camera del 13/07/2000 nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, ha affermato il principio, poi più volte ribadito, per il quale “quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie” aventi contenuto ripristinatorio, ossia quegli interventi specificamente suggeriti dalla Corte Europea, oppure individuati in via autonoma dallo Stato condannato, purché idonei ad eliminare il pregiudizio subito dal ricorrente, che deve essere posto, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non si fosse verificata l’inosservanza delle norme della Convenzione (in termini Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Georgia). Ulteriori significative indicazioni provengono in tal senso anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, impegnatasi più volte nel definire i rapporti tra giudice Europeo e giudice interno nell’attività di interpretazione della legge nel rispetto della gerarchia delle fonti di produzione normativa, ha assegnato valore vincolante e fondante l’obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla statuizione contenuta in sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l’ha originata, “tenda ad assumere un valore generale e di principio” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015). A fronte di tali presupposti, allo Stato convenuto ed al suo giudice non è consentito negare di dar corso alla decisione adottata dalla Corte di Strasburgo e di eliminare la violazione patita dal cittadino mediante i rimedi apprestati dall’ordinamento interno. Qualora, invece, non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall’attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una “funzione interpretativa eminente” sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli secondo quanto previsto dall’art. 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte Cost., sent. nn. 348 e 349 del 2007).

Gli approdi, definitivamente acquisiti, della giurisprudenza costituzionale mostrano lo sforzo compiuto per conciliare autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione con la Corte Europea, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso e riceva effettiva attuazione. Si è affermato che il giudice comune, nell’interpretare la disposizione del proprio ordinamento interno deve recepire i contenuti della “giurisprudenza Europea consolidatasi sulla norma conferente” e, qualora, facendo ricorso a tutti gli strumenti di ermeneutica praticabili, la ravvisi in contrasto con i precetti della Carta costituzionale, non potendo disapplicarla, deve investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalità della norma stessa in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, spettando poi a quest’ultimo pronunciarsi in adesione alla giurisprudenza Europea, se uniforme e consolidata, salvo che in via eccezionale non ne riconosca la difformità dalla Costituzione. In questa residuale ipotesi, il giudice delle leggi non può sostituirsi alla Corte EDU nell’interpretare le disposizioni della Convenzione, pena l’usurpazione di prerogative altrui in violazione dell’impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale, ma deve operare un giudizio di bilanciamento, finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione ad un diritto costituzionalmente garantito. Nel diverso caso, in cui il giudice interno ravvisi l’incompatibilità tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente Europeo e la Costituzione, in assenza di un “diritto consolidato” il relativo dubbio è sufficiente per negarvi i potenziali contenuti assegnabili secondo la giurisprudenza sovranazionale e per operarne l’interpretazione costituzionalmente orientata, – doverosa e prioritaria rispetto a qualsiasi altra possibile –, che esclude la necessità di sollevare incidente di costituzionalità (Corte Cost., sent. n. 113 del 2011; sent. n. 311 del 2009).

La Corte costituzionale, consapevole delle difficoltà per il singolo interprete di riconoscere nel contesto della giurisprudenza Europea sui diritti fondamentali un orientamento contrassegnato da adeguato consolidamento, ha individuato i seguenti criteri negativi da impiegare a tal fine: “la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza Europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice Europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano” (sent. n. 49/2015). La ricorrenza di tutti o di alcuni di tali indici svincola il giudice comune dal dovere di osservanza della linea interpretativa adottata dalla Corte EDU nella risoluzione della singola fattispecie concreta.



4. Decisione delle Sezioni unite Genco

Le Sezioni Unite escludono la portata erga alios della sentenza della Corte europea Contrada c. Italia:

– negando che si tratti di una “sentenza pilota” dal momento che si basa sull’esame dell’accusa in concreto formulata e sulla connessa prevedibilità di tale contestazione per l’imputato,

nonché sull’andamento del processo in relazione alle deduzioni difensive svolte, risolvendosi

così un accertamento di responsabilità a carattere (unicamente) individuale e senza neppure distinguere a quale comma dell’art. 7 CEDU si riferisse la censura mossa all’Italia;

– escludendo che sia espressione di una “giurisprudenza consolidata” e rimarcando quindi la centralità di tale paradigma della “giurisprudenza consolidata”: negli ultimi anni il «diritto consolidato» è stato costantemente utilizzato dalla Consulta quale criterio selettivo degli obblighi di adeguamento per il giudice interno: «la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un approdo giurisprudenziale «stabile» (C. Cost. 120 del 2018) o un diritto «consolidato» (C. Cost. 49 del 2015);

– ed escludendo la portata oggettiva del difetto di prevedibilità del concorso esterno in associazione mafiosa.



5. Conclusioni

Ne discende che, ad avviso delle Sezioni Unite, la statuizione adottata nei confronti del ricorrente Contrada dalla Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori dello specifico caso risolto e non consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per avere commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della predetta sentenza, e che non abbiano adito la Corte Europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole. Plurimi profili di criticità, non considerati nell’ordinanza di rimessione e nemmeno nelle pur articolate prospettazioni difensive, inducono a ritenere che l’applicazione del concetto di prevedibilità, contenuto nella sentenza Contrada, non sia esportabile nei riguardi di altri soggetti già condannati irrevocabilmente per la stessa fattispecie e nello specifico del ricorrente nemmeno ai fini di un’interpretazione convenzionalmente orientata del principio di legalità, che possa condurre al positivo apprezzamento della sua istanza di revisione della condanna.



Mariangela Miceli
: Avvocato del Foro di Trapani, cultore della materia in diritto processuale penale presso l'Università di Palermo e consulente giuridico per il Fondo FEASR presso l'Assessorato dell'agricoltura, dello sviluppo rurale e della pesca mediterranea della Regione siciliana.


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