09 gennaio 2023

Uno straordinario Paolo Ferrua, Professore Emerito di Procedura Penale, sulla Riforma Cartabia: affinità elettiva e visioni comuni


Daniele Livreri ha coinvolto Paolo Ferrua con una serie di domande sulla Riforma Cartabia.

Le risposte, che potete leggere in questo contributo del Professore, segnano il "confine" tra la chiarezza intellettuale e scientifica di Ferrua e l'improvvisazione della normativa Cartabia.

Personalmente ci colgo anche molte affinità elettive dal punto di vista politico giudiziario: condivido, e l'ho fatto in Consiglio delle Camere Penali, l'idea del Professore che il processo diventerà sempre più indagini e cautelari centrico, dunque inquisitorio, anche se in modo per così dire soft; analogamente per la regola di giudizio - immutata -  dell'udienza preliminare, col rischio d'ipoteca per il presunto innocente.

Siamo grati a Paolo Ferrua della sua amicizia alla nostra Camera Penale e al blog Foro e Giurisprudenza e siamo onorati di ospitarne il pensiero illuminato. 
In un'epoca medievale per la procedura penale, non ci pare poco.
(Marco Siragusa)








Caro Professore, è entrata in vigore la c.d. Riforma Cartabia. Prima di valutarne alcuni specifici aspetti, qual è il tuo giudizio complessivo? 

Il giudizio è nettamente negativo per la parte processuale. La riforma prosegue l’opera di allontanamento dal modello accusatorio. Pone al centro del processo l’indagine preliminare, perseguendo una politica di ‘garantismo inquisitorio’ che si esprime con la moltiplicazione dei formalismi e delle finestre giurisdizionali; di qui una sequenza di micro-procedure con distinzioni spesso oziose o inafferrabili, il cui effetto è di spostare l’asse del processo verso l’indagine preliminare: la prospettiva del dibattimento si allontana, cresce il rischio di irripetibilità delle dichiarazioni già raccolte e si incrementa il ricorso alle misure cautelari. Nel modello accusatorio, l’indagine preliminare dovrebbe essere fluida e poco formalizzata, dato che la vera garanzia per l’accusato sta nella irrilevanza probatoria delle dichiarazioni e degli accertamenti svolti in quella fase: il rapido passaggio al dibattimento è il necessario presupposto sia per un uso ristretto delle misure cautelari sia per conservare la memoria dei testimoni.
Vale qui una regola troppo spesso dimenticata, anche per la resistenza del mondo forense ad accettarla: ogni garanzia non essenziale, id est ogni pseudo-garanzia introdotta nella fase preliminare si ripercuote negativamente sulla tempestività e sull’autonomia del dibattimento. Esiste, inoltre, un circolo vizioso, una piena solidarietà tra ipertrofia dell’indagine preliminare e abuso della custodia cautelare. Il mezzo più efficace per spezzare questo circolo perverso resta la celere instaurazione del dibattimento. Gli interventi del giudice in fase preliminare dovrebbero essenzialmente limitarsi ai provvedimenti cautelari e alle prove irripetibili.


Viene precisata la nozione di notizia di reato e si introducono dei meccanismi di controllo sulla stasi del procedimento. Si tratta di disposizioni inutili se non controproducenti, che rischiano di favorire iscrizioni e indagini a modello 45? Oppure le nuove norme consentiranno di iscrivere sin da subito esclusivamente accadimenti di un qualche rilievo penale, favorendone il rapido definirsi?

 

Il risultato dell’accentuato formalismo negli stadi prodromici al giudizio è decisamente scarso sul piano difensivo o, per lo meno, non compensa la protrazione dei tempi processuali e la perdita di autonomia dell’istruzione dibattimentale. Il controllo del gip sulla tempestiva iscrizione della notizia di reato riesce in gran parte vano, essendo la retrodatazione subordinata alla difficile prova che il ritardo sia ‘inequivocabile’ e ‘non giustificato’ (art. 335-quater comma 2 c.p.p.). L’intricato complesso dei termini, previsti dagli artt. 407-bis, 409, 415-bis-ter c.p.p. per le determinazioni del pubblico ministero e per le decisioni del giudice, risulta di carattere puramente ordinatorio, non essendo accompagnato da alcuna sanzione processuale o di inutilizzabilità.

Gli stessi termini previsti a pena di inutilizzabilità per la durata massima delle indagini non assumono di fatto grande rilevanza, essendo sempre possibile al pubblico ministero, che opti per l’archiviazione, promuovere la riapertura delle indagini motivandola con l’esigenza di nuove investigazioni. Servirebbe almeno alleggerire il sistema delle proroghe dei termini di indagine, che riesce tanto laborioso quanto inutile: è, infatti, assai improbabile che il giudice rifiuti al pubblico ministero il permesso di proseguire le indagini, espropriandolo di un potere che nel sistema accusatorio appartiene alla sfera di azione riservata all’organo inquirente. Basterebbe autorizzare il pubblico ministero a disporre direttamente la proroga con un decreto motivato, sindacabile su richiesta di parte dal giudice per le indagini preliminari.

In compenso, nonostante l’eccesso di formalismi e di controlli, resta un caso in cui le garanzie si rivelano carenti. Alludo ai primi accertamenti e rilievi sulla scena del crimine, eseguiti quando è ancora impossibile individuare l’ipotetico autore del reato, ma al tempo stesso inevitabilmente destinati ad influire sulla decisione di merito. Qui sarebbe importante assicurare la presenza obbligatoria di un difensore dell’ignoto, chiamato a vigilare sul tempestivo e corretto svolgimento di ogni attività di indagine.

 


Dall’art. 408 sembra ricavarsi, a contrario, che l’esercizio dell’azione penale sia subordinato alla sussistenza di una ragionevole previsione di condannamentre il Giudice dell’udienza preliminare e quello dell’udienza pre-dibattimentale dovrebbero far proseguire il processo soltanto se condividessero tale prognosi: si alzano le garanzie o si viola la presunzione di innocenza a carico dell’imputato?

 

La riforma ‘Cartabia’ modifica i presupposti per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, da adottare «quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna»(art. 425): frase senza dubbio iperbolica, da intendersi come ragionevole previsione di una ‘probabile condanna’. 

Tuttavia, contrariamente a quanto si afferma, non muta affatto la regola di giudizio che resta tale e quale. La regola di giudizio è la regola che, per ogni alternativa decisoria, consente di identificare il provvedimento da adottare in caso di incertezza. Nell’udienza preliminare il provvedimento da adottare, nel dubbio, è il rinvio a giudizio, per la semplice ragione che la legge continua, come in passato, a fissare i presupposti per la sentenza di non luogo (che è il c.d. termine ‘marcato’) e non per il rinvio a giudizio (che è il c.d. termine ‘consequenziale’); con la conseguenza che dovrà essere disposto il rinvio a giudizio ogni qualvolta non siano pienamente provati i presupposti per la pronuncia del non luogo. Tra un provvedimento motivato (la sentenza di non luogo) ed uno immotivato (il rinvio a giudizio), vi sarà sempre la tendenza a scegliere il secondo per ovvie ragioni di economia.

A questo punto, sarebbe preferibile o sopprimere l’udienza preliminare, che le regole del processo accusatorio non prevedono come necessaria, o ammetterla solo a richiesta della difesa. Si invertirebbe così il rapporto tra regola ed eccezione che oggi si pone tra udienza preliminare e giudizio immediato. La difesa sarebbe posta di fronte alla responsabilità se accettare o no il rischio del pregiudizio che inevitabilmente deriva da una verifica positiva sul fondamento dell’accusa; e, prevedibilmente, si assisterebbe con notevole vantaggio per i tempi processuali, ad una significativa riduzione dell’ambito operativo di un istituto, come l’udienza preliminare, non essenziale alla logica del modello accusatorio. 

Non credo che in tal modo si incoraggerebbero eccessi nell’esercizio dell’azione penale. Oggi la responsabilità del rinvio a giudizio è divisa tra pubblico ministero e giudice dell’udienza preliminare, il che la rende piuttosto debole: di due e di nessuno, al tempo stesso. In assenza dell’udienza preliminare, il rinvio a giudizio sarebbe di piena responsabilità del pubblico ministero e l’eventuale assoluzione segnerebbe la sua diretta ed esclusiva sconfitta. Tutto lascia prevedere che, prima di disporlo, rifletterebbe attentamente sulla probabilità di ottenere una condanna.

 


La riforma della riassunzione della prova a seguito del mutamento del Giudice consente di superare l’approdo delle SS.UU. Bajrami?

 

Solo parzialmente. Anzitutto, il diritto al rinnovo della prova dichiarativa dinanzi al nuovo giudice viene meno quando il precedente esame sia stato documentato integralmente con mezzi di riproduzione audiovisiva (art. 495 c.p.p.); e non è chiaro se, in tal caso, la difesa abbia diritto ad ottenere nel dibattimento la riproduzione integrale del mezzo audiovisivoInoltre, l’espressione ‘il giudice’ apre la via a interpretazioni riduttive, tese a limitare il diritto al rinnovo della prova al solo caso in cui il mutamento coinvolga l’intero collegio giudicante e non soltanto il singolo componente del collegio.

 


Giudizi di impugnazione: la Riforma c.d. Cartabia sembra recepire, con qualche adattamento, l’impostazione di fondo del progetto Bonafede. Ma la pubblicità del processo penale, e quindi l’oralità dello stesso, non costituiscono valori essenziali dell’ordinamento democratico?

 

Non v’è dubbio che lo siano, anche se in appello l’oralità non implica necessariamente la rinnovazione delle prove già assunte in primo grado, se non in casi specificamente disciplinati. Resta il fatto che la deroga al regime della pubblicità, derivante dallo svolgimento dell’appello in camera di consiglio, appare poco giustificata se si tiene conto che la pubblicità non è riducibile al solo interesse delle parti, ma coinvolge il fondamentale valore della trasparenza della giustizia, che riguarda ogni cittadino.

Spiace, inoltre, che non sia stato soppresso l’appello del pubblico ministero, come suggerito da due ragioni. A rimediare ad eventuali errori nell’assoluzione appare più che sufficiente il ricorso in cassazione: non riusciamo ad immaginare un solo caso in cui un’assoluzione gravemente ingiusta non possa trovare adeguato rimedio attraverso il ricorso in cassazione. Inoltre, la soppressione dell’appello del pubblico ministero consentirebbe di risolvere la grave anomalia di una condanna inflitta per la prima volta in secondo grado, come riforma dell’assoluzione: qui l’imputato subisce un grave pregiudizio, potendo esperire contro la condanna solo il ricorso in cassazione, del tutto inadeguato a garantire quel diritto al ‘riesame’ che l’art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici assicura ad ogni condannato. 

 


A margine del travagliato iter parlamentare della riforma è stato approvato un odg con cui si impegna il Governo a «predisporre, con una rivisitazione organica, il ripristino della disciplina della prescrizione sostanziale». A tuo avviso è auspicabile reintrodurre la prescrizione anche nei giudizi di impugnazione e se sì, saresti favorevole a un modello di estinzione del reato come quello della Riforma c.d. Orlando?

 

L’introduzione della improcedibilità nei giudizi di impugnazione è stato un grave errore, lesivo di fondamentali principi costituzionali, a partire dall’art. 112 Cost. Per effetto della improcedibilità - nonostante l’azione penale sia stata validamente esercitata - il processo si estingue, svanisce con una sentenza che lascia in vita l’ipotetico reato, senza pronunciarsi sul dovere di punire; prove, eventuali condanne e risarcimento del danno, tutto si dissolve allo scadere dei termini di durata massima previsti per le singole fasi. 

L’evaporazione del processo, a reato non estinto e in presenza di un’azione validamente promossa, costituisce, a fronte dell’art. 112 Cost., un’anomalia senza precedenti, una fantasmagorica figura, in-classificabile nel senso letterale della parola, perché contiene in sé due opposti, fra loro inconciliabili: l’estinzione del processo e la permanenza dell’ipotetico reato, non avendo avuto risposta l’azione penale. Che un processo si concluda perché il reato è estinto – come accade nella prescrizione sostanziale o nell’amnistia - si spiega perfettamente, mancando la materia stessa dell’imputazione; che svanisca in presenza di un’accusa da accertare nel suo fondamento, contraddice la coerenza del sistema

Il ritorno alla prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato è, prima ancora che opportunonecessario; e, a differenza di quanto previsto in precedenza, i termini di prescrizione devono decorrere indipendentemente dall’essere l’imputato nel corso del processo assolto o condannato.  


Paolo Ferrua

Professore emerito di procedura penale 

nell'Università di Torino

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