Per la III sezione penale della Corte di legittimità
<<il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale "non decisione", non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l'effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti (Sez. U. n. 22533 del 25/10/2018, dep. il 22/05/2019, Salerno Francesco, Rv. 275376)>>.
In altri termini la ricorribilità per la violazione di un dovere di ufficio dipende dalla previa sollecitazione di quel potere da parte dell'interessato. E' evidente la problematicità di una tale soluzione in caso di riforma di una sentenza assolutoria.
La Corte ha poi statuito che <<in relazione al reato previsto dall'art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, può procedersi alla confisca del danaro, trovato in possesso dell'imputato, SOLO quando ricorrono le condizioni generali previste dall'art. 240 cod. pen., ossia in presenza di un nesso di pertinenzialità fra questo e l'attività illecita contestata tale da consentirne la riconducibilità alla nozione di profitto o di prodotto o di bene strumentale alla commissione del reato, e non ai sensi dell'art. 12 sexies del D.L. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992>>.
All'uopo sovviene l'art. 85 bis d.P.R. 309/1990, il quale prevede testualmente che "nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall'articolo 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, si applica l'articolo 240-bis del codice penale".( sentenza n. 3262/2023 al link)