27 aprile 2022

Questione Bajrami: la soluzione del Tribunale di Ragusa. Da Dasgupta e Patalano a Bajrami: la modifica della composizione di un collegio giudicante non comporta nullità della sentenza. Stravolto il senso dell’art. 525 c.p.p. - di Michele Sbezzi (*)

 


Ci eravamo già occupati dell'eccezione c.d. Bajrami, divulgando il documento della Camera Penale di Trapani (al link).

Diamo adesso notizia di una questione che su quella falsariga è stata eccepita ed è stata accolta dal Tribunale di Ragusa. A seguire pubblichiamo il commento dell'Avvocato Michele Sbezzi.

___________

Da Dasgupta e Patalano a Bajrami: la modifica della composizione di un collegio giudicante non comporta nullità della sentenza. Stravolto il senso dell’art. 525 c.p.p.

Resta però inopportuno che alla decisione finale partecipi chi non ha avuto contatto diretto con le fonti di prova.

Ordinanza del Tribunale di Ragusa nel proc. penale 1509/18 RGNR. Udienza dell’1.4.22

Di Michele Sbezzi (*)

Com’è noto, il codice di rito penale impone, purtroppo ormai solo formalmente, il rispetto della immediatezza della deliberazione, pretendendo tanto che non vi sia soluzione di continuità tra conclusione del dibattimento e redazione della sentenza, quanto imponendo che quest’ultima sia redatta esclusivamente dai giudici che hanno partecipato al dibattimento.

La ratio che anima il duplice principio in esame sembra del tutto evidente:

1) appena terminato il dibattimento, il giudice ha un ricordo più fresco della massa di dati da utilizzare e delle sottolineature offerte dalle parti; non rischia di perdere gli uni e le altre se evita di impegnarsi in altri dibattimenti, nei quali andrebbe a incamerare altri dati e altre sottolineature tra cui dovrà discernere ciò che gli serve per decidere un processo da ciò che gli serve per l’altro;

2) la sentenza è frutto dell’istruttoria dibattimentale; è quindi logico che a redigerla sia chiamato solo chi a quell’istruttoria ha partecipato, traendone sensazioni e convincimenti che non possono derivargli dalla semplice e arida lettura di verbali, peraltro spesso zeppi di errori, di frasi sconclusionate, di parole incomprensibili.

Entrambi tali principii dovrebbero apparire irrinunciabili perché di grande civiltà giuridica, espressione di massimo rispetto della presunzione di innocenza che va superata solo quando nessun dubbio ragionevole residui a contrastare il convincimento di colpevolezza.

Eppure, entrambi tali principii sono stati sostanzialmente superati, se non cancellati, da una giurisprudenza certamente autorevole (per la caratura di chi la esprime) che ha mirato e mira, però, più alla miglior organizzazione del lavoro che alla qualità delle decisioni.

E’ esperienza giornaliera di ogni Avvocato che il giudice si ritiri in camera di consiglio per deliberare, tutte insieme, le decisioni incamerate nel corso della giornata di udienza. Così come esperienza comune, illogica e contraria alla lettera dell’art. 525 c.p.p., è ormai l’interpretazione secondo cui la sentenza può ben essere redatta anche da chi al dibattimento non ha partecipato affatto. La nullità assoluta che dovrebbe presidiare la norma viene bellamente superata da una pretesa di ragionevolezza della durata del processo che, però, stravolge tanto il senso della stessa ragionevolezza quanto l’evidente differenza che c’è tra ascoltare la deposizione di un teste e leggerne il resoconto stenografico. Ma tant’è …

Come si arrivati a tutto ciò?

La soluzione di continuità tra dibattimento e redazione della sentenza discende direttamente da un’esigenza, sentita però solo dai giudici, di ottimizzazione dei tempi dell’udienza: andare in camera di consiglio solo una volta, al termine di tutte le attività, sembra garantire un minor tempo di permanenza e, forse, una più breve durata della giornata di lavoro.

Quanto alla possibilità che la sentenza sia redatta da chi è rimasto estraneo al dibattimento, va fatta una breve cronistoria.

La sentenza Marchetta, (2° sezione penale della Corte di Cassazione – 20 giugno 2017, n. 41571/17) ha esaminato il caso di una condanna di primo grado riformata in appello sulla base di una rilevata contraddittorietà della prova sull’elemento soggettivo. Con diffusa motivazione, la Corte ha sottolineato e confermato l’assoluta necessità che il giudice dell’appello, per ribaltare la sentenza di primo grado, deve profondersi in una “motivazione rafforzata” in applicazione del noto canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Afferma la Corte che, in caso di ribaltamento della prima decisione, il giudice dell’impugnazione deve “scardinare l’impianto argomentativo-dimostrativo della decisione assunta da chi ha avuto contatto diretto con le fonti di prova.”

Con ciò, la Corte ha anche affermato e sottolineato che la partecipazione al dibattimento conferisce al primo giudice consapevolezza e conoscenza dei fatti che il giudice dell’impugnazione, non partecipando all’istruttoria, non può avere.

A conclusione conforme era già giunta la CEDU quando affermava (5.7.2011 Dan Moldavia) che il giudice, il quale valuti diversamente dal precedente l’attendibilità di un testimone, deve poterlo ascoltare direttamente.

Stiamo trattando del principio di immediatezza tra assunzione della prova e sentenza in un rapporto privo di intermediazioni, secondo il quale il giudice che voglia correttamente valutare l’attendibilità del teste deve avere con lui un contatto diretto.

Per questa via si è giunti, in Cassazione, ad affermare l’obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria nei casi di modifica della persona del giudice, da eseguirsi risentendo i testi già escussi.

La sentenza in esame fa chiaro riferimento alla sentenza Patalano (SSUU, n. 18620 del 19.1.2017), che a sua volta aveva scolpito su pietra, in poche frasi, il portato dell’art. 525 c.p.p.:

“la percezione diretta è presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa. L’apporto informativo che ne deriva è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova.”

Il canone <<oltre ogni ragionevole dubbio>> assume veste di criterio generalissimo del processo penale, direttamente collegato alla presunzione di innocenza.”

Va fatto ricorso al metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile.”

Ancor prima, con la nota sentenza Dasgupta, le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano affermato l’obbligo di motivazione rafforzata in capo al giudice dell’impugnazione che operi un overturning, nel particolare caso in cui una condanna venga riformata in senso assolutorio. Nella sentenza in argomento, la Corte ha operato un ragionamento approfondito che riguarda il principio di legalità e la funzione del magistrato, dati per i quali qualsiasi ribaltamento della sentenza impugnata pretende una motivazione rafforzata come conseguenza del solito, e fin lì indiscusso, principio per il quale la sentenza resa dal giudice che ha avuto contatto diretto ed immediato con la fonte di prova diviene per ciò solo più autorevole; il suo ribaltamento non può dunque prescindere dalla necessità di esaminare punto per punto ogni passaggio, per contestare – fino a scardinarlo – il convincimento di fondatezza, attendibilità e credibilità della fonte di prova. L’ovvia conseguenza dell’obbligo di rinnovazione della prova mediante nuova audizione del teste già esclusso veniva a confermare il principio espresso dal 525 cpp e munito di sanzione di nullità assoluta.

Sempre nello stesso senso va rammentato che la Corte di Strasburgo ebbe ad affermare che esaminare la questione della colpevolezza o dell’innocenza non è possibile se non valutando direttamente la prova. “La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante la semplice lettura delle sue parole verbalizzate”.

E’ peraltro principio sempre accolto dalla giurisprudenza, almeno fino a qualche tempo fa, quello secondo cui il diritto all’ammissione della prova avanti il giudice che sarà chiamato a decidere è uno degli aspetti essenziali del modello accusatorio, espresso dal codice che conosciamo ed il cui stravolgimento non possiamo che contestare come illogico e potenzialmente dannoso. A sottolinearlo, la Cassazione ha più e più volte affermato l’obbligo di rinnovazione della prova orale come fondato sull’opportunità di mantenere un rapporto diretto tra giudice e prova, rapporto che non può essere assicurato dalla lettura dei verbali.

Anche la Corte Costituzionale (ordinanza 205/2010) ha chiaramente affermato che il giudice deve cogliere tutti i connotati espressivi, anche non verbali, prodotti dal metodo dialettico dell’esame e controesame. E che ciò può fare solo partecipando direttamente all’escussione del teste.

Purtroppo, tutto quanto abbiamo argomentato finora è stato superato dalla nota sentenza Bajrami (SSUU 41736/2019), dalla cui lettura traiamo preoccupazione e sgomento.

L’antefatto della decisione riguarda un annullamento in appello di sentenza redatta da chi ha partecipato all’intera istruttoria senza però partecipare al momento dell’ammissione delle prove richieste dalla parti. La sentenza ora in commento nasce dall’esigenza di chiarire se la modifica della composizione del giudice, determinatasi dopo l’ammissione delle prove, possa comportare l’obbligo di rinnovazione dell’intero dibattimento.

Bajrami, stravolgendo tutti i principi fino a quel momento espressi dalla Suprema Corte, non giunge a dichiarare che la rinnovazione dell’istruttoria non occorra, bensì che essa deve esser richiesta da chi aveva regolarmente e tempestivamente proposto lista testi. Da ciò fa discendere che la rinnovazione – nel caso muti la composizione del giudice – non è strettamente obbligatoria; e, quindi, che la nullità assoluta postulata dalla norma che ben conoscevamo non è conseguenza necessaria ed automatica. Infatti, argomentando dalla necessità che la rinnovazione istruttoria debba essere espressamente chiesta, giunge ad affermare che, così come dispone l’art. 468 c.p.p., esiste un termine decadenziale per la richiesta, che in essa va indicato quale prova debba rinnovarsi e per quale motivo; e, infine, che la richiesta può ben essere respinta dal giudice.

In buona sostanza, con ciò si è cancellato un caposaldo del principio di legalità, del diritto alla prova nonché della logica ferrea che anima il principio secondo cui ascoltare il teste non è paragonabile a leggerne le parole trascritte a verbale.

Al momento, dunque, la sentenza redatta da chi non ha partecipato al dibattimento non è più affetta da nullità assoluta.

Capita, però, che giudici di merito la pensino diversamente e decidano quindi di usare meglio il tempo a loro disposizione per giungere alla conclusione del processo.

Così il Tribunale di Ragusa nel procedimento penale 1509/18 RGNR, all’udienza dell’1 aprile 2022.

In occasione di quel processo, si è determinata la temporanea assenza di uno dei magistrati che avrebbero dovuto comporre il collegio giudicante. E quindi la sua sostituzione.

Si prevedeva peraltro che il magistrato in questione sarebbe rientrato prima della udienza successiva e sarebbe tornato a comporre il collegio; in buona sostanza, l’organo giudicante avrebbe dovuto esser modificato due volte.  L’istruttoria sarebbe stata condotta da magistrati diversi, alcuni dei quali avrebbero infine concorso a redigere la sentenza.

A ciò uno dei Difensori si è riferito per eccepire la violazione del disposto dell’art. 525 cpp nell’interpretazione che riteniamo più corretta e che prevede una nullità assoluta.

Si è dunque eccepito che le sentenze a sezioni unite Dasgupta e Patalano danno chiaro il quadro di un’interpretazione assai più convincente di quella espressa nella Bajrami. Che la Suprema Corte, con la sentenza Marchetta, aveva riaffermato l’obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria e che anche Corte Costituzionale e CEDU si erano più volte espresse in tal senso.

Il Collegio, pur preoccupandosi di sottolineare che l’interpretazione fornita da ultimo dalla Suprema Corte avrebbe reso legittimo l’organo giudicante in composizione modificata e consentito una dichiarazione di utilizzabilità degli atti assunti anche in vista della sentenza da emanare, ha purtuttavia ritenuto di dover sottolineare che la complessità del procedimento e la già espletata attività istruttoria prima della modifica della composizione rendevano opportuna la prosecuzione del procedimento in composizione originale.

Con ciò, il Collegio ha certamente evitato di affrontare la irrisolta questione della possibile nullità assoluta della sentenza da redigere, ma al contempo ha affermato il principio che in un procedimento complesso e che occuperà più udienze è opportuno che la composizione del Collegio giudicante non venga modificata. Seppure non sembri dare completa ragione all’interpretazione che con tutta evidenza preferiamo, la decisione assunta dal Tribunale rappresenta comunque un buon compromesso: a parere di quel Tribunale, la composizione di un collegio giudicante può anche subire modifiche senza che ciò comporti nullità della sentenza; ma opportunità vuole che un processo complesso, che duri per più udienze, sia condotto e partecipato sempre dagli stessi componenti del collegio, i quali potranno così avere contatto diretto con le fonti di prova e valutarne più compiutamente l’attendibilità.


Scarica l'ordinanza al link

Scarica la memoria difensiva al link




(*) Michele Sbezzi:
Avvocato del Foro di Ragusa. E' stato Vice pretore onorario dal 1996 al 2004. Ha rivestito il ruolo di Presidente della Camera Penale di Ragusa per otto anni non consecutivi fino al 2021. Attualmente è coordinatore nazionale del LaPEC e Giusto Processo.

Ultima pubblicazione

Correlazione tra imputazione contestata e sentenza e il mutamento del fatto nel delitto di bancarotta fraudolenta

  In tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suo...

I più letti di sempre