Il PRINCIPIO DI SPECIALITÀ, disciplinato dall’articolo 15 c.p., rappresenta il criterio principale con cui viene risolto il concorso apparente di norme.
Si è in presenza di un CONCORSO APPARENTE DI NORME qualora uno stesso fatto concreto risulti essere astrattamente riconducibile a più fattispecie incriminatrici, in quanto da tutte previsto come reato, anche se poi una sola di esse si rileverà quella applicabile. Dunque, ad una stessa situazione di fatto corrisponde un’apparente convergenza di norme penali, in quanto ciascuna di esse risulta astrattamente in grado di regolarlo, dal momento che la stessa situazione di fatto è capace di integrare gli estremi delle varie fattispecie incriminatrici.
In questo caso, non essendo ipotizzabile che il soggetto venga punito più volte per lo stesso fatto (in virtù del divieto del ne bis in idem, vigente nel nostro ordinamento), è necessario stabilire quale delle norme incriminatrici debba essere applicata alla situazione di fatto posta in essere in concreto, motivo per cui sia il legislatore sia l’elaborazione dottrinale hanno fissato una serie di criteri con cui dare soluzione a questa apparente confluenza di norme penali. Tra questi criteri, il principale è rappresentato proprio dal PRINCIPIO DI SPECIALITÀ di cui all’art. 15 c.p., unico tra essi ad avere fondamento normativo.
Va premesso che il problema del CONCORSO APPARENTE DI NORME è stato ed è molto dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza e costituisce una tematica molto importante ai fini dell’applicazione pratica del diritto, in quanto si tratta di un tema che si colloca a confine con il CONCORSO DI REATI, istituto che si viene invece a concretizzare quando il soggetto commette più violazioni di norme penali o della stessa norma penale e quindi più reati, poiché pone effettivamente in essere più fatti tipici.
Nella realtà infatti può accadere che una medesima condotta sembri riconducibile all’ambito applicativo di una pluralità di norme penali, disciplinanti fattispecie incriminatrici che presentano profili di interferenza. Nel caso in cui il fatto in questione sia realmente riconducibile a più fattispecie, si potrà ritenere operante il concorso di reati; diversamente, se la condotta solo apparentemente rientra nell’ambito applicativo di più fattispecie, ma in realtà è atta a configurare un solo reato, si avrà solamente un concorso apparente di norme.
Pur trattandosi di istituti differenti, dal punto di vista applicativo, non è sempre facile capire se ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di concorso di norme o di reati, anche perché difficilmente il soggetto, a cui viene attribuita la commissione del reato, viola un’unica norma penale, in genere è molto più frequente che ricorrano più comportamenti rispondenti a varie fattispecie incriminatrici. Si tratta però di due istituti che si escludono a vicenda e che comportano conseguenze diverse a livello sanzionatorio, perché differente è la situazione in cui il giudice ravvisi un concorso apparente di norme e quindi ascriva al reo un solo reato, rispetto a quella in cui invece si riscontri la configurabilità di un concorso di reati.
Per quel che concerne il rapporto tra questi due istituti, il dibattito interpretativo vede opporsi tesi più o meno garantiste che cercano rispettivamente di allargare o restringere il campo di applicabilità del concorso apparente di norme a discapito di quello di reati o viceversa.
Come anzidetto, la questione dell’apparente confluenza di norme penali a disciplina di un unico fatto di reato, e quindi la tematica del concorso apparente di norme, viene risolta mediante il ricorso ad una serie di criteri, il principale dei quali ha fondamento e trova riscontro legislativo nell’articolo 15 c.p., che sancisce il PRINCIPIO DI SPECIALITÀ nella regolazione dei rapporti tra norme penali, qualificabili come di genere a specie.
Dal momento che però questo tipo di rapporto non sempre viene in essere tra due fattispecie incriminatrici, l’elaborazione dottrinale ha individuato una serie di altri criteri per la risoluzione dei conflitti apparenti di norme, tra i quali vanno annoverati il criterio di sussidiarietà (tipicamente applicabile in presenza di clausole di sussidiarietà espressamente inserite dal legislatore in alcune norme penali, per circoscriverne l’applicazione rispetto ad altre considerate principali, così come utilizzabile anche in assenza delle predette clausole, qualora l’applicazione di una norma venga esclusa in ragione di un rapporto di rango di tutela tra le norme in oggetto) e il criterio dell’assorbimento (impiegabile ogni qual volta una norma risulti essere di più ampia portata rispetto ad un’altra e sia quindi in grado di assorbirne il contenuto, poiché la commissione del fatto di reato più grave comporta di per sé la realizzazione del reato meno grave).
Ai sensi di quanto previsto dall’art. 15 c.p., di regola, nel caso in cui più leggi penali o più disposizioni della medesima legge regolino la stessa materia, la norma speciale deroga a quella generale, comportandone l’impossibilità di applicazione. Vengono fatti salvi i casi in cui sia stabilito diversamente.
Affinché possa sussistere un rapporto di specialità e dunque affinché si possa qualificare come speciale una norma rispetto ad un’altra, è necessario che la prima presenti tutti gli elementi costitutivi di quella generale, a cui vengano ad aggiungersi degli ulteriori elementi specifici e qualificanti. È necessario dunque che la norma speciale sia ricompresa in quella generale, al punto che, laddove quella speciale non esistesse, il fatto concreto sarebbe comunque ricompreso nella fattispecie generale.
Dal punto di vista sanzionatorio poi, la norma speciale potrebbe prevedere un trattamento più o meno gravoso per il reo.
Esempio tipico di rapporto di specialità tra due fattispecie incriminatrici è quello sussistente tra furto (art. 624 c.p.) e rapina (art. 628 c.p.), ove il furto consiste nell’impossessamento di cose mobili altrui, mentre la rapina presenta tutti gli elementi costitutivi del furto, a cui si aggiunge la commissione del fatto tipico con violenza e minaccia, oltre ad offrire tutela allo stesso bene giuridico, rappresentato dal patrimonio, a cui nella rapina si va a sommare anche l’offesa alla libertà morale della vittima.
Quindi il principio di specialità così come disciplinato dall’art.15 c.p. assume un ruolo fondamentale nella regolazione dei rapporti tra norme e di conseguenza anche nella risoluzione del concorso apparente, poiché nell’affermare che la norma speciale deroga a quella generale, postula che la prima escluda l’applicabilità della seconda, in quanto ne circoscrive l’ambito di applicazione. In questo modo, il criterio di specialità esclude la contemporanea applicazione allo stesso fatto di reato di più fattispecie incriminatrici e quindi, se in astratto è possibile ricondurre il medesimo fatto a più norme apparentemente applicabili a fronte di un rapporto di specialità configurabile tra le stesse, in concreto è possibile applicare unicamente la norma speciale.
In merito al postulato dell’art. 15 c.p. sono sorti dei dibattiti dottrinali e giurisprudenziali riguardo l’interpretazione dell’espressione “stessa materia”, utilizzata dal legislatore in sede di formulazione della norma.
Dottrina e giurisprudenza infatti non hanno fornito in merito un’interpretazione uniforme.
La giurisprudenza ha identificato l’espressione “stessa materia” con un’uguaglianza di bene giuridico protetto dalle norme in oggetto, ritendendo infatti che l’espressione utilizzata dal legislatore presupponesse un’identità e un’omogeneità di bene giuridico tra le norme in concorso apparente e conseguentemente asserendo che l’applicazione del principio di specialità andasse circoscritta alle sole ipotesi in cui ciò sia riscontrabile.
Diversamente invece ha postulato la dottrina, la quale ha invece identificato l’espressione “stessa materia” con la convergenza di una fattispecie generale e di una fattispecie speciale sulla medesima situazione concreta, dando per scontato che, proprio alla luce del rapporto di specialità che lega le disposizioni, sia riscontrabile un’identità di beni giuridici tutelati e ritendo di conseguenza che l’applicazione del principio non debba trovare limiti così stringenti, come affermato dalla giurisprudenza. Ad avviso dell’elaborazione dottrinale, la norma speciale, proprio per il fatto di essere tale rispetto ad un’altra qualificabile, in rapporto ad essa, come generale, sottende necessariamente le stesse ragioni di tutela di quella di portata più ampia e va nella stessa direzione di tutela. Laddove sia riscontrabile un rapporto di genere a specie tra due norme, ad avviso della dottrina, la norma speciale non può essere ispirata ad esigenze di tutela diverse da quella generale. Dopo di che la norma speciale, che contiene tutti gli elementi costitutivi di quella generale, potrà essere caratterizzata da ulteriori elementi specializzanti, che a loro volta determineranno una tutela più o meno severa, ma il bene giuridico protetto da entrambe deve necessariamente essere lo stesso.
Va ricordato che parte della dottrina, per risolvere i casi dubbi che si pongono a confine tra il concorso apparente di norme e quello effettivo di reati, o meglio i casi in cui il fatto concreto di regola viene ricondotto o all’una o all’altra fattispecie incriminatrice, dal momento che le stesse non sono in rapporto di genere a specie tra loro, ma che in ipotesi occasionali può essere ricondotto ad entrambe, ha elaborato il concetto di specialità in concreto, per estendere la portata applicativa del concorso apparente di norme a discapito di quella del concorso di reati. Questa concezione dottrinale è rimasta però minoritaria, in quanto l’espressione specialità in concreto è stata ritenuta dai più un’espressione fuorviante, dal momento che il rapporto di specialità è un rapporto logico tra norme, configurabile esclusivamente in astratto, ma non in concreto.
Il problema della distinzione tra concorso apparente di norme e di reati e dell’applicazione del principio di specialità è sorto anche in merito al rapporto sussistente tra la fattispecie di MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO di cui all’art. 316 bis c.p. e quella di TRUFFA AGGRAVATA PER IL CONSEGUIMENTO DI EROGAZIONI PUBBLICHE di cui all’art. 640 bis c.p.. Diverse sono state le pronunce giurisprudenziali di legittimità in ordine a questa questione, così come anche gli orientamenti dottrinali.
Una posizione precisa è stata poi assunta dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza a Sezioni Unite n. 20664/2017 ha risolto la questione di diritto sollevata al suo cospetto, delineando quello che dovrebbe essere l’orientamento da seguire nel risolvere la problematica in oggetto.
Le Sezioni Unite della Cassazione sono state infatti adite per stabilire se il reato di malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.) concorra con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.).
Ai sensi dell’art. 316 bis c.p., la condotta penalmente rilevante è rappresentata dalla mancata utilizzazione per le finalità previste di sovvenzioni pubbliche caratterizzate da un vincolo di destinazione di pubblico interesse. Diversamente l’art. 640 bis c.p. punisce chi pone in essere la condotta di truffa di cui all’art. 640 c.p. laddove il fatto abbia ad oggetto “contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominati, concessi o erogati da parte dello Stato, di atri enti pubblici o delle Comunità Europee”.
In merito alla questione, vi erano due diversi precedenti orientamenti giurisprudenziali.
L’impostazione giurisprudenziale maggioritaria non ravvisava un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p. tra il reato di malversazione e quello di truffa aggravata, ritenendo che le due fattispecie regolassero materie diverse ed inoltre tutelassero interessi differenti: il buon andamento della P.A. contro gli atti contrari agli interessi della collettività e dunque l’interesse della P.A. a che le somme erogate vengano destinate alle finalità pubbliche previste, nella malversazione e il patrimonio pubblico contro atti di frode e quindi la corretta percezione dei fondi pubblici, nella truffa aggravata. Alla luce di queste considerazioni, stante l’assenza di un rapporto di specialità, questo orientamento giurisprudenziale tendeva ad escludere l’esistenza di un concorso apparente di norme, per indirizzarsi verso la configurabilità di un concorso di reati.
L’orientamento giurisprudenziale minoritario arrivava alla stessa conclusione circa l’assenza del rapporto di specialità, rinvenendo però l’esistenza di un concorso apparente di norme, in quanto entrambe le fattispecie, ad avviso di questa parte della giurisprudenza, risulterebbero offensive del medesimo bene giuridico, nello specifico il patrimonio pubblico. Sulla base di questa impostazione, il concorso apparente di norme verrebbe però risolto in base al criterio di sussidiarietà: stante infatti la necessità di non sanzionare due volte la condotta di diversa destinazione dei fondi di cui all’art 316 bis c.p., che costituirebbe la naturale conseguenza dell’erogazione ottenuta tramite artifici e raggiri, ad avviso di questa parte della giurisprudenza, che faceva leva sul principio del ne bis in idem sostanziale, si dovrebbe applicare solamente l’art. 640 bis c.p., dal momento che la fattispecie della malversazione sembrerebbe essere sussidiaria e residuale rispetto a quest’ultimo.
La dottrina maggioritaria propendeva ad essere in linea con questo secondo orientamento.
Alla luce di queste discrepanze interpretative nella giurisprudenza di legittimità, la questione è stata appunto sollevata dinnanzi alle Sezioni Unite della Cassazione.
Nello specifico, la vicenda che ha portato al dibattito interpretativo relativo alla malversazione e alla truffa aggravata, riguardava l’amministratore e il socio di fatto di una società in accomandita semplice, i quali, sul presupposto della natura fittizia dell’attività condotta dalla società medesima, erano stati ritenuti responsabili del reato di malversazione dei beni strumentali di proprietà della società, acquistati con l’impiego di finanziamenti pubblici, di cui non risultavano restituite alcune rate che la società era tenuta a rimborsare; mentre venivano invece prosciolti in relazione all’imputazione di cui all’art. 640 bis c.p. per intervenuta prescrizione.
Era stato quindi proposto ricorso per cassazione, nel quale gli interessati lamentavano tra l’altro, il mancato riconoscimento della natura sussidiaria del reato di cui all’art. 316 bis c.p. rispetto a quello ex art. 640 bis c.p., ritenendo i due comportamenti contestati espressione di un’identica offesa al bene giuridico tutelato.
Le Sezioni Unite con la sentenza del 2017 hanno innanzitutto rilevato come entrambi gli orientamenti giurisprudenziali precedenti abbiano escluso l’esistenza del rapporto di specialità tra le due fattispecie in esame e quindi la possibilità di applicare il principio di cui all’art. 15 c.p., seppur sulla base di differenti presupposti: il primo orientamento in virtù della considerazione che le due disposizioni disciplinino diverse materie, alla luce del qual fatto verrebbe in rilievo come unica soluzione possibile la sussistenza del concorso di reati; il secondo, pur favorevole all’esistenza di un concorso apparente di norme, per averne basato la ricostruzione sul principio di sussidiarietà.
Le Sezioni Unite quindi, dopo questa preliminare osservazione, hanno aderito alla prima impostazione, ravvisando la configurabilità di un concorso di reati, alla luce del fatto che tra le due fattispecie in esame non sarebbe possibile individuare alcun rapporto di specialità per la difformità dei beni giuridici tutelati ed anche per la differenza di comportamenti sanzionati, in particolare la percezione dei fondi pubblici in un caso (art. 640 bis c.p.) e l’utilizzo degli stessi nell’altro (art. 316 bis c.p.).
Proprio partendo dall’affermazione preliminare secondo cui il criterio di specialità ex art. 15 c.p. è l’unico utilizzabile nel concorso apparente di norme, in quanto l’unico a ricevere fondamento legislativo, le Sezioni Unite hanno escluso che lo stesso potesse essere applicato alle fattispecie in oggetto, potendo esso ravvisarsi solo qualora vi fosse un identico contesto fattuale ed una delle norme potesse essere definita speciale rispetto all’altra, contenendone tutti gli elementi; mentre in questo caso le due fattispecie vengono dalla Suprema Corte qualificate come autonome poiché da un lato gli artifici e raggiri caratterizzanti la truffa aggravata non costituiscono l’unica modalità attraverso cui poter ottenere la percezione dei finanziamenti di cui all’art. 316 bis c.p. e dall’altro, la percezione illegittima di cui all’art. 640 bis c.p., non sempre sfocia nella mancata destinazione delle somme erogate alle loro finalità, che rappresenta invece l’elemento caratterizzante la fattispecie di cui all’art. 316 bis c.p..
Ad opinione della Corte, l’art. 316 bis c.p. non specifica che l’acquisizione dei finanziamenti debba necessariamente avvenire in modo illecito, da cui se ne deduce che tale percezione possa avvenire in varie forme. Conseguentemente tra le due fattispecie si può rilevare una differenza anche in merito al momento consumativo del reato, poiché per la malversazione non risulta essere rilevante il momento della percezione, bensì quello dell’attività esecutiva di natura omissiva, mentre nella truffa aggravata ex art. 640 bis c.p., ai fini della consumazione rileva il momento della percezione, dal momento che l’erogazione delle somme deve avvenire in conseguenza di artifici e raggiri.
La sentenza in esame sottolinea dunque la differenza strutturale tra i due reati, affermando che, l’eventuale circostanza in cui tra gli stessi possano intercorrere dei punti di congiunzione, qualora in concreto il reato di malversazione si atteggi come naturale prosecuzione della condotta di truffa, non metterebbe in dubbio l’esistenza del concorso di reati, in quanto si tratterebbe dell’atteggiarsi in concreto delle due fattispecie, quando invece la comparazione tra le due norme ai fini dell’esistenza del concorso apparente, deve essere fondata sulla struttura astratta delle stesse, nel qual caso soltanto potrebbe eventualmente essere presa in considerazione l’operatività del criterio dell’assorbimento.
Dopo aver individuato due ipotesi in cui non sorgono dubbi circa l’applicabilità dell’una o dell’altra fattispecie, la Suprema Corte si sofferma infatti sull’ipotesi controversa in cui i finanziamenti vengano percepiti con artifici e raggiri e devoluti ad un’utilità diversa rispetto all’attività o opera pubblica a cui sarebbero stati destinati. In questo caso, come pocanzi detto, le Sezioni Unite ravvedono un concorso di reati e non un concorso apparente di norme, per l’assenza di un nesso di interdipendenza necessaria tra le due fattispecie.
Prima di giungere alla soluzione interpretativa adottata, in via preliminare, le Sezioni Unite, dopo aver riconosciuto il principio di specialità come unico applicabile nella risoluzione del concorso apparente di norme, in quanto l’unico dotato di fondamento normativo, hanno tra l’altro affermato che il criterio di specialità non si pone in contrasto con il divieto del ne bis in idem, riconosciuto come diritto fondamentale anche nella CEDU e nella Carta di Nizza, dal momento che esso si sostanzia nel divieto di un ulteriore giudizio sul medesimo fatto storico, ma non pone alcuna preclusione al legislatore nazionale nel poter descrivere un fatto in più di una fattispecie e dunque non sembrerebbe venire in rilievo nel caso di specie. Tra l’altro le Sezioni Unite in questo contesto hanno ricordato anche come la stessa Corte Costituzionale abbia recentemente attribuito al divieto del ne bis in idem valore non assoluto.
Alla luce di queste considerazioni, neppure il ne bis in idem potrebbe essere considerato un valido criterio per valutare il confine tra il concorso apparente di norme e quello di reati, come spesso invece sostenuto dalla dottrina e da parte minoritaria della giurisprudenza, residuando quindi il principio di specialità quale unico criterio utilizzabile.
La Suprema Corte fonda inoltre la sua conclusione anche sul dato letterale delle due norme, nelle quali non compare alcuna clausola di riserva, il che rafforza la propensione per una qualificazione autonoma delle stesse e per l’esistenza di un concorso di reati, al quale, in via generale, è possibile derogare, a detta della stessa, solo in presenza di un’espressa clausola di riserva che imponga l’applicazione della norma incriminatrice prevalente. Ad avviso della Corte infatti la clausola di riserva sembra essere l’unico strumento, espressamente previsto dal legislatore, in grado di escludere il concorso di reati senza ricorrere al principio di specialità.
In questa pronuncia del 2017 quindi si sono affermati dei principi di diritto importanti, tra i quali soprattutto la rilevanza del solo principio di specialità quale criterio di differenziazione tra il concorso apparente di norme e il concorso di reati, con conseguente scarto degli altri criteri di elaborazione dottrinale, da un lato e risoluzione del caso di specie a favore del concorso di reati tra le due fattispecie oggetto di analisi, dall’altro.