Ieri pomeriggio, nel corso del dibattito parlamentare sulla riforma Cartabia, alcuni parlamentari lamentavano il rischio che la "tagliola" dell'improcedibilità si abbattesse su una serie di reati. Di conseguenza taluni ordini del giorno volevano che il Governo si impegnasse ad accordare lo stesso regime previsto per i reati di associazione mafiosa a quelli di violenza sessuale tout court, altri rivendicavano tale regime anche per i delitti di bancarotta, così come si evocavano i rischi di "impunità" per reati ambientali o per quelli dei colletti bianchi o per le rapine.
Si assisteva ad un dibattito in cui in qualche modo ciascun parlamentare aveva delle ragioni da spendere a sostegno della sua tesi, attesa la gravità del reato di volta in volta rappresentato, anche ricorrendo a casi di cronaca.
Ma il punto è esattamente questo: temo che stiamo smarrendo una cultura processuale con una visione unitaria del processo, piegandolo al nomen iuris contestato. Per rovesciare una fortunata immagine, mi pare che il reato contestato rischi di signoreggiare il processo, spodestato del suo status di tiranno. In tale ottica ogni illecito penale merita un processo derogatorio.
Spiace che il Governo si sia lasciato coinvolgere in questa logica, con riferimento al tema della improcedibilità: un istituto processuale deve costruirsi sulla scorta delle esigenze processuali e non sulla scorta del reato contestato o almeno esclusivamente su tale criterio, soprattutto ove si tratti di un istituto finalizzato ad assicurare la ragionevole durata del processo. Per rimanere in tema di criminalità organizzata un processo di impugnazione per reati di associazione mafiosa in cui vi sia un solo imputato è davvero equiparabile, a prescindere da ogni valutazione in concreto, ad uno in cui vi siano decine di prevenuti ? Che rilievo ha in tali casi il titolo di reato contestato ? E' evidente: nessuno