In questo blog avevamo già rilevato che la
riforma c.d. Cartabia suscitava delle perplessità in tema di pubblicità dei
giudizi di impugnazione (link).
L'intervento del professor Giunchedi
(link) stimola un nuovo e più ampio intervento sul tema.
Il professore ha ricordato che, sulla
scorta del testo ora oggetto di esame al Senato, la celebrazione del giudizio
di appello avverrà di regola <<con rito camerale non partecipato>>,
così come la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione si
svolgerà di regola <<con contraddittorio scritto>>.
Al di là dell'imperfetta tecnica
normativa, su cui si rimanda al post, il punto che pare essenziale è che nel
processo riformato i giudizi di impugnazione si celebreranno, salvo deroghe, in
aule da cui il popolo sovrano, nel cui nome è amministrata la giustizia, è
escluso, perché il rito scritto o camerale è ex se incompatibile con la
pubblicità. Quest'ultima verrà rimessa a scelte processuali delle parti o ad
esigenze ravvisate dal giudicante.
Ma un tale modello processuale può ancora
ritenersi conforme ai principi sovranazionali e costituzionali?
Chi scrive non ha gli strumenti per
fornire una risposta né autorevole né tampoco definitiva, eppure si possono
offrire alcuni spunti di riflessione.
All'uopo pare utile innanzi tutto ripercorrere
le affermazioni contenute in taluni documenti internazionali.
L'art. 10 della “Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo”, adottata nel 1948, prevede che <<ogni individuo ha diritto, in
posizione di piena uguaglianza, ad una equa e PUBBLICA UDIENZA davanti ad un
tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei
suoi doveri nonché della fondatezza di OGNI ACCUSA PENALE gli venga rivolta>>.
Nel 1950, la convenzione EDU, ratificata
con legge n. 848 del 1955, riprese il principio, prevendo all'art. 6
che <<ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata
equamente, PUBBLICAMENTE ed entro un termine ragionevole da un tribunale
indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a
pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o
sulla fondatezza di OGNI ACCUSA PENALE formulata nei suoi confronti>>, aggiungendo
che <<la SENTENZA deve essere resa PUBBLICAMENTE>>.
Tuttavia la medesima fonte sovranazionale specificò che <<l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia>>.
Anche il “Patto internazionale sui diritti civili e politici”, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, prevede all'art. 14 che <<ogni individuo ha diritto ad un’equa e PUBBLICA UDIENZA dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito dalla legge, allorché si tratta di determinare la fondatezza di un’accusa penale che gli venga rivolta, ovvero di accertare i suoi diritti ed obblighi mediante un giudizio civile>>, precisando, analogamente a quanto previsto dalla CEDU, che <<il processo può svolgersi totalmente o parzialmente a porte chiuse, sia per motivi di moralità, di ordine pubblico o di sicurezza nazionale in una società democratica, sia quando lo esiga l’interesse della vita privata delle parti in causa, sia, nella misura ritenuta strettamente necessaria dal tribunale, quando per circostanze particolari la pubblicità nocerebbe agli interessi della giustizia; tuttavia, qualsiasi sentenza pronunciata in un giudizio penale o civile dovrà essere resa pubblica, salvo che l’interesse di minori esiga il contrario, ovvero che il processo verta su controversie matrimoniali o sulla tutela dei figli>>.
In tempi più recenti i "popoli
d'Europa" (cfr. preambolo) si sono dotati di una "Carta
fondamentale dei diritti dell'Unione europea", il cui articolo 47
prevede che <<ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata
equamente, PUBBLICAMENTE ed entro un termine ragionevole da un giudice
indipendente e imparziale, precostituito per legge>>, senza peraltro
prevedere limitazioni alla pubblicità del processo.
In sintesi a far data dal 1948 il
principio della pubblicità del processo è stato costantemente riconosciuto da
plurimi documenti di carattere sovranazionale, quale diritto fondamentale della
persona, limitabile soltanto in casi eccezionali.
A tal punto è evidente che la logica che
ispira i vari progetti di riforma del nostro processo (Bonafede, Lattanzi-
Cartabia) è opposta a quella dei documenti citati.
Tuttavia, leggendo le fonti
sovranazionali in un'ottica esclusivamente individuale, si potrebbe sostenere
che il principio della pubblicità del processo sia salvaguardato dalla facoltà
accordata all'imputato di chiedere la celebrazione del giudizio in pubblica
udienza, con ciò schivando rischi di incostituzionalità ex art. 117
cost.
Nondimeno il tema rimarrebbe complesso sul
piano costituzionale, in particolare avuto riguardo all'art. 101 ,
primo comma, della Costituzione, secondo cui la giustizia è
amministrata in nome del popolo. Infatti, per quanto la Corte
costituzionale abbia respinto le censure di incostituzionalità del rito
abbreviato per contrasto con l'art. 101 (Corte cost. 373/1992), giacché
<<la giusta considerazione, la valutazione ed il bilanciamento dei vari
interessi in gioco rientrano nella discrezionalità del legislatore>>, v'è
da chiedersi se una rivalutazione degli interessi in gioco, che trasformi la
pubblicità del processo di impugnazione da regola ad eccezione sia ancora
conforme al dettato costituzionale.
Al riguardo è d'uopo rilevare che proprio
nella citata sentenza, la Corte costituzionale ha affermato che <<LA PUBBLICITÀ DEL GIUDIZIO, SPECIE DI QUELLO PENALE, COSTITUISCE UN
PRINCIPIO ESSENZIALE DELL'ORDINAMENTO DEMOCRATICO, FONDATO SULLA SOVRANITÀ
POPOLARE, SULLA QUALE SI BASA L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA, SPECIE
QUELLA PENALE, CHE, SECONDO L'ART. 101, PRIMO COMMA, DELLA COSTITUZIONE, È
AMMINISTRATA IN NOME DEL POPOLO>>.
In altri termini, non può che ribadirsi il quesito inziale: è costituzionalmente
legittimo un giudizio di impugnazione in cui il popolo sovrano, nel cui nome è
esercitata la giustizia, accede alle aule soltanto in casi specifici?