L'estate che volge al termine è stata caratterizzata dall'ennesima riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, rispetto alla quale è già stata sollevata una prima eccezione di incostituzionalità. Nello stesso tempo il dramma dell' espiazione della pena detentiva non si è arrestato, sembrando piuttosto incancrenirsi. Sullo sfondo la mai sopita questione dell'assetto della prescrizione. Su tutto ciò abbiamo raccolto le preziose opinioni del Prof. Giuseppe Losappio, che ringraziamo per avere accettato il nostro invito.
Professore, i delitti contro la pubblica amministrazione hanno conosciuto l’ennesima stagione di riforme: perché, a suo avviso, almeno dal 1990, si assiste ad una costante rivisitazione di queste fattispecie delittuose?
Le cause principali dell’andamento “ippodameo” dei reati contro la pubblica amministrazione, a mio avviso, sono tre che accenno non necessariamente in ordine di importanza, un po’ alla rinfusa: come ha scritto Massimo Donini, in Italia, il diritto penale si identifica con l’etica pubblica anche nel senso che nei confronti del diffuso, anzi radicato, fenomeno della maladministration troppe volte l’unica risposta “repressiva” arriva – debitamente o meno – dalle “Procure” o meglio dal circuito della giustizia mediatica. Nonostante il flusso di riforme degli anni “novanta” e i primi frutti della digitalizzazione la PA continua a non funzionare. L’annuale rilevazione della CGIA di Mestre ha segnalato che il costo della inefficienza della PA nel 2023 è stato pari a 109 miliardi (il doppio dell’evasione fiscale). Una PA inefficiente è, inevitabilmente, una PA che sbaglia, che restituisce “ingiustizie”, siano “volontarie” o “involontarie”. La massa erratica della maladministration è tale che la c.d. legge “Severino”, l’introduzione dei Piani anticorruzione, del RPC e da ultimo del whistleblowing non hanno inciso sulla capacità della PA di autocorreggere i propri errori che era e resta assai limitata. I controlli interni non sono pervenuti. L’autotutela è una “fata morgana”. Il cerchio si chiude considerando che anche il ventaglio dei controlli esterni risulta evanescente. L’accesso alla giustizia amministrativa è diventato davvero molto, troppo caro, il ricorso gerarchico è totalmente inefficace e persino alla fruizione del diritto di accesso agli atti amministrativi non di rado vengono opposti ostacoli indebiti. L’intervento di conseguenze “punitive” extrapenali è assai carente. Il controllo contabile quasi sempre opera in parallelo con quello penale e, comunque, non si manifesta se all’espressione del cattivo andamento della PA non sono derivati danni per il pubblico erario, ovvero questi non si sono ancora svelati con carattere di certezza e attualità. Sennonché è del tutto carente anche il dispiegarsi di “sequele” disciplinari, con le quali le condotte di questo tipo potrebbero essere contrastate; anzi, nella mia esperienza (per quello che vale), le uniche volte che ho visto contestare violazioni deontologiche o contrattuali è stato pressoché esclusivamente in chiave ritorsiva, quale reazione alla resistenza di un pubblico ufficiale nei confronti di indirizzi o richieste del potere politico illegittime o comunque inopportune. L’insieme di questi fattori induce, spesso costringe, il cittadino a tutelare i propri interessi mediante la denuncia o la querela. Il risultato finale è che il diritto penale da ultima ratio diviene la sola ratio, l’unico rimedio disponibile e agevolmente accessibile per cercare di resistere alle inefficienze e alle ingiustizie della nostra pubblica amministrazione. Un secondo aspetto del problema è stato, per lungo tempo (colgo consistenti segnali di cambiamento in questa direzione), la sostanziale incapacità della politica italiana di “ripulirsi” e comunque “rigenerarsi”, come dimostra la lunga stagione dell’immunità parlamentare che troppo volte protesse l’indifendibile, troppo precipitosamente fu eliminata, senza un’adeguata ponderazione degli effetti e delle modulazioni possibili. So che molti colleghi potranno non essere d’accordo con questa affermazione ma sono abbastanza convinto che spesso è stato proprio il rifiuto del ceto politico nazionale di autovalutarsi e selezionarsi secondo criteri di competenza e onestà a promuovere le Procure nel ruolo, evidentemente estraneo al tessuto degli equilibri costituzionali, di selezionare candidati ed eletti, cui – altro aspetto che non va sottovalutato – il corpo elettorale, non di rado, non ha fatto mancare la gratificazione del suffragio proprio in dipendenza di quelle dinamiche clientelari di alcune realtà locali, più o meno grandi, spesso cause di inefficienze/ingiustizia della PA: un fenomeno diffuso ben oltre i contesti in cui si manifesta nella forma dello scambio elettorale politico-mafioso; un fenomeno diffuso e paradossale perché – torniamo al punto di partenza – l’incapacità del paese di dispiegare sanzioni “sociali” nei confronti della maladministration alimenta la delega alla giustizia penale cui viene conferito il compito di fare ciò che nessuno intende o riesce a fare in un’altra sede.
Tutto questo spiega (in parte) ma ovviamente non giustifica gli errori e talvolta gli orrori di alcune indagini e, in misura minore ma non per questo meno significativa, di alcune decisioni che sono la seconda causa del pendolarismo valutativo che affligge i reati contro la pubblica amministrazione, il relativo “retroterra” processual-penalistico oltre che la linea di fronte delle sanzioni accessorie e delle misure di prevenzione. Una ricognizione per quanto sommaria, che non voglia essere superficiale, deve dare conto delle dimensioni sincroniche e diacroniche. Le analisi (ammesso che si possa chiamarle tali) all’ingrosso, partigiane o ispirate da risentimenti biografici non servono a nulla. La perimetrazione del tema deve dare conto che la tensione tra politica e magistratura non è un fenomeno solo italiano. Ovunque si registrano frizioni, attriti e accuse, più o meno fondate, di faziosità “politica” quando la magistratura “colpisce” con le sue iniziative chi governa. Di recente negli USA, Hunter Biden come Trump hanno lamentato che i procuratori, conducendo con eccessivo zelo le indagini nei loro confronti, avevano proseguito obiettivi politici estrinseci al corretto esercizio della funzione giudiziaria. Non credo nemmeno che sia corretto dal punto di vista storico tracciare una retta per distinguere un (onirico?) passato in cui i magistrati erano davvero autonomi e indipendenti – ma quando? prima della Costituzione? nel primo dopoguerra, fino agli anni “sessanta”, quando ancora prevaleva l’interpretazione delle norme costituzionali in chiave programmatica? – dal presente di una magistratura politicizzata in senso deteriore. Ciò che mi sembra specifico (anche se non esclusivo) della realtà contemporanea è l’affermazione di un linguaggio e di una prassi bellici che, come ha sostenuto, tra gli altri, Gaetano Insolera caratterizza, a partire dagli anni “ottanta”, alcuni ambiti dell’esperienza giuridico penalistica. È il diritto penale di lotta – al terrorismo, alla criminalità organizzata, alla corruzione, alla violenza di genere (ecc.) – che in nome dell’emergenza di turno (eversiva, mafiosa, ecc.) impone l’adozione di una strumentazione “punitiva” “eccezionale” (più o meno afflitta dalla c.d. “distanza assiologica”) e alimenta la lenta ma inesorabile trasformazione della “funzione giudiziaria” in “missione”, della giurisdizione da luogo di “semplice” applicazione del diritto al fatto in arena di vere e proprie “ordalie”. I “martiri” di queste battaglie – magistrati, forze dell’ordine, avvocati e indagati/imputati morti suicidi – esigono “rispetto”, cautela e giudizi ponderati, bilanciati, veri, se possibile. Buone o meno che fossero le intenzioni è vero che in questo agone è capitato che la magistratura abbia tracimato rispetto al predicato dell’art. 25, come è vero che ha “debordato” anche la politica. Sia o no corretto parlare di una “Guerra dei trent’anni” (così il suggestivo titolo di un libro di Filippo Facci) questa contrapposizione è appunto una delle concause della effervescente e ondivaga produzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, a seconda che siano prevalsi indirizzi restrittivi o espansivi. Basti considerare l’esempio più recente. Nel volgere di qualche anno abbiamo assistito alla inversione ad “U” che dalla legge – horribile dictu – “spazzacorrotti” ha condotto all’abrogazione dell’abuso di ufficio, eccessive entrambe, in un senso e nell’altro. In questa frenesia riformatrice non bisogna dimenticare il ruolo da protagonista che occupa la sciatteria nella scrittura delle leggi, che spesso nascono male e, per un verso, esigono di accompagnare la riforma ad un’immediatamente successiva “riforma della riforma”, per l’altro, catalizzano i moti centrifughi della giurisdizione rispetto alle coordinate della legalità e del giusto processo.
Il terzo e ultimo vettore di instabilità dei delitti contro la pubblica amministrazione sono gli “impegni” di derivazione euro-unitaria, europea e pattizia. Il traino di molti interventi degli ultimi anni sono stati appunto fonti internazionali dell’oramai cospicuo corpus di provvedimenti anticorruzione concordati dagli Stati per contrastare la sempre più evidente e cospicua dimensione transfrontaliera del fenomeno.
L’abolizione dell’abuso di ufficio, tra le recenti riforme, è quella che più ha fatto discutere. A suo parere si è trattato di un intervento imposto da storture applicative o di una riforma inopportuna che creerà vuoti di tutela, se non addirittura incostituzionale per violazione di obblighi sovranazionali? Prima ancora di abrogare il disposto dell’art. 323 c.p., il Governo ha introdotto, con d.l. 92/24, la fattispecie di “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”, questa nuova ipotesi delittuosa si pone in rapporto di parziale continuità con l’abuso di ufficio?
Non ho da dire cose sostanzialmente diverse da quelle già espresse dai colleghi che hanno criticato questo intervento. Penso – tra gli altri – agli interventi di Gianluigi Gatta, Massimo Donini, Adelmo Manna, Tullio Padovani, Manfredi Parodi Giusino (sono tutte fonti liberamente e gratuitamente reperibili sulla rete). Nessun lamento funebre, nessuna prefica, com’è stato provocatoriamente replicato alle critiche ma solo la perplessa osservazione di un vuoto di tutela che priva di ogni garanzia concretamente esperibile il cittadino anche nei confronti di comportamenti atrocemente vessatori. Soprattutto trovo che non sia rassicurante il messaggio che questa riforma propone alle pubbliche amministrazioni, per alleviarle dall’asserito “timore della firma” e dalle connesse resistenze all’operatività: “niente paura”, per dirla con Ligabue. Con l’eliminazione dell’art. 323 c.p., sfuggiranno ai rigori della legge penale anche le più gravi violazioni di legge, anche nel caso che l’illegittimità sia intenzionalmente volta ad assicurare uno specifico e ingiusto vantaggio patrimoniale oppure, peggio ancora, ad arrecare un danno ad un terzo. Come documenta l’accurata indagine comparatistica condotta da una brillante ricercatrice trentina, Elena Mattevi, è un’eccezione nei sistemi liberali, dove la pubblica amministrazione soggiace al principio di legalità. Le critiche attengono la dimensione politico-criminale e – ma il discorso sotto questo profilo è assai complesso – potrebbero riguardare anche la dimensione costituzionale, anche quale tramite di violazioni pattizie. Dubito, per non dire escludo, tuttavia, che un’eventuale questione di legittimità possa superare il vaglio di ammissibilità. L’ostacolo invalicabile è il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, com’è stato ribadito dalla sentenza della Consulta n. 8 del 2022, che ha pronunciato “parole tombali” (Gatta) sulla questione con riferimento al precedente specifico dell’eccezione di incostituzionalità relativa all’ultima e molto selettiva novella dell’art. 323 c.p.; pietre di inciampo che non vengono scardinate nelle pur documentata memoria presentata dalla Procura di Reggio Emilia. Poste queste premesse, in compagnia dei colleghi che ho citato, credo che si debba attendere che la pedagogia dei fatti convalidi le critiche. Così, non auspico ma temo che la poco ponderata eradicazione dell’art. 323 c.p. dal sistema condurrà ad un’espansione applicativa di altri reati, tra i quali ovviamente anche il nuovo art. 314-bis c.p., che sicuramente si pone parzialmente in rapporto di continuità normativa con la disposizione abrogata (molto bene hanno scritto sull’argomento Gian Luigi Gatta e Sergio Seminara). Auspico, invece, che l’esperienza induca il legislatore a ritornare sui suoi passi e ad elaborare una disposizione che colmi il vuoto di tutela inaccettabile (dal punto di vista politica-criminale) che l’eliminazione dell’art. 323 comporta, fermo restando che sarei ben lieto che la storia smentisse questi timori e riconoscesse che il legislatore ha fatto la cosa giusta.
Cambiamo tema, nonostante l’ampliamento delle misure alternative al carcere, al 30.06.2024 il numero di detenuti in espiazione definitiva ha raggiunto un nuovo record (45.701 detenuti in espiazione definitiva). L’irredimibile ricorso privazione della libertà quale modalità di espiazione della pena non potrebbe trovare una soluzione definitiva modificando le pene principali previste dal codice del 1930?
Da ultimo Adelmo Manna, sulla rivista dell’Unione, Diritto di difesa ha proposto un set molto articolato di possibili rimedi sanzionatori alternativi alla pena carceraria. È una piattaforma, che condivido nelle sue linee essenziali, sulla quale si può lavorare, ma temo che interventi di questo tipo come il decreto carcere (92 del 2024) possano (utilmente) limare il numero (o meglio il sovrannumero) della popolazione carceraria ma per superare davvero l’emergenza sono altre le leve sulle quali agire: per un verso, occorrerebbe un investimento cospicuo di edilizia carceraria. Il problema del sovraffollamento è solo l’aspetto più eclatante di condizioni detentive spesso inumane anche a causa di strutture obsolete, mal tenute. La richiesta di nuove carceri, quindi, non dev’essere tabuizzata, come accade talvolta nelle discussioni tra i penalisti. Nuove carceri, non vuol dire solo più celle (e quindi più reati, più pene) ma anche avere celle migliori, che sono urgenti, indispensabili per migliorare davvero la vita dei penitenziari italiani; per altro verso, occorrerebbe un’analisi approfondita della “popolazione carceraria”, della provenienza dei detenuti, dei reati che conducono al carcere e, quindi, dei possibili interventi deflattivi. Credo che dobbiamo superare quella sorta di “cecità” nei confronti della parte speciale con la quale viene affrontato il tema delle pene. Voglio dire che in quasi tutti gli interventi deflattivi dalla l. n. 689 del 1981 in poi il modello adottato è stato quello delle soglie di pena e delle esclusioni per alcuni specifici reati sottratti all’applicazione dei regimi punitivi extracarcerari di volta in volta introdotti (l’esempio più noto è il catalogo di reati dell’art. 41-bis). Così si “strappa lungo i bordi” ma gli affluenti principali dell’overcrowding non vengono mai davvero colpiti con il risultato finale che gli effetti deflattivi spiegano effetti solo nel breve periodo. È la solita logica, in fondo, di affrontare problemi strutturali con soluzioni emergenziali, tampone, mai davvero risolutive. Come ha scritto Winfried Hassemer: la speranza in un mondo non punitivo rischia di essere irresponsabile e cinica. Il «mondo privo di punizioni … non esiste. … È vero: è bello sognare un mondo in cui l’agnello riposa accanto al leone. Ma non ci si può permettere di confondere l’idillio di pace dipinto dall’antico maestro con la nostra realtà di domani e dopodomani». Oggi i reati che conducono al carcere fanno capo prevalentemente a tre macro-categorie: spaccio e traffico di sostanze stupefacenti; reati contro la persona e contro il patrimonio. Oggi possiamo ridurre la carcerizzazione dei reati appartenenti alle ultime due categorie ma per il momento i margini di manovra sono ridotti. Una prospettiva di deflazione più significativa si schiuderebbe se avessimo il coraggio di interrogarci, anche in prospettive europea, sulla possibilità di articolare una graduale introduzione di alternative alla penalità o comunque al carcere nella materia (non dico del traffico, ma perlomeno) della cessione delle sostanze stupefacenti, così come sempre nella medesima ottica non solo nazionale, dovremmo riflettere sul fatto che la percentuale degli stranieri reclusi nei nostri penitenziari (stabilmente pari a circa il 35%) è di gran lunga superiore alla media europea (21%). Certo le differenze hanno molteplici fattori. I numeri vanno letti con la consapevolezza della complessità dei fenomeni; ma è fin troppo evidente che ridurre per quanto possibile questo divario significherebbe davvero introdurre una soluzione strutturale al problema del sovraffollamento carcerario.
A gennaio del corrente anno, la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura la proposta Pittalis e altri in tema di prescrizione. Il tratto saliente del documento sembra l’abolizione della improcedibilità e il ritorno alla sospensione temporanea del corso della prescrizione nei giudizi di impugnazione. Che giudizio dà di questa eventuale riforma?
Sono stato un critico severo della riforma introdotta dalla l. n. 3 del 2019 (c.d. spazzacorrotti), che la riforma Cartabia ha in parte superato articolando un mesh up con la riforma c.d. Orlando, non privo di elementi acutamente problematici. La combinazione, o meglio la giustapposizione “compromissoria” tra prescrizione sostanziale e improcedibilità (ovvero prescrizione processuale) presenta(va) elementi disfunzionali che occorre correggere. L’aggiustamento della proposta Pittalis è in sostanza il ritorno al sistema della legge ex Cirielli. È una soluzione di cui apprezzo la “filosofia” di fondo ma non mi convince del tutto per due ragioni. Condivido la decisa riaffermazione del carattere sostanziale del tempori cedere, riconosciuto anche dalla Corte costituzionale. Se non ci riusciamo nel breve periodo, in quello lungo dovremmo guardare ad una disciplina che, ferme restando le mai eliminabili le reciproche interconnessioni tra dimensione sostanziale e processuale, definisca i tempi del giudizio in funzione di quelli della ragionevole durata della prescrizione e non il contrario. La prima ragione di dissenso, invece, è che la l. n. 252 del 2005 adotta il criterio di rapportare la durata della prescrizione alla misura pena edittale senza considerare che – l’ha detto benissimo Tullio Padovani parlando di “disintegrazione del sistema sanzionatorio” – nella dosimetria delle cornici edittali oramai regna il più assoluto disordine; la seconda è che la proposta Pittalis oblia del tutto le ragioni che condussero alla riforma Orlando che – tutto sommato, in un’ottica short term – articolava una soluzione equilibrata del problema, perlomeno per i reati con il termine prescrizionale di 6 anni.
* Avvocato penalista, Professore ordinario di diritto penale, coordinatore dell'Osservatorio Corte costituzionale dell'UCPI.