24 dicembre 2020

BUONE FESTE



Foro e Giurisprudenza, il blog giuridico della Camera Penale di Trapani, si ferma per le Festività.

Le pubblicazioni riprenderanno nel 2021.

A tutti voi i nostri Auguri di un sereno Natale e Felice 2021

23 dicembre 2020

Corte Costituzionale sentenza n. 278/2020 (dep. 23/12/20) - EMERGENZA COVID: LA SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE NON VIOLA IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ PERCHÉ LEGATA ALLA SOSPENSIONE DEI PROCESSI

La sospensione della prescrizione disposta dai decreti legge n. 18 e n. 23 del 2020, emanati per contrastare l’emergenza COVID-19, non è costituzionalmente illegittima in quanto è ancorata alla sospensione dei processi dal 9 marzo all’11 maggio 2020, prevista per fronteggiare l’emergenza sanitaria. La cosiddetta “sospensione COVID” rientra infatti nella causa generale di sospensione della prescrizione stabilita dall’articolo 159 del Codice penale - che prevede, appunto, che il corso della prescrizione rimanga sospeso ogniqualvolta la sospensione del procedimento o del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge - e quindi non contrasta con il principio costituzionale di irretroattività della legge penale più sfavorevole.

È uno dei passaggi della sentenza n. 278 depositata oggi (redattore Giovanni Amoroso), con cui la Corte costituzionale – come già anticipato nel comunicato stampa del 18 novembre scorso - ha dichiarato in parte non fondate e in parte inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma sull’applicabilità della sospensione della prescrizione anche ai processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, per il periodo 9 marzo -11 maggio 2020.

In particolare, il Giudice delle leggi ha dichiarato la non fondatezza delle questioni con riferimento al principio di legalità sancito dall’articolo 25 della Costituzione, mentre è stata dichiarata l’inammissibilità con riferimento ai parametri europei richiamati dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

Il principio di legalità – ha precisato la Corte - richiede che l’autore del reato non solo debba essere posto in grado di conoscere in anticipo quale sia la condotta penalmente sanzionata e la pena irrogabile, ma, si legge in un passaggio della sentenza, “deve avere anche previa consapevolezza della disciplina concernente la dimensione temporale in cui sarà possibile l’accertamento del processo, con carattere di definitività, della sua responsabilità penale (ossia la durata del tempo di prescrizione) anche se ciò non comporta la precisa determinazione del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione”.

In tema di sospensione della prescrizione, l’articolo 159 del Codice penale “ha una funzione di cerniera”, spiega la sentenza, perché contiene, da un lato, “una causa generale di sospensione” che scatta quando la sospensione del procedimento o del processo è imposta da una particolare disposizione di legge, e, dall’altro lato, un elenco di casi particolari.

Nelle vicende da cui sono nate le questioni portate all’esame della Corte, opera proprio tale causa generale di sospensione.

La temporanea stasi ex lege del procedimento o del processo determina, in via generale, una parentesi del decorso del tempo della prescrizione, le cui conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Così come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, per tutelare l’equilibrio dei valori in gioco è sospeso anche il termine per l’indagato o per l’imputato.

La Corte, nel ricondurre la nuova causa di sospensione del processo alla causa generale prevista dall’art. 159 del Codice penale – come tale applicabile anche a condotte pregresse - ha poi precisato che essa non può decorrere da una data anteriore alla legge che la prevede.

Nella sentenza si legge, infine, che la breve durata della sospensione dei processi, e quindi del decorso della prescrizione, è pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo. Inoltre, sul piano della ragionevolezza e della proporzionalità, la norma è giustificata dalla tutela del bene della salute collettiva per contenere il rischio di contagio da COVID-19 in un momento di eccezionale emergenza sanitaria.

Il comunicato del 23 dicembre 2020 al 👉🏻 link

La Sentenza n. 278/2020 al 👉🏻 linkGiudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Presidente: CORAGGIO - Redattore: AMOROSO Udienza Pubblica del 18/11/2020;    Decisione  del 18/11/2020 Deposito del 23/12/2020;   Pubblicazione in G. U. Norme impugnate: Art. 83, c. 4°, del decreto-legge 17/03/2020, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 24/04/2020, n. 27, e art. 36, c. 1°, del decreto-legge 08/04/2020, n. 23, convertito, con modificazioni, nella legge 05/06/2020, n. 40.

PROSPETTO DEI CONTRASTI DI GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE (AGGIORNATO AL 30 NOVEMBRE 2020)


A cura dell'Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di Cassazione pubblichiamo il prospetto - questioni di diritto penale sostanziale e di diritto processuale penale - dei contrasti giurisprudenziali aggiornato al 30 novembre 2020.

Al 👉link Rel. 96/20 prima parte questioni sostanziali

Al 👉link Rel. 96/20 seconda parte questioni processuali


22 dicembre 2020

Reato ed illecito disciplinare: la decorrenza della prescrizione


Se il procedimento disciplinare origina da fatti sanzionati in sede di giurisdizione domestica, il termine di prescrizione decorre dalla commissione del fatto.

Se invece il procedimento disciplinare origina da fatti di reato in relazione ai quali sia stata esercitata l'azione penale, ed abbia come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata l'imputazione, l’azione disciplinare è collegata alla pronuncia penale ed ha natura obbligatoria. Ne segue che essa e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta. 

Fa eccezione il caso in cui il termine di prescrizione dell'azione disciplinare  sia già maturato alla data di esercizio dell'azione penale.

Invero <<.. Ai sensi dell'art. 51 del r.d.l.n. 1578 del 1933, l'azione disciplinare si prescrive nel termine di cinque anni e nel caso in esame lo stesso era già maturato al momento della formulazione della imputazione. Queste Sezioni Unite hanno chiarito che «agli effetti della prescrizione dell'azione disciplinare di cui all'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, recante l'ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, occorre distinguere il caso, previsto dall'art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall'art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e 7 Corte di Cassazione - copia non ufficiale RG n 19206/2020 per i quali sia stata iniziata l'azione penale. Nel primo caso, in cui l'azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo, invece, l'azione disciplinare è collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta» (Cass., S.U., n. 10071 del 2011; Cass., S.U., n. 14985 del 2005). A tale principio ha fatto riferimento il CNF nella sentenza impugnata; ma risulta evidente la non pertinenza del principio in questione rispetto al caso di specie, atteso che al momento dell'esercizio dell'azione penale nei confronti della ricorrente (23 maggio 2003) il termine prescrizionale dell'illecito disciplinare era interamente decorso. Il richiamato principio può operare nel solo caso in cui il termine di prescrizione dell'azione disciplinare non sia maturato al momento dell'esercizio dell'azione penale o in quello, anteriore, della formulazione di una imputazione per il medesimo fatto ... PQM La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata senza rinvio, dichiarando estinto per intervenuta prescrizione l'illecito disciplinare contestato>>.

Corte di Cassazione (pres. Travaglino, rel. D’Antonio), SS.UU, sentenza n. 28386 del 14 dicembre 2020




21 dicembre 2020

Pena illegale di favore: la diminuente per il rito va riconosciuta nella misura di legge. Scongiurato l'attacco all'eliminazione del divieto di reformatio in pejus


Avevamo anticipato (al 👉 link) che il 17 dicembre 2020 le Sezioni Unite si sarebbero pronunciate sulla questione rimessa dalla prima Sezione penale (ordinanza n. 27711 del 6 ottobre 2020), relativa alla seguente questione: <<Se il giudice di appello, investito dell'impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l'illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, debba applicare detta diminuente nella misura di legge pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia illegale perché in violazione delle previsioni edittali, e di favore per l'imputato>>.
Dall'informazione provvisoria - al momento è disponibile il solo esito-, alla questione è stata data soluzione "affermativa".

Il caso sottostante era il seguente: processato con il rito abbreviato per la contravvenzione prevista e punita dall'art. 699 comma 2 c.p., l’imputato era stato condannato in primo grado per tale titolo di reato ma gli era stata irrogata la pena (più favorevole) prevista dal comma 1 della norma.
Aveva appellato la condanna il difensore dell’imputato devolvendo la questione della mancata applicazione della diminuente del fatto di lieve entità prevista dall'art. 4 L. 110 del 1975. La Corte d’appello aveva riqualificato il fatto sussumendolo nel citato illecito contravvenzione dell’art. 4 cit.. Tuttavia, nonostante la pena irrogata in primo grado fosse stata illegale per non essere stata applicata la riduzione della metà (giudizio abbreviato) in presenza di reato contravvenzionale, la Corte d’appello aveva confermato il quantum condannatorio per essere la pena irrogata in prime cure più favorevole all’imputato rispetto a quella prevista in sussunzione (art. 4 cit.).
In sostanza, la decisione della Corte d’appello aveva privilegiato il principio del divieto di reformatio in pejus e il favor rei, pur a fronte di una pena illegale ma di favore.
Con il ricorso per Cassazione l’imputato aveva dedotto la violazione di legge per non essere stata applicata, dopo la riqualificazione del fatto nell'art. 4 cit., la diminuente della metà della pena prevista  dall'art. 442 comma 2 c.p.p..
La questione, oltre al divieto di reformatio in pejus involgeva anche la regola dell’art. 597 comma 4 c.p.p. che di quel divieto è completamento e rafforzamento.
Ed era stato proprio questo aspetto a “sollecitare” la rimessione della questione alle Sezioni Unite, dubitando la sezione rimettente se il giudice potesse manipolare in pejus la pena illegale di favore in assenza di impugnazione del PM.
Come detto, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudice deve applicare la diminuente nella misura di legge (nel caso di specie con riduzione della metà) anche quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia illegale e di favore per l'imputato.

20 dicembre 2020

Menù prescrizione Covid: la quinta sezione si adegua all'informazione provvisoria delle SS.UU.



In questo blog si è già dato conto dei diversi arresti delle sezioni semplici, in ordine alla c.d. prescrizione Covid” nel procedimento innanzi alla Corte di Cassazione, ex art. 83 L.27/2020. Nella medesima occasione si è riferito della informazione provvisoria resa dalle Sezioni Unite del 26.11.2020 sul tema (al link).

Nelle more della pubblicazione della motivazione resa dal massimo consesso nomofilattico, la quinta sezione, con stringata motivazione, ha nuovamente preso posizione sul tema (Corte cassazione V pen. n. 36016/2020).

Per una migliore intelligenza della decisione, si rileva che originariamente l’udienza era calendata per il 13.03.2020, quindi in una data ricompresa nel periodo di sospensione ope legis, e poi rinviata al successivo 16.12., e quindi ad epoca successiva al termine della c.d. fase cuscinetto.

Si poneva dunque la questione se, nonostante la smentita del suo arresto operata, per quanto riportato dall’informazione provvisoria, dalle Sezioni Unite, la quinta sezione avrebbe confermato il suo precedente orientamento, espresso dalla sentenza n. 31269, secondo cui, a fronte di una udienza calendata nella prima fase di sospensione e differita ad epoca successiva al termine della II fase, si configuri un unico termine di sospensione, giacché una volta adottate le misure devolute ai Capi degli uffici giudiziari, il periodo di rinvio obbligatorio- dal 12 maggio al 30 giugno- si salda con il primo (09 marzo- 11 maggio), previsto indistintamente a livello nazionale.    

Orbene, seppure senza richiamare le ultime Sezioni Unite, né invero il proprio precedente arresto, la Corte ha chiarito che la durata della sospensione della prescrizione <<deve ritenersi limitata ai 64 giorni decorrenti dal 9 marzo all’11 maggio 2020>>, non potendosi la stessa estendere al periodo della c.d. fase cuscinetto (ricompreso tra il 12.05. e il 30.06.2020).

Al riguardo la sentenza che si annota pare fondare il suo ripensamento sul disposto del comma IV dell’ art. 83, L.27/20, a mente del quale la sospensione del corso della prescrizione opera per lo stesso periodo in cui ricorre quella dei termini processuali di cui al comma II dell’art. 83, dovendosi escludere ogni ultra attività della sospensione.

Sul punto dunque la sezione semplice conforma il suo orientamento a quello delle Sezioni Unite, per come riportato nell’informazione provvisoria.   

19 dicembre 2020

La Giurisprudenza CEDU in materia penale: effetti e strumenti nell'ordinamento italiano ((il video del webinar)

Il video con la registrazione del convegno al 👉 link

La Camera penale di Trapani ha organizzato il webinar "La Giurisprudenza CEDU in materia penale: Effetti e strumenti nell'ordinamento italiano". 

Ringraziamo i Relatori: il Dott. Raffaello Magi, le Professoresse Paola Maggio, Annalisa Mangiaracina, Lucia Parlato e Licia Siracusa e gli Avvocati Valentina Alberta e Stefano Giordano.

Il video con la registrazione del convegno al 👉 link





18 dicembre 2020

Elezione di domicilio, notifica al difensore di fiducia ed emergenza sanitaria in un’ordinanza del Tribunale di Palermo. Nota a Tribunale Palermo del 17.11.2020 - di Guido Colaiacovo (*)


Il legislatore, nel tentativo di superare definitivamente il millenario istituto della contumacia, ha introdotto con la riforma del 2014, una nuova disciplina del procedimento nei confronti dell’assente costruita sulla base di rimedi di carattere preventivo e restitutorio (sul tema, ex plurimis, sulla l. 28 aprile 2014, n. 69, Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, Giappichelli, 2014, nonché, più di recente, Rombi, Il diritto alla presenza processuale. Garanzie, limiti, rimedi, Cedam, 2020). 
I primi mirano ad evitare sin dal principio l’instaurazione del processo, qualora non si abbia la certezza che l’imputato è a conoscenza dell’accusa e del procedimento incardinato a suo carico, e si concentrano nelle previsioni contenute negli artt. 420-bis, 420-quater e 420-quinquies del codice di rito. 
In estrema sintesi, alla luce dei criteri indicati nell’art. 420-bis, il giudice deve valutare se l’imputato non comparso in udienza sia effettivamente a conoscenza del procedimento; diversamente, dovrà disporre delle nuove ricerche attraverso la polizia giudiziaria e, qualora anche tale approfondimento si rivelasse infruttuoso, sospendere il processo per irreperibilità dell’imputato, disponendo, poi, a cadenze prefissate, delle nuove ricerche. I secondi, invece, intervengono successivamente, nell’ipotesi in cui non abbiano funzionato i primi, e si estendono fino a consentire l’esperimento dell’impugnazione straordinaria regolata ora dall’art. 629-bis c.p.p. (sulla conformazione di tale istituto, dopo la modifica ad opera della l. 23 giugno 2017, n. 103, Spagnolo, La rinnovata fisionomia della rescissione del giudicato, in Bargis - Belluta, La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Giappichelli, 2018, p.141). In questo caso, tuttavia, l’interessato - imputato o condannato - dovrà vincere la presunzione di conoscenza che discende dal compimento degli atti contemplati dall’art. 420-bis, provando di non aver avuto conoscenza del processo per cause non riconducibili a un suo atteggiamento colposo. 
L’ordinanza in rassegna, quindi, interviene nel delicato passaggio procedurale che prelude alla verifica circa i presupposti per la procedibilità in assenza, valorizzando il dato fondamentale dell’elezione di domicilio [ne abbiamo scritto su questo blog vedi il link]
Si tratta di uno snodo cruciale poiché, come si è accennato, il vaglio positivo circa la conoscenza del procedimento pone a carico dell’imputato un onere particolarmente arduo da assolvere dal punto di vista probatorio nei momenti successivi al fine ottenere una nuova celebrazione del processo (sulla giustificazione di tale impostazione, Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 36484, in Dir. pen. e proc., 2015, p. 291, con nota critica di Alonzi, Le sezioni unite sulla rescissione del giudicato). In questo frangente, a ben vedere, l’adempimento disciplinato dagli artt. 161 e 162 c.p.p. assume rilievo in una duplice prospettiva. Per un verso, infatti, indirizza il procedimento notificatorio, indicando il luogo o la persona presso la quale recapitare gli atti indirizzati all’imputato, precludendo il ricorso ad altre modalità (ad esempio, l’art. 157, comma 8-bis, c.p.p.). Come evidenzia il giudice, la puntuale esecuzione della notifica è presupposto di validità della procedura e comporta la regressione del procedimento qualora non sia stata compiuta correttamente. Sul punto, l’ordinanza segue gli insegnamenti impartiti dalla Suprema Corte a Sezioni unite: si deve a Cass., Sez. un., 27 ottobre 2004, n. 119, Palumbo, in Cass. pen. 2005, 148, con nota di VESSICHELLI, Sul regime delle nullità della notificazione all'imputato dell'atto di citazione, l’individuazione delle condizioni in presenza delle quali la patologia che affligge l’atto è assoluta e insanabile, mentre a Cass., sez. un., 24 novembre 2016, n. 7697, Amato, in Foro it., 2017, p. II, c. 434, si deve la declinazione di tale principio nel segmento introduttivo dell’udienza preliminare (in realtà, il principio era già stato enunciato da Cass., sez. un., 9 luglio 2003, n. 35358, Ferrara, in Giur. it., 2004, p. 2386, con nota di ANSELMI, L'indefettibile ruolo dell'avviso per l'udienza preliminare, ma l’insorgere repentino di un contrasto aveva imposto un nuovo intervento delle Sezioni unite). 
Per altro verso, invece, l’elezione di domicilio consegna al giudice un elemento attraverso il quale, dopo l’imprescindibile verifica circa la ritualità della notifica, compiere il giudizio circa la conoscenza del processo. Anche sul punto, sono recentemente intervenute le Sezioni unite (Cass., sez. un., 28 novembre 2019, n. 23948, sentenza al 👉link). Tale decisione, pur concernendo la peculiare ipotesi di elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio avvenuta prima della novella che ha introdotto il comma 4-bis nel testo dell’art. 162 c.p.p., ha dettato regole generali anche per l’interpretazione dell’art. 420-bis c.p.p., soprattutto laddove ha stabilito che il processo in assenza è ammesso solo quando sia raggiunta la certezza della conoscenza da parte dell’imputato e che, a tal fine, non sono consentite letture della norma che, poggiando su meccanismi presuntivi, assimilino l’attuale regime codicistico a quello previgente. Come dire che la regolarità della notifica e l’avvenuta elezione di domicilio - al pari degli altri criteri dettati dal legislatore - non consentono in via automatica di procedere reo absente. Ciò posto, appare assolutamente problematica la declinazione di tali principi nel caso di notifiche eseguite nel periodo di emergenza ai sensi dell’art. 83, commi 13 e 14, d.l. 17 marzo 2018, n. 20, conv. con modif. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27. La previsione, infatti, può divenire particolarmente problematica qualora sia interpretata come una provvisoria disattivazione delle modalità di notifica diverse dalla consegna al difensore
Una simile lettura, infatti, rischia di compromettere l’effettiva conoscenza del processo qualora la notifica riguardi l’atto introduttivo del processo. 
A prescindere dalle concrete valutazioni in fatto che riguardano il caso di specie, l’ordinanza in rassegna ha elaborato una lettura delle norme particolarmente attenta nei riguardi delle garanzie difensive, soprattutto laddove esclude che l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare possa essere notificato al difensore di fiducia e, parallelamente, ritiene che il vizio della procedura di notifica integri una nullità assoluta. 
Si tratta, invero, di accorgimenti interpretativi che assumono una particolare importanza alla luce della necessità di garantire che l’imputato, indipendentemente dal dato formale della ritualità della notifica, sia effettivamente a conoscenza del procedimento a suo carico. 


(*) Guido Colaiacovo: è Avvocato del Foro di Sulmona e Dottore di ricerca in Diritto e Procedura penale, nel 2014 presso la Sapienza - Università di Roma, e l'abilitazione scientifica nazionale per le funzioni di professore di seconda fascia, nel 2020. Attualmente è Ricercatore di diritto processuale penale nell'Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di Giurisprudenza, ed è titolare di contratto di docenza integrativa presso la Luiss Guido Carli e la Lumsa di Roma. È stato assegnista di ricerca e docente presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali della Sapienza, e presso la stessa Università collabora con la cattedra di diritto processuale penale del Professor Glauco Giostra. È autore di articoli, note a sentenza e altri contributi in opere collettanee. Nel 2015 ha pubblicato la monografia “Il latitante”, edita da Cedam, nella collana «Problemi attuali della giustizia penale», e, nel 2019, sempre nella medesima collana, la monografia «Il sistema delle misure cautelari nel mandato d’arresto europeo. La tutela della libertà personale nella procedura di consegna», nuova edizione aggiornata della precedente «Il sistema delle misure cautelari nel mandato d’arresto europeo» pubblicata nel 2018.

17 dicembre 2020

Stato di necessita e occupazione abusiva: sull'onere probatorio e sulla causa di giustificazione.



Con la sentenza Cass. pen., Sez. 2, n. 35204 del 9.10.2020, che si annota, la Corte di Cassazione precisa la ripartizione dell’onere probatorio ai fini dell’accertamento di una causa di giustificazione e ritorna sull’annoso dibattito inerente l’applicabilità dell’esimente dello stato di necessità in caso di occupazione abusiva di un alloggio

Nel caso di specie, due donne, condannate dal Giudice circondariale di Messina per occupazione abusiva di un alloggio dell’IACP, avevano interposto appello, allegando di avere occupato l’immobile all’indomani di uno sfratto per morosità, anche per tutelare una minore, con loro convivente, affetta da gravi problemi di salute. 

La Corte di appello, nel disattendere il motivo, affermava che le imputate non avevano compiutamente documentato il ricorrere delle condizioni per la configurabilità dell'invocata causa di giustificazione. 

Tuttavia per i Giudici di legittimità l’assunto della Corte distrettuale viola le regole in tema di onus probandi. Vi è invero che <<ai fini della configurazione di una causa di giustificazione, l'imputato è gravato da un mero onere di allegazione, essendo tenuto a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze altrimenti ignoti che siano in astratto idonei, ove riscontrati, a configurare in concreto la causa di giustificazione invocata; ove tale onere di allegazione sia positivamente adempiuto dall'imputato, l'onere di dimostrare la non configurabilità della causa di giustificazione invocata grava sulla parte pubblica e, nei casi in cui residui il dubbio sull'esistenza di essa, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato>>. 

Non è poi ozioso osservare che per la Corte, nel caso di specie, potrebbe ricorrere la causa di giustificazione dello stato di necessità, ex art. 54 c.p., poiché nella nozione di "danno grave alla persona" possono farsi rientrare anche alcune situazioni che, pur non minacciando direttamente l'integrità fisica dell'agente, <<attentano alla complessa sfera dei beni attinenti alla personalità morale di esso, tra le quali ben possono rientrare anche quelle connesse all'esigenza di ottenere un alloggio>>. 

E tuttavia, la Corte ha rimarcato che <<una tale interpretazione estensiva del concetto di "danno grave alla persona" … impone una attenta e penetrante indagine, diretta a circoscrivere la sfera di azione della causa di giustificazione ai soli casi in cui siano indiscutibilmente presenti gli altri elementi costitutivi della stessa, quali i requisiti della necessità della condotta antigiuridica e della inevitabilità del pericolo>>. Da ciò deriva <<che l'abusiva occupazione di un bene immobile può risultare scriminata dallo stato di necessità conseguente al pericolo di danno grave alla persona, sempre che ricorrano, per tutto il tempo dell'illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l'assoluta necessità della condotta e l'inevitabilità del pericolo>>. 

In altri termini, la Corte regolatrice ha ritenuto di dover dare continuità all’arresto giurisprudenziale secondo cui la condotta dell’agente non può essere ex se giustificata <<con l'esigenza … di reperire un alloggio e risolvere i propri problemi abitativi>> (Sez. 2, sentenza n. 4292 del 21/12/2011, dep. 2012, Rv. 251800, Sez. 2, sentenza n. 10694 del 30/10/2019, dep. 2020, Rv. 278520). 

Epperò, anche lì dove lo stato di necessità fosse sussistito soltanto in fase genetica, il Giudice del merito dovrebbe comunque accertarne la ricorrenza e il tempo dell’avvenuta cessazione, dovendo tenerne conto <<agli effetti della commisurazione del complessivo trattamento sanzionatorio>>. 

Sia consento osservare, che pur apprezzando le precisazioni in tema di ripartizione dell’onore probatorio e le caute aperture in tema di ricorrenza del reato di occupazione abusiva, sembra restare irrisolto un nodo posto dalla littera legis, a mente della quale l’occupazione è un fine del delitto di invasione e non la condotta che integra il reato o lo protrae. 

A margine, trattandosi di un tema cui questo blog è particolarmente interessato, si rileva che sebbene i ricorsi siano stati accolti con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata, la parte pubblica aveva invocato la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni.

16 dicembre 2020

Ritorno al futuro: l'eterna lotta di Oralità e Immediatezza contro Cartolarità. Le aporie tra il primo grado e l'appello nell'A.D. 2020 - di Marco Siragusa


Questa è la storia dell’eterna lotta che, senza scomodare i massimi sistemi, ha attraversato la storia degli ultimi trent’anni del codice di procedura penale.

In esordio fu rivoluzione copernicana: oralità e immediatezza, contraddittorio per la prova e diritto di difendersi provando avrebbero qualificato il nuovo statuto epistemologico della prova.
Ma fu vita breve: ancora in fasce, la nuova procedura penale venne “aggredita in culla”. Con un gioco di prestigio si cavò dal cilindro dell’armamentario giuridico ilprincipio di non dispersione delle fonti di prova. E fu subito controrivoluzione.

Dopo due modifiche normative all’art. 513 c.p.p. e un (intermedio) aggiornamento della Carta Costituzionale, vide la luce la legge sul giusto ed equo processo.

Com'è noto, tra le tante novità, quella legge introdusse la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (c.d. B.A.R.D.). Per condannare un cittadino che si presume innocente, non devono residuare dubbi. Se ve ne sono, si decide in favore di chi è accusato (in dubio pro reo).
Quella regola recava in sé un principio di stretta logica: se nel medesimo processo un giudice ha detto “colpevole” e un altro ha detto “innocente”, c’è un dubbio ragionevole. In corollario, se l’imputato è stato assolto dal primo giudice di merito, il pubblico ministero non può appellare per ribaltare la decisione.
La legge non passò alla verifica della Corte Costituzionale e la pubblica accusa (ri)ottenne il diritto di provocare il ribaltamento di merito della pronuncia assolutoria.
In quel contesto risaltò evidente come il nostro giudizio di appello fosse un ibrido infelice con evidenti caratteristiche inquisitorie che nelle ipotesi di riforma della sentenza assolutoria su appello del pubblico ministero privava alcuni imputati della possibilità di ottenere una revisione di merito della sentenza di condanna. In casi simili, infatti, all’imputato è sottratta la possibilità di ottenere una revisione nel merito della res judicanda (Nuzzo F., L’appello nel processo penale, Milano, 2008, p. 40).

Non era tutto. 
Accadeva anche che la pronuncia in riforma dell’assoluzione fosse pronunciata da un giudice che aveva soltanto “letto” le prove assunte in primo grado. 
Un giudice, quindi, a conoscenza “depotenziata” rispetto a quello di prima istanza, perché privato dei c.d. metadati di conoscenza. Con buona pace del principio del giusto processo costituzionalizzato all’art. 111.

Dove non arrivammo noi, la controriforma la impose la Corte EDU
Su tutte la nota decisione Dan contro Moldavia del 5 luglio 2011 (la prima, poiché qui parleremo anche della seconda).

Val la pena ricordare i principi delineati da quella sentenza:

● Riconoscere “il diritto all'udienza”;
● Stabilire il “contatto diretto” con la fonte testimoniale;
●In entrambi i casi col fine di evitare il “depauperamento” delle chanche difensive.

Lo statuto “europeo” è quindi nel senso di riconoscere un diritto soggettivo all'imputato ad aver riassunta la prova dichiarativa, nel caso in cui la sentenza di appello effettui un overturning della sentenza di primo grado, con la ratio di assicurare il principio di immediatezza secondo un meccanismo di rilevabilità d'ufficio.

Il principio venne recepito dalle SSUU Dasgupta e da esse declinato sul versante della regola di giudizio del dubbio ragionevole e della motivazione rafforzata (SSUU Mannino) anziché su quello del diritto all’udienza di riassunzione della prova che ne diveniva quindi conseguenza.
Prova ne sia che l’arresto fu “esteso” anche ai casi di giudizio abbreviato, nel quale si rinuncia all’udienza orale e al contraddittorio per la prova (SSUU Patalano).
Il principio venne infine positivato dalla riforma Orlando (603 comma 3 bis c.p.p.) e resistette all’ultimo assalto (le Sezioni Unite intervennero, ancora, a riforma Orlando in vigore, con la sentenza Troise).

Dopo una pronuncia della Corte Costituzionale, una riforma codicistica e ben tre sentenze a Sezioni Unite, la regola appare così stabile da costituire un’eccezione allo “sgarrupato” articolo 23 del decreto legge Ristori bis sull’appello cartolare pandemico: in appello non si può riformare un’assoluzione se non ristabilendo il contatto con la fonte dichiarativa [ne abbiamo scritto su questo blog al link 👉Se riformi, rinnovi. Istruzioni per il giudice di appello. Immediatezza, oralità, ragionevole dubbio e motivazione rafforzata - di Marco Siragusa].
Il che, detto altrimenti, è il riconoscimento della prevalenza del metodo epistemologico del contraddittorio per la formazione della prova.

Bene, direte voi: ormai sembra vinta la battaglia di Oralità e Immediatezza contro Cartolarità
Ma sbagliereste!

Lasciando da parte il “papocchio” dell’appello cartolare pandemico, v’è che in primo grado Cartolarità s’è presa la sua rivincita, riuscendo nella titanica (?) impresa di persuadere della sua bontà le Sezioni Unite Bajrami [ne abbiamo scritto su questo blog al link 👉Funzione nomofilattica e funzione nomopoietica: una colta e accurata lettura critica della sentenza Bajrami - di Nicola Russo].

Neppure la Corte Costituzionale aveva osato (sentenza n. 132/2019) attentare alla riserva legislativa e mettere al bando la chiara regola dell’articolo 525 c.p.p..
Ma il seme cartolare, cioè la non indispensabilità della rinnovazione istruttoria in primo grado nel caso di mutamento del giudice, trovava le sue ragioni ideologiche nello statuto del processo penale che ANM aveva divulgato il 10 novembre del 2018 (par. 4 di quel documento).
Non era dunque difficile prevedere come sarebbe finita la storia ...

Quel che è oggi:
  • in primo grado non si “rinnova” con le limitazioni della Bajrami;
  • in appello si rinnova prima di ribaltare la decisione assolutoria appellata dal pubblico ministero o dalla parte civile per questioni attinenti la valutazione della prova.
Vi pare che vi sia coerenza? Soprattutto laddove si consideri che la rinnovazione in appello fonda sulla maggiore affidabilità epistemologica del metodo? O dovremmo concludere che in primo grado al giudice subentrante è sufficiente leggere, mentre al giudice di appello è necessario rinnovare?
Non è che siamo fuori da ogni regola di coerenza? Che abbiamo abbandonato i princìpi? Che, a voler malignare, le due regole, incompatibili, si “tengono” sulla riforma della prescrizione che “rallenta e blocca” il tempo in appello?

Così è, se vi pare.
Intanto, la Corte EDU riporta la barra sul piano dei principi.

Il 10 novembre 2020 (per una coincidenza a due anni esatti dal documento dell'A.N.M. del 10.11.2018, ndr) è stata depositata la seconda sentenza del signor Dan, ancora una volta vittoriosa, contro la Moldavia.
L’ha commentata per Giurisprudenza penale la collega Marina Silvia Mori [ne abbiamo scritto su questo blog al link 👉 Dan contro Moldavia, il sequel - di Marina Silvia Mori].

La sentenza sarà foriera di novità sul formante giurisprudenziale interno e (forse) aiuterà a porre rimedio al brutto pasticcio della procedura penale italiana che ha perso il filo dei principi e confonde Oralità/Immediatezza e Cartolarità nei due gradi del merito.
La Corte EDU non ha invece dubbi sulla migliore qualità del metodo di conoscenza orale.

L’eterna lotta è destinata a continuare ...


Con l'occasione, segnaliamo il webinar di Camera penale di Trapani di venerdì 18 dicembre 2020. Vi aspettiamo su ZOOM. Iscrizioni al link 👉 La Giurisprudenza CEDU in materia penale: effetti e strumenti nell'ordinamento italiano

15 dicembre 2020

Il visto del responsabile finanziario esclude il peculato da c.d. disponibilità giuridica

Il Caso. Un dirigente comunale è stato condannato, con doppia conforme, per il delitto di peculato continuato (artt. 81, 314 cod. pen.), in relazione ad una vicenda che riguarda l'autoliquidazione di compensi nella quale, tra le altre cose, avrebbe omesso di astenersi in presenza di un interesse proprio. 

Il Ricorso. Ricorre per la cassazione della condanna, deducendo - per quel che qui rileva - la violazione della legge sostanziale (art. 314 cod. pen.) in relazione alla affermata disponibilità giuridica delle somme e per avere i giudici di merito erroneamente ritenuto che i visti di regolarità contabile e copertura finanziaria apposti alle determinazioni di autoliquidazione costituissero controlli meramente formali. Da tale doglianza, il ricorrente deduce che egli non aveva la disponibilità giuridica delle somme oggetto di contestazione e che la condotta non integrava il delitto di peculato. 

La sentenza. La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza n. 34776 ud. 22.9.2020, dep. 7.12.2020, Pres. P. Di Stefano, Rel. O. Villoni, Ric. Meloni, accoglie quest'ultimo motivo di ricorso e cassa senza rinvio la pronuncia di condanna.

La motivazione e i principi di diritto. La sentenza osserva preliminarmente come <<l'indubbia peculiarità della fattispecie non possa far velo all'essenza del delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen., che consiste nell'appropriazione da parte del soggetto qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) di denaro o cosa mobile di proprietà altrui (soggetto pubblico o privato, sul tema v. per tutte Sez. 6, sent. 4 Corte di Cassazione n. 20132 del 11/03/2015, Varchetta, Rv. 263547 in fattispecie di appropriazione di denaro di privati da parte di notaio) di cui abbia la disponibilità, materiale e/o giuridica; appropriazione, inoltre, che s'invera tendenzialmente in assenza di controlli esterni, situazione quest'ultima che facilita e consente una più agevole interversione del possesso della res da parte dell'agente>>.

In effetti, la questione oggetto del giudizio riguarda proprio il concetto di cd. disponibilità giuridica da parte dell'agente qualificato di somme di denaro oggetto delle determinazioni di autoliquidazione del compenso atteso che <<il nucleo dell'accusa mossa al ricorrente consiste, infatti, nell'essersi attribuito autonomamente emolumenti retributivi che non gli competevano>>.

La Corte territoriale, condividendo la statuizione del primo giudice aveva stabilito che le determinazioni adottate dall'imputato <<furono sottoposte ad un mero visto di regolarità contabile e copertura finanziaria, limitato alla verifica della sussistenza e capienza del titolo di spesa, senza alcun controllo di piena legalità ...>>.

Sul punto, in modo ineccepibile, la Corte di legittimità ricorda come <<Il Testo Unico sugli Enti Locali d. Igs. n. 267 del 18 agosto 2000 impone per contro l'espressione di un parere tecnico necessario da parte del servizio interessato ed uno congiunto del servizio ragioneria (art. 49, comma 1) quando la proposta di deliberazione comporti un impegno di spesa nonché l'espletamento di controlli effettivi e di riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione da parte del servizio finanziario dell'ente locale (art. 184, comma 4)>>, con la conseguenza che <<risulta invero arduo qualificarli momenti di controllo irrilevanti quando non inesistenti>>.

La conclusione è nelle premesse: <<ai fini di una piena riconducibilità della condotta ascritta al ricorrente all'ipotesi di reato di peculato, il requisito della cd. disponibilità giuridica, impregiudicati i profili di illegittimità delle Determinazioni adottate in violazione di regole di contabilità pubblica (pagg. 24-25 sentenza), di previsioni di contrattazione collettiva (pagg. 27-28) o in contrasto con norme primarie di altra fonte (art. 24 d. Igs. n. 165 del 2001), che non spetta, tuttavia, a questa Corte di Cassazione sindacare in questa sede processuale ma che non postulano necessariamente la sussistenza del delitto di cui all'art. 314 cod. pen.>>.

Scarica la sentenza al link 👉 Cass. pen. Sez. VI 34776/2020


 

 

14 dicembre 2020

Dan contro Moldavia, il sequel - di Maria Silvia Mori (ringraziamo Giurisprudenza Penale)


Nel mese di novembre 2010 è stata depositata la seconda sentenza del signor Dan, ancora una volta vittoriosa, contro la Moldavia.

L’ha commentata per Giurisprudenza Penale la collega Marina Silvia Mori


È facile prevedere che la sentenza sarà foriera di novità sul formante giurisprudenziale interno e (forse) aiuterà a porre rimedio alla perdita di identità della procedura penale italiana.

  • Scarica il contributo al 👉 link
  • Scarica la sentenza Dan c. Moldavia n. 2 al 👉link
  • Vedi anche Lorefice c. Italia al 👉 link 
  • Vedi anche Monolachi c. Romania al 👉 link 

13 dicembre 2020

Il Disegno di legge del Ministro Bonafede: le riflessioni di Daniele Livreri


Qualche giorno fa un collega mi diceva che ormai la domenica scruta il tempo e se vede il cielo uggioso si aspetta un mio contributo più o meno delirante – in realtà lui è stato più cortese - su questo blog. Non accennando il tempo atmosferico a mutare continuo a scrivere. 

Ho scelto come passatempo l’amena lettura del disegno di legge presentato dal Ministro Bonafede per la  “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”.  Già il titolo non mi pare ben formulato: perché l’obiettivo della celere definizione dovrebbe riguardare il solo processo di secondo grado? 

Ma in ogni caso, intraprendo la lettura della presentazione del Disegno di legge, rimanendo ben presto sorpreso dalla descrizione della riforma in tema di regole di giudizio per l’esercizio dell’azione penale e di adozione del decreto che dispone il giudizio. 

Questa la frase che mi colpisce: <<non sarà più richiesta la sola sostenibilità dell’accusa in giudizio quale parametro per l’esercizio dell’azione penale o per il rinvio a giudizio, ma occorrerà che il pubblico ministero e il giudice dell’udienza preliminare siano in grado di prevedere che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile. Attraverso la formulazione di tali stringenti regole di giudizio si intende evitare inutili esperienze processuali destinate sin dall’origine ad avere esiti assolutori scontati>>.

Francamente mi pare che se questo è l’animus sotteso alla novella è meglio lasciar perdere, almeno per questa parte della riforma. 

In sostanza, nell’intento di deflazionare il numero di processi, dovremmo anzitutto trasformare l’imputato in un presunto colpevole, perché mi pare che di questo si tratti, ove il rinvio a giudizio sia emesso a seguito di un giudizio prognostico di condanna e non di mera valutazione sulla sostenibilità dell’accusa. 

Non poco mi stupisce poi che un Giudice sia chiamato a operare una prognosi sull’esito del giudizio a prescindere dalle prove offerte dalla difesa o anche dalla sola acquisizione delle prove in contraddittorio.   

Proviamo inoltre ad immaginare cosa significherebbe per l’imputato l’esercizio dell’azione penale o peggio ancora il rinvio a giudizio in un processo che riscuota un qualche interesse mediatico. Ed ancora siamo sicuri che tutto ciò non possa avere seri riflessi lavorativi o amministrativi per il rinviato a giudizio?       

Peraltro, il giudizio prognostico di condanna, salvo una mia cattiva lettura, sarebbe immotivato e forse è anche giusto, se il rinvio a giudizio resta un mero atto di impulso processuale. Ma in tal modo l’imputato non potrebbe neppure capire sulla scorta di quale ragionamento egli è diventato un “colpevole che cammina”.  

Mi pare poi che anche oggi se l’esito assolutorio appare scontato, il Pubblico Ministero e il Giudice abbiano strumenti per evitare che il procedimento prosegua.

A fronte di tutto ciò non credo neppure che la invocata riforma possa deflazionare il carico processuale: davvero qualcuno pensa che, a numeri invariati, si possa pretendere che il PM e il GUP possano condurre il giudizio richiesto nel disegno di legge del Ministro? Ma, sul piano delle garanzie, questo è davvero l’ultimo degli argomenti.    

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