22 febbraio 2021

“Codice Rosso” e fenomenologia della legislazione emergenziale. Brevi considerazioni a distanza di più di un anno dall’entrata in vigore della L. 19 luglio 2019, n. 69 - di Simone Alecci (*)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo del dott. Simone Alecci, GIP del Tribunale di Palermo.


La sempre più pervasiva prassi di ragionare (e giudicare) in virtù di principi e non sulla base di fattispecie esprime compiutamente il fregio sistematico nell’alveo del quale incastonare, ancora oggi ed a distanza di più di un anno dalla relativa entrata in vigore, il dibattito polarizzato sugli ingranaggi procedimentali introdotti nella trama codicistica dalla L. 19 luglio 2019, n. 69 (icasticamente etichettata come Codice Rosso).

Va sin da subito rimarcato, a scanso di equivoci e concettualismi, che un nitido approccio metodologico all’orizzonte problematico rappresentato dalla tutela della persona offesa non può prescindere dalla constatazione che la repressione (così come la prevenzione) in via prioritaria di determinati reati correlati all’ambiente familiare e alle relazioni affettive evoca i tratti di una questione culturale ancor prima che giuridica.

Tale puntualizzazione si rende necessaria allo scopo di evitare, quantomeno in chiave applicativa, che pericolose dilatazioni della discrezionalità giudiziale in ambito penalistico possano sublimare (o meglio degenerare) in spirali di populismo giudiziario (fenomeno recentemente quanto icasticamente scandagliato da scrupolosa dottrina): e, d’altronde, il tasso di democraticità di un sistema penale contemporaneo è direttamente proporzionale ad un elevato gradiente di tipicità della disposizione incriminatrice, tenuto altresì conto del fatto che il diritto è essenzialmente esercizio del riconoscere più che del conoscere (e cioè di ricondurre una fattispecie concreta ad una astratta) e che gli spazi di quella che Paolo Grossi ha definito l’invenzione del diritto (e cioè quell’attività di mediazione tra l’ordito normativo ed il nuovo che ribolle nel vivo costantemente stratificato del tessuto sociale) dovrebbero in ambito penale essere ridotti ai minimi termini (almeno sul crinale della morfologia della fattispecie, ben potendo riespandersi la discrezionalità giudiziale sul versante – a valle dell’eventuale affermazione di responsabilità - della dosimetria della pena).

Ad un primo sguardo in prospettiva sistematica (che in questa sede ovviamente non si soffermerà sullo scrutino di ciascun ritocco normativo) sembra che il legislatore perseveri in un approccio riformatore sbilanciato sul rimedio anziché sulla fattispecie (innalzando, ad esempio, gli steccati massimi edittali dei delitti di maltrattamenti ed atti persecutori al precipuo fine – sicuramente apprezzabile in chiave di tutela della persona offesa – di prolungare i termini di durata massima delle misure cautelare), tralasciando tuttavia di considerare che un simile intervento, ove non accompagnato da una politica di incremento di risorse umane ed economiche nel comparto giudiziario, rischia di rivelarsi una semplice folata di ossigeno nel corpo di un malato terminale.

D’altronde, è innegabile che l’assenza di qualsiasi stanziamento in relazione all’espressa previsione per cui la concessione della sospensione condizionale per i delitti da “codice rosso” è sempre subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati restituisce i tratti di un dato normativo che evoca tutt’altro che trascurabili profili di incostituzionalità.

A più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della L. 19 luglio 2019, n. 69 l’innesto nel dettato codicistico di fattispecie criminose quali quella delineata dall’art. 612 ter c.p., se per un verso riflette l’apprezzabile intento di ampliare la sfera di tutela delle cdd. fasce deboli, per altro verso sconta ancora una volta un deficit di tipicità in ordine, ad esempio, alla perimetrazione del concetto di atto a contenuto sessualmente esplicito o, ancora, all’individuazione del preciso sintagma “destinati a rimanere privati”: pare proprio, detto altrimenti, che il legislatore abbia smarrito lo slancio tassonomico esibito in passato, a titolo esemplificativo, sul fronte della pedopornografia virtuale o della diffusione di immagini pedopornografiche (allorquando si intervenne espressamente sulla trama codicistica offrendo – o quantomeno tentando di offrire - una definizione quanto più precisa e specifica dell’oggetto delle condotte al centro della tutela penale).

Non mancano, d’altra parte, ragguardevoli segni di afflato sistematico da parte del legislatore, il quale ha introdotto un ventaglio di garanzie per la persona offesa che si dipana lungo l’intero arco procedimentale (muovendo dalle indagini preliminari, con l’accelerazione dei tempi investigativi innestata agli articoli 347 e 362 c.p.p., sino ad approdare all’osmosi informativa con la giurisdizione civile imposta dall’art. 64 bis, disp. att., c.p.p., passando per la positivizzazione del concetto di violenza assistita, che, nondimeno, per la sua portata sistematica sarebbe stato opportuno inserire nella parte generale del codice e non soltanto ad appendice dell’art. 572 c.p.).

Difetta però la consapevolezza della necessità di costituire corpi di polizia giudiziaria specializzati (come accade per il contrasto delle altre forme di criminalità) nonché dell’esigenza di creare un proficuo “dialogo di rete” tra avvocatura, operatori sanitari attivi nel settore del supporto psicologico alle cdd. fasce deboli e magistratura, così come difetta – giova ribadirlo – un’autentica visione di riforma organica di un microsistema di tutela che, ove non foraggiato a livello economico tramite l’irrobustimento delle risorse umane chiamate a fronteggiare tali fenomeni emergenziali, rischia di tracimare in mero manifesto di populismo politico (e giudiziario).

Incomprensibile, poi, appare il mancato intervento sulla morfologia dell’art. 387 bis c.p., non essendo stata ancora innestata una disposizione che legittimi l’esecuzione della misura precautelare dell’arresto in flagranza nei confronti dell’autore della violazione delle prescrizioni avvinte alle misure non custodiali tratteggiate dall’art. 282 bis e 282 ter (violazione che non smarrisce la sua pregnanza antigiuridica – come è stato precisato dalla giurisprudenza di legittimità, evidentemente valorizzando il bene giuridico costituito dall’efficacia del provvedimento giudiziario – nemmeno allorquando il titolo genetico sia annullato dal Tribunale della Libertà).

Ed ancora, non si può certamente fare a meno di rimarcare che alcuni ritocchi normativi sul piano sostanziale (cui il legislatore non ha posto rimedio neanche in tempi recenti) hanno inciso in termini tutt’altro che positivi sul crinale processuale: si allude, ad esempio, alla “nuova” competenza collegiale per le fattispecie di maltrattamenti aggravate ai sensi del secondo comma dell’art. 572 (e, segnatamente, quelle asseritamente perpetrate ai danni ovvero in presenza di minori).

Tenendo presente che nella prassi giudiziaria le fattispecie concrete di maltrattamenti contemplano quasi sempre la presenza di minori, si ritiene opportuno proporre una modifica dell’articolo 33 ter, primo comma, del codice di procedura penale, prevedendo espressamente che la trattazione dei procedimenti per i delitti (comunque aggravati) di maltrattamenti contro familiari e conviventi ricada nello spettro di cognizione del giudice monocratico.

Tale indicazione, ove recepita dal legislatore, risponderebbe all’esigenza di assicurare un’efficace quanto rapida risposta giudiziaria ai fenomeni di violenza di genere e domestica nonché a garantire una sollecita definizione dell’istruttoria dibattimentale che, ove affidata ad un organo giudicante collegiale, determinerebbe un notevole allungamento dei tempi processuali con conseguente impossibilità di concludere il dibattimento in tempo utile ad evitare sia un’eventuale gogna giudiziaria dell’imputato sia l’estinzione della misura cautelare eventualmente applicata per il decorso del termine massimo di fase sia, infine, un ulteriore patimento rievocativo per la persona offesa (il cui contributo dichiarativo ancora oggi, purtroppo, in molte realtà giudiziarie non viene efficacemente cristallizzato in fase di indagini preliminari attraverso la capsula dibattimentale dell’incidente probatorio).

(*) Simone Alecci: 
Magistrato ordinario con funzioni giudicanti penali presso il Tribunale di Palermo dal 2017 (attualmente in servizio presso la Sezione GIP-GUP e già giudice del dibattimento nel triennio 2017-2020), è membro del comitato direttivo delle riviste “Diritto civile contemporaneo” e “La nuova procedura civile”. Laureato con lode presso l’Università degli Studi di Palermo, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Diritto Privato presso la “Scuola Internazionale Tullio Ascarelli”. E’ autore di pubblicazioni in materia di obbligazioni, di società a partecipazione pubblica nonché in tema di sovraindebitamento del consumatore.





 


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