Il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti. Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n.28 del 01 febbraio 2022 (al link), depositata oggi (redattore Francesco Viganò), con la quale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena. La Corte ha perciò ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro.
Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il Governo a modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha sottolineato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza. La norma censurata dal Tribunale di Taranto prevede che il giudice può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi con una pena pecuniaria, il cui ammontare si ottiene moltiplicando i giorni della pena da sostituire per un importo a carico dell’imputato, stabilito tenendo conto delle sue condizioni economiche. Importo che però, nella formulazione dichiarata incostituzionale, non può essere inferiore a 250 euro al giorno. La Consulta ha rilevato che, se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato. Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, allora, la sentenza sottolinea la necessità che il giudice possa sempre adeguare la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo, per evitare che risulti sproporzionatamente gravosa. Una quota giornaliera minima di 250 euro, ha proseguito la Corte, è ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone. Emblematico il caso esaminato dal Tribunale di Taranto: una persona condannata per violenza privata, per il parcheggio dell’auto davanti a un passo carraio, aveva patteggiato la sostituzione della pena di tre mesi di reclusione e quindi, in base alla norma censurata, avrebbe dovuto pagare ben 22.500 euro, molto più dei suoi redditi annui. Un coefficiente di conversione così elevato ha determinato, nella prassi dei Tribunali, una drastica compressione della sostituzione della pena pecuniaria, che è invece uno strumento prezioso per evitare che, per un reato di modesta gravità, si finisca in carcere, con effetti più criminogeni che risocializzanti. La Corte ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi.