1. La Corte d'Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa in data 11.10.2017 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato favorevolmente la pena nei confronti di M.D., per il reato di atti persecutori, in continuazione con quelli di diffamazione e sostituzione di persona, commessi ai danni di S.E., dal 2008 fino al (OMISSIS). L'imputato, amico della vittima sin da quando costei era una ragazzina di dodici anni, è stato condannato alla sanzione della reclusione pari a dieci mesi, per averle provocato uno stato d'ansia e timore, nonchè per averla costretta a cambiare le proprie abitudini di vita ed amicizie, attraverso la creazione di falsi profili facebook ed account internet, aperti a nome di lei e sostituendosi alla sua persona, mediante i quali si proponeva sessualmente in sua vece, con accanimento morboso e utilizzando notizie procuratesi sulle abitudini quotidiane della vittima, diffamandone l'onorabilità e facendo sì che ella venisse contattata da sconosciuti, i quali pretendevano che lei si comportasse così come l'apparenza creata da M. faceva presumere.
2. Propone ricorso l'imputato, mediante il difensore, evidenziando sei motivi di censura.
2.1. Il primo argomento difensivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo all'art. 195 c.p.p., comma 2.
Si prospetta l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa per la mancata audizione delle testimonianze de relato di tutti quei soggetti che, a dire della vittima dei reati, erano stati contattati con i falsi profili ed account attribuiti a costei dall'imputato, rimarcando, altresì, che i pochi testimoni di tal specie sentiti in dibattimento o avevano negato la circostanza di essere stati contattati ovvero avevano riferito di essere sicuri di aver dialogato via social con la vera S.E.. La Corte d'Appello aveva ignorato sia la specifica richiesta istruttoria avanzata dalla difesa, volta a colmare la lacuna dichiarativa, che l'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni della persona offesa. 2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione avuto riguardo agli artt. 192, 530 e 606, nonchè violazione delle norme sostanziali incriminatrici, avuto riguardo all'affermata responsabilità del ricorrente per i delitti a lui ascritti.
Si censura la mancata, congrua verifica dell'attendibilità della testimone/persona offesa, attendibilità e credibilità che andavano oltremodo esplorate in una situazione così peculiare come quella creatasi, sin dall'anno 2003, in ragione del rapporto amicale, pacificamente ammesso nel processo, che esisteva tra imputato e vittima, i quali, insieme, avevano deciso di "combinare" scherzi all'interno della loro cerchia di amicizie, sostituendosi il primo alla seconda nel mondo virtuale dei social network, fingendo di "agganciare" ragazzi con la falsa identità.
Si rappresentano, quindi, le incongruenze del racconto della vittima, riferite soprattutto all'inspiegabile iato temporale che è trascorso tra la revoca del consenso al "gioco" virtuale di ispirazione sessuale e la successiva denuncia (si tratterebbe di alcuni anni), oltre che all'implausibilità dell'inganno protrattosi per così lungo periodo, tanto da non essere verosimile che esso fosse andato avanti senza l'ausilio della ragazza. Nuovamente si evidenzia, quindi, da parte del ricorrente, la circostanza che i pochi testi di riferimento ascoltati in dibattimento avrebbero in qualche modo smentito la ricostruzione della vittima.
2.3. La terza censura attinge l'affermazione di responsabilità dell'imputato per il delitto di atti persecutori, nonostante la carenza di prova in ordine all'elemento psicologico del reato e la evanescenza di quello oggettivo.
Il ricorrente non ha mai direttamente "perseguitato" la vittima, nè con molestie, nè con minacce o altro, ma piuttosto ha ingannato i suoi ignari interlocutori, i quali, successivamente, hanno incontrato la ragazza, rivelandole, così, il suo agire illecito. Risulta, poi, che questi non ha mai avuto intenti persecutori nei confronti della vittima, ma unicamente ha voluto, con il suo agire, soddisfare proprie pulsioni di carattere sessuale, secondo quanto affermato dalla stessa persona offesa in udienza dibattimentale (il 10.6.2014).
Mancherebbero, pertanto, i due presupposti essenziali per la configurabilità del reato di stalking. 2.4. Un quarto argomento difensivo ha eccepito l'insussistenza dei reati di diffamazione e sostituzione di persona, nonchè vizio di motivazione al riguardo.
Quanto alla diffamazione, nell'istruttoria dei giudizi di merito, non è stato accertato quali siano stati i contenuti dei colloqui intercorsi tra il ricorrente ed i suoi interlocutori, sicchè non è possibile apprezzarne la portata o il tenore diffamatori; in ogni caso, il tentativo di ricostruzione di tali contenuti è pur sempre basato su dichiarazioni della persona offesa, inutilizzabili poichè de relato ma prive dell'esame del teste di riferimento.
Si ripropone, altresì, l'osservazione, già dedotta in appello e rigettata, relativa al fatto che il ricorrente, comunicando attraverso la falsa identità della vittima soltanto con una persona per volta, non avrebbe potuto integrare uno dei presupposti costitutivi del delitto previsto dall'art. 595 c.p. (la comunicazione con più soggetti).
Anche la configurabilità del reato di sostituzione di persona sarebbe implausibile, alla luce del consenso prestato dalla vittima all'utilizzazione, iniziale e prolungata, della propria identità virtuale, sia pur "per gioco".
2.5. Il quinto motivo di ricorso evidenzia violazione di legge e vizio di motivazione carente, avuto riguardo all'improcedibilità dell'azione penale per i reati di stalking e diffamazione, non pronunciata nonostante la tardività della querela.
2.6. Un ultimo argomento di censura attinge la dosimetria sanzionatoria, non contenuta nei minimi edittali nonostante la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
3. Il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l'inammissibilità del ricorso con requisitoria scritta.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è manifestamente infondato, condotto secondo linee di censura sottratte al sindacato di legittimità, ma soprattutto, in molta parte, generico, anche nella sua formulazione intrinseca, particolarmente negli ultimi due motivi proposti, oltre che aspecifico, avendo la sentenza impugnata adeguatamente illustrato le ragioni giustificative fondanti il proprio percorso decisorio, in risposta a punti di critica nella gran parte analoghi a quelli oggi sottoposti al giudizio del Collegio.
Si apprezzerà, altresì, in via preliminare e nell'analisi successiva dei singoli motivi di ricorso, che molti di questi ultimi, piuttosto che prospettare vizi motivazionali tali da inficiare le chiare argomentazioni logiche della Corte d'Appello, la quale si richiama alla pronuncia conforme di primo grado, propongono, in estrema sintesi, una lettura alternativa del compendio probatorio, facendo riferimento a profili ed elementi di fatto già al centro dell'analisi compiuta dai giudici di merito, la rivalutazione dei quali, di per sè stessi considerati, esula dall'orizzonte del sindacato di legittimità (cfr., per tutte, tra le più recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 2, n. 9106 del 12/2/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 e Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965).
2. Il primo motivo di censura è generico e manifestamente infondato.
Il ricorrente ritiene che non si possa essere certi della sua condotta, e del contenuto delle conversazioni intrattenute sostituendosi all'identità della vittima, poichè non sarebbero stati sentiti i testimoni di riferimento al suo racconto, e cioè le persone che, di volta in volta, l'avevano contattata, con aspettative di conoscenza orientate dallo sfondo sessuale instillato dall'imputato.
Ebbene, anzitutto deve chiarirsi che la testimonianza della vittima è stata correttamente ritenuta diretta e "primaria" dalla Corte d'Appello, quanto alla narrazione delle conversazioni e degli approcci che ella ha dovuto subire con quei soggetti contattati dall'imputato fingendosi lei, i quali le si rivolgevano, avvicinandola nei luoghi da lei frequentati, per le aspettative collegate alle proposte sessuali ricevute con i falsi account o profili facebook da lui creati (si tratta di ben tre profili facebook - (OMISSIS), S.E., (OMISSIS) - e di due account "hotmail"): di tali contenuti la percezione della vittima costituisce senza dubbio prova diretta; dalle conversazioni con gli uomini che le si avvicinavano ella ha compreso che il ricorrente stava ripetutamente utilizzando gli account falsi, sostituendosi alla sua identità, per proporsi sessualmente a ragazzi sconosciuti, nonostante ella da tempo gli avesse richiesto fermamente di interrompere quel "gioco" virtuale, cui anni prima aveva prestato il proprio consenso a tutt'altre condizioni, e cioè solo "per scherzo", interagendo solo con amici comuni e senza contenuti grossolanamente ed esplicitamente sessuali.
In secondo luogo, con argomenti decisivi per l'inammissibilità del motivo, deve sottolinearsi la genericità del motivo proposto dalla difesa, che non ha specificamente indicato i nomi dei testimoni di riferimento, dei quali lamenta la mancata audizione (citando solo alcuni di loro ma esemplificativamente e per smentire la ricostruzione della persona offesa), nè ha specificato le circostanze precise sulle quali essi avrebbero dovuto riferire, facendovi richiamo piuttosto vagamente; neppure, infine, il ricorrente ha tenuto conto della ben più ampia motivazione della sentenza impugnata e di quella conforme di primo grado, che hanno tratto la prova della realizzazione della condotta di reato - oltre che dal racconto della persona offesa - da ulteriori elementi istruttori, in particolare dal materiale informatico sequestrato all'imputato e dagli esiti degli accertamenti svolti su di esso e sulle tracce dati lasciate dalle conversazioni Skype, effettuate dal ricorrente, subdolamente, ai danni della vittima (conversazioni che sono risultate essere dal contenuto sessualmente esplicito: cfr., oltre alla sentenza di primo grado, pag. 5 del provvedimento impugnato, che ne dà ampiamente conto, facendo riferimento alla consulenza del teste Q.).
Se, come par di comprendere, la difesa intendeva, dunque, riferirsi soltanto a quei testimoni che sarebbero stati contattati dal ricorrente, sostituendosi alla persona offesa, per proposte sessuali varie, le loro dichiarazioni, che correttamente la Corte d'Appello ricava dal racconto della stessa vittima del reato, non sono determinanti al fine della prova, essendovi gli ulteriori elementi obiettivi derivanti dall'analisi del materiale informatico trovato in suo possesso e anche altre testimonianze, dalle quali si evincono, per conoscenza in parte anche diretta, le vicende occorse alla giovane (il padre ed il fratello di costei anzitutto, della attendibilità dei quali lo stesso ricorso non dubita).
Infine, le stesse dichiarazioni dell'imputato sono state valorizzate, dal provvedimento impugnato, per la prova dei fatti (cfr. pag. 6 della sentenza), ma neppure con tale prova il ricorso si confronta, accentuando, in tal modo, il carattere di genericità dell'eccezione formulata.
3. Il secondo motivo è anch'esso aspecifico per mancanza di confronto con l'ampia motivazione della corte territoriale sull'attendibilità della persona offesa.
In più punti dei provvedimenti di merito, i giudici hanno mostrato di approfondire il tema della genuinità delle dichiarazioni accusatorie della vittima, non nascondendo il carattere singolare della vicenda, e, anzi, facendosene carico nel vaglio di credibilità della testimone principale dei fatti, in relazione alla quale, da plurimi indicatori, si è dedotta l'assenza di qualsiasi astio o intento calunnioso nei riguardi dell'imputato.
Deve rimarcarsi, infatti, che la stessa persona offesa ha raccontato come, inizialmente, quando era appena dodicenne, ella stessa avesse autorizzato per gioco l'imputato, suo amico d'infanzia, a contattare sui social altri ragazzi, amici di entrambi, fingendo di essere lei, ma che, successivamente, accortasi della degenerazione di tale "gioco", aveva preteso la restituzione della sua scheda telefonica e la cessazione della finzione.
Si era decisa, poi, a denunciarlo perchè, avendo cominciato a subire pesantemente le insopportabili conseguenze dell'agire subdolo del ricorrente ai suoi danni (veniva contattata frequentemente a scopo sessuale dai ragazzi, a lei sconosciuti, con i quali M., a nome di lei, aveva avuto contatti e conversazioni telematiche o via internet, dal carattere esplicito), si era resa conto che le richieste ancora in qualche modo amichevoli rivoltegli, da troppo tempo erano cadute nel vuoto.
La plausibilità di una tale ricostruzione narrativa, visti i rapporti tra persecutore e vittima, è stata sostenuta dalla Corte d'Appello con una trama logica priva di aporie e particolarmente approfondita (vedi pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata), che rimanda anche alle speranze, riposte dalla persona offesa, nell'accoglimento delle sue richieste ed in una rinuncia spontanea, da parte del ricorrente, dal continuare a tenerla al centro di tale insostenibile vessazione; di qui, lo iato temporale tra la revoca del consenso al "gioco erotico virtuale" - che comunque era stato prestato dalla vittima, come già evidenziato, molto tempo addietro e soltanto in termini molto limitati e circoscritti - e la denuncia alle autorità, giunta al culmine dell'esasperazione per l'evidente degenerazione della situazione e l'impossibilità di porvi fine altrimenti.
3. La terza censura è manifestamente infondata.
Quanto all'insussistenza dell'elemento oggettivo del reato di atti persecutori, poichè le condotte si risolverebbero in molestie solo "indirette", attuate mediante comportamenti che non vedono la vittima come oggetto dell'agire dell'imputato, rivolto, invece, a terzi e, solo mediatamente, percepito come persecutorio dalla persona offesa, il ricorrente incorre in un errore interpretativo evidente.
Il Collegio evidenzia come già in un'altra recente occasione si sia chiarito, in via generale, che, in tema di atti persecutori, l'evento, consistente nell'alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia o paura indotto nella persona offesa, deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso, nell'ambito della quale possono assumere rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa e anche di tipo subdolo (cfr. Sez. 6, n. 8050 del 12/1/2021, G., Rv. 281081, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto fossero state legittimamente valutate anche le denunce calunniose proposte nei confronti del marito e del padre della persona offesa, in quanto si inserivano nell'unitaria condotta persecutoria, nell'ambito della quale era contestata anche una sostituzione di persona, come modalità attuativa delle molestie). Non rileva, quindi, ai fini della configurabilità del delitto di stalking, la presenza della persona offesa alle minacce o molestie (Sez. 3, n. 1629 del 6/10/2015, dep. 2016, V., Rv. 265809), nè la direzione immediata della condotta persecutoria nei suoi riguardi, ove vi sia consapevolezza, da parte dell'agente, del fatto che delle minacce e/o delle molestie la vittima venga informata e, d'altra parte, vi sia consapevolezza della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 8919 del 16/2/2021, F., Rv. 280497).
Allo stesso modo deve ragionarsi nel caso oggi all'esame del Collegio, in cui le condotte "indirettamente" proiettate nella sfera personale della vittima, sostitutive della sua identità e attraverso le quali si presentava a terzi sconosciuti costei come soggetto di proposte e desideri sessuali, facevano sì che questi la avvicinassero frequentemente durante la giornata per ottenere quanto avevano immaginato dalle conversazioni tenute con l'imputato. Tali condotte hanno avuto certamente, per la loro reiterazione e contenuto, un effetto complessivamente persecutorio, risoltosi nella determinazione di stati d'ansia e timore gravi nella persona offesa, al centro di una campagna intrusiva ed abusiva della sua identità, realizzata ai suoi danni dall'imputato, ben consapevole che il proprio comportamento reiterato ed abituale stava da tempo producendo tali conseguenze ai danni della vittima, la quale più volte lo aveva pregato di smettere prima di denunciare quanto stava accadendo.
In conclusione, può affermarsi che integrano il delitto di atti persecutori le condotte di reiterate molestie, anche se arrecate non direttamente alla persona offesa, attuate sostituendosi alla vittima tramite profili social e account internet falsamente a lei riconducibili, mediante i quali l'agente faccia credere a terzi sconosciuti che costei sia disponibile ad approcci sessuali, tanto da far sì che costoro la avvicinino ripetutamente nei luoghi da lei frequentati, allo scopo di realizzare aspettative di tal genere, ove l'autore delle condotte agisca nella consapevolezza della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Ovvero, secondo un'altra prospettiva, l'evento, consistente nell'alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia o paura indotto nella persona offesa, deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso, nell'ambito della quale possono assumere rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa e anche di tipo subdolo, quali la sostituzione di persona volta a far credere che la vittima sia disponibile ad offerte sessuali presso un'indiscriminata platea di soggetti contattati via internet con falsi account o profili social.
Non è inutile rammentare, peraltro, che il delitto di atti persecutori configura, come noto, anche nel caso in cui la persona offesa sia vittima di condotte reiterate che costituiscono solo molestie ai suoi danni e, in ragione di queste e della loro morbosità, manifesti un perdurante e grave stato d'ansia e sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita (conforme, Sez. 5, n. 31275 del 14/9/2020, non massimata; vedi anche Sez. 5, n. 45453 del 3/7/2015, M., Rv. 265506).
La consapevolezza dell'idoneità lesiva del proprio comportamento è, infine, quanto al profilo del coefficiente soggettivo, condizione necessaria e sufficiente ad integrare il reato, poichè il delitto di atti persecutori è fattispecie a dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione (Sez. 1, n. 26862 del 25/9/2020, S., Rv. 279726; Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015, A., Rv. 265230).
E, nel caso del ricorrente, tale consapevolezza emerge chiaramente dalla circostanza che ripetutamente la vittima lo aveva anche implorato di far cessare il suo comportamento morboso e molesto, purtroppo rimanendo inascoltata, mentre non hanno rilievo le spinte criminogene personali e le connotazioni caratteriali dell'autore del reato, che lo hanno determinato ad agire, rimanendo tali elementi sullo sfondo, confinati, al più, sul piano del movente del delitto.
4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Si contesta la configurabilità dei reati di diffamazione e di sostituzione di persona sotto diversi profili.
4.1. Orbene, quanto a quest'ultima fattispecie, l'argomento difensivo volto a sostenere che il consenso della persona offesa, prestato inizialmente al "gioco" in rete organizzato insieme al ricorrente, è privo di pregio, per l'evidente ragione che, dalla ricostruzione della vicenda, emerge pacificamente come la vittima avesse da tempo "revocato" detto consenso e come fossero completamente diverse le condizioni operative concordate quando ella era soltanto una ragazzina: proporre scherzi ad amici comuni, attraverso internet, utilizzando i riferimenti personali della persona offesa, ma riferendosi a contenuti non espliciti sessualmente, quali invece sono divenuti quelli poi realizzati dall'imputato con l'andare del tempo, indirizzati, per giunta, a chiunque egli individuasse di volta in volta, anche a lei sconosciuto.
Sul tema, deve osservarsi come la giurisprudenza di legittimità, seguendo l'evoluzione di abitudini sociali e tempi storici, abbia già ripetutamente affermato che il reato di sostituzione di persona è configurabile nella condotta di colui che crei ed utilizzi account o profili di social-network ovvero sim-card a nome di altro soggetto, inconsapevole, servendosi dei suoi dati personali, con il fine di far ricadere su quest'ultimo il suo agire (cfr., in altre e diverse fattispecie, Sez. 5, n. 25215 del 13/7/2020, Vivoli, Rv. 279450; Sez. 5, n. 25774 del 23/4/2014, Sarlo, Rv. 259303; Sez. 5, n. 22049 del 6/7/2020, Yague, Rv. 279358; Sez. 3, n. 12479 del 15/12/2011, dep. 2012, Armellini, Rv. 252227). Il reato si configura, a giudizio del Collegio, anche nell'ipotesi in cui la persona sostituita sia venuta a conoscenza della sostituzione e ad essa si sia dichiarata contraria esplicitamente, come nel caso di specie, diffidando l'agente dal continuare nella sua condotta.
4.2. Avuto riguardo al reato di diffamazione, infine, deve rilevarsi che esso sussiste anche quando la propalazione offensiva dell'altrui onore e decoro intervenga non contemporaneamente nei confronti di più persone, ma in tempi diversi.
Deve ribadirsi, infatti, che, per la sua configurabilità, non si richiede che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purchè risulti comunque rivolta a più soggetti (Sez. 5, n. 7408 del 4/11/2010, dep. 2011, Boerio, Rv. 249599). Nel caso di specie, le frasi offensive che esplicitamente minano l'onore della vittima del reato, alla quale l'imputato ha abbinato una condotta sessuale spregiudicata, lesiva della sua reputazione, sono state dirette verso una pluralità di destinatari, contattati con i falsi profili ed account, e non rileva che ciascuno venisse chiamato singolarmente, in tempi diversi, poichè ciò che integra il reato è la circostanza che le molteplici chiamate e contatti via internet fossero diretti verso una pluralità di destinatari e ad essi siano pervenute.
5. Infine, il quinto ed il sesto motivo di ricorso sono inammissibili per manifesta infondatezza.
L'eccezione di tardività della querela, già proposta in maniera identica alla Corte d'Appello, ha ricevuto ampia risposta dai giudici di secondo grado, i quali hanno evidenziato come, al momento della denuncia, la condotta del ricorrente relativa ai reati di atti persecutori e diffamazione fosse ancora in corso; e su tale punto la difesa non si confronta, limitandosi a ribadire congetture in fatto, dunque insindacabili, circa la riferibilità dell'agire del ricorrente a periodi precedenti alla denuncia-querela da parte della persona offesa.
Il motivo di ricorso dedicato, invece, all'eccessiva dosimetria sanzionatoria consta di un'apodittica denuncia della motivazione quanto alle ragioni che hanno indotto i giudici di merito a discostarsi dai minimi edittali.
La censura, in ogni caso, è anche destituita di fondamento poichè, nel rideterminare la pena concedendo le circostanze attenuanti generiche al ricorrente, il provvedimento impugnato ha valutato la gravità della sua condotta esplicitamente, abbinandone il disvalore concreto alla misura sanzionatoria poi stabilita.
6. Un'ultima osservazione deve essere riservata alla prescrizione del reato, evocata rapidamente dalla difesa solo in udienza, che non può essere rilevata nel caso di specie.
Invero, più volte le Sezioni Unite hanno chiarito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. e art. 609 c.p.p., comma 2, l'estinzione del reato per prescrizione, sia di quella maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata nè eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso, sia di quella decorsa tra la sentenza d'appello e quella di legittimità (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 266818; Sez. U, n. 23428 del 22/3/2005, Bracale, Rv. 231164; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266).
La sentenza Ricci, in particolare, ha precisato che l'art. 129 c.p.p. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione. Si è, altresì, osservato che "se la parte della sequenza processuale riferibile specificamente al rapporto d'impugnazione è inficiata da invalidità a causa dell'inammissibilità dell'atto introduttivo, il potere cognitivo dell'organo giudicante non può che rimanere circoscritto alla sola rilevazione di tale inammissibilità, che preclude l'esame del fatto in relazione al quale dovrebbe operare la causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p. " (cfr. pag. 25 della sentenza Ricci).
Solo nel caso in cui, quindi, la prescrizione fosse maturata prima della sentenza d'appello e il ricorso fosse stato proposto recando, sia pur come unico motivo ammissibile, quello riferito alla prescrizione, il Collegio avrebbe potuto dichiararla, ferma restando la possibilità di dichiarare la prescrizione qualora il ricorso, invece, inammissibile non sia (poichè, in tal caso, il rapporto processuale si è validamente instaurato).
Nel caso del ricorrente, invece, il ricorso è inammissibile in tutti i suoi motivi e la questione del maturarsi della prescrizione non è stata dedotta nè con i motivi d'appello e nè con il ricorso per cassazione, sicchè rimane definitivamente "chiusa", dovendosi dare prevalenza all'inammissibilità ed alla preliminare ragione che il rapporto processuale non si è validamente formato.
7. Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonchè, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000.
7.1. Il ricorrente deve essere condannato anche alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile, intervenuta in udienza tramite il proprio difensore nella presente fase di giudizio, spese che si ritiene equo liquidare in complessivi Euro 4.000, oltre accessori di legge.
7.2. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 4000, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022