31 ottobre 2020

Una lettura garantista della ragionevole durata del processo in un caso di omesso deposito degli atti d'indagine




Si ritiene opportuno segnalare l'ordinanza con cui il Tribunale di Perugia (Gd. F. Loschi), dando seguito ad un, fin qui, minoritario arresto ermeneutico della Suprema Corte (Cass. pen. sez. II-10.04.2018 n. 20125), ha affermato che l'omessa ostensione, in sede di deposito ex art. 415 bis c.p.p., di atti dell'indagine preliminare comporta non già l'inutilizzabilità degli stessi, per come ritenuto dall'indirizzo di legittimità ad oggi assolutamente prevalente (cfr. ex alias Cass. pen. sez. IV-8.11.2013 n. 7597), ma la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e degli atti conseguenti. 
Al riguardo, il Giudice circondariale, richiamando l'isolato precedente della Suprema Corte, ha osservato che l'omesso deposito di atti, impedendo all'indagato di esercitare compiutamente i diritti correlati alla notifica dell'avviso di conclusione indagini, lede le prerogative difensive. A tale violazione può essere posto rimedio soltanto con la sanzione della nullità, che, attraverso la regressione del procedimento alla fase in cui si è verificata la lesione delle garanzie difensive, consente al Pubblico Ministero di rieditare correttamente la sequenza procedimentale. Diversamente la sanzione dell'inutilizzabilità, risolvendosi in una eliminazione di parte del compendio probatorio, finirebbe per aggravare e consolidare le conseguenze pregiudizievoli già prodotte. 
Il Giudice territoriale ha peraltro precisato che la rilevata nullità riveste carattere intermedio. Si noti che proprio tale carattere del vizio aveva consentito alla Corte di Cassazione, nel precedente richiamato dal Tribunale, di ritenere sanata la nullità, giacché, dopo la tempestiva deduzione in udienza preliminare, l'imputato aveva optato per il rito abbreviato. 
Giova infine rilevare che a margine della sua esegesi, il Tribunale ha manifestato una sua precisa "opzione culturale", secondo cui in presenza di contrasti nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione su tematiche suscettibili di travolgere l'intera attività processuale da compiersi prossimamente, l'adesione all'orientamento più rigoroso risponde ad indubitabili canoni di prudenza, che consentono però, a ben guardare, una riduzione della durata complessiva del procedimento, anche perché, a fronte della completa ostensione degli atti, gli interessati potrebbero optare per un rito alternativo. 
Una lettura garantista della ragionevole durata del processo.

30 ottobre 2020

Durata delle indagini e controlli del giudice. Un caso complesso tra avocazione e richieste inammissibili di incidente probatorio: il GIP di Palermo mette ordine


Il caso: a seguito della presentazione della richiesta di archiviazione, opposta dalla persona offesa, viene fissata l'udienza ex art 409 comma 2 c.p.p.. Nelle more, la Procura Generale avoca le indagini e, all'udienza camerale, revoca la richiesta di archiviazione. Il GIP restituisce gli atti all'ufficio di Procura. A questo punto, l'ufficio di Procura presenta una richiesta di proroga delle indagini e una richiesta di incidente probatorio. Sulla richiesta di proroga, il GIP si pronuncia con un rigetto (di seguito al link 👉 l'ordinanza GIP di rigetto della richiesta di proroga delle indagini preliminari). Con un'altra ordinanza del medesimo procedimento il GIP dichiara inammissibile la richiesta di incidente probatorio della Procura Generale. L'ordinanza è impugnata con ricorso in Cassazione dalla Procura Generale perché ritenuta atto abnorme e, all'udienza del 22 ottobre 2020, la Quarta Sezione penale della Corte Cassazione - rg. 15169/2020 - con sentenza ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura Generale. Per la singolarità e la complessità della vicenda diamo intanto informazione dell'esito del giudizio di Cassazione, del quale ci occuperemo nuovamente non appena sarà depositata la sentenza della Suprema Corte.

In questo commento affronteremo la prima questione, attinente la richiesta di proroga delle indagini, che riguarda un tema più volte affrontato su questo blog: i termini di durata delle indagini preliminari e i controlli giurisdizionali.

Il procuratore generale non ha funzioni di “supplenza” del pubblico ministero; nel sistema processuale la sua funzione è quella di “agire collateralmente” al giudice per le indagini preliminari nell’attività di controllo dell’operato del pubblico ministero.

Valga ad esempio: il pubblico ministero chiede l’archiviazione e il GIP, che controlla l’operato del PM, può imporgli l’azione (l'imputazione coatta) o l’investigazione (un supplemento investigativo); il GIP può farlo autonomamente oppure a seguito di una “sollecitazione” proveniente dalla persona offesa opponente. In entrambi i casi il GIP impone l’azione o l’investigazione e fissa l’udienza camerale. Il procuratore generale, a sua volta informato della richiesta, ha la possibilità di avocare le indagini e “subentrare” al pubblico ministero.

Nel caso in esame l’avocazione è stata effettuata a seguito dell’opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione.
La “surroga” che il procuratore generale ha esercitato avocando le indagini attinge quindi la richiesta del pubblico ministero ex art. 412 co. 2 c.p.p..
La norma prevede la possibilità per il procuratore generale di avocare le indagini del pubblico ministero non in funzione di un supplemento investigativo, ma in ragione della possibilità di determinare diversamente le richieste dell’Organo dell'accusa modificandole (ad esempio revocando la richiesta di archiviazione). A conferma dell'assunto, si osservi come l’art. 412 co. 2 c.p.p. non preveda alcuna disciplina sul termine, come invece avviene nell'ipotesi contemplata dal comma 1 (30 giorni). 
Opinando diversamente, si dovrebbe concludere nel senso che il termine di 30 giorni previsto al comma 1 valga (a cascata) anche per l’ipotesi del comma 2 dell'art. 412 co. 2 c.p.p., sicché il procuratore generale potrebbe avocare ex art. 412 co. 1 c.p.p. disponendo di un termine di 30 giorni sia per investigare ulteriormente sia per determinarsi diversamente dal PM, dopo che l’opposizione della persona offesa provochi la fissazione dell’udienza di cui all’art. 409 c.p.p.. In questo caso sarebbe dirimente l’avviso al procuratore generale. 
Se così fosse – come osserva correttamente il GIP nell'ordinanza che ha dichiarato inammissibile la richiesta di incidente probatorio - la richiesta di proroga avanzata dal procuratore generale sarebbe tardiva perché presentata l'8/11/2019 e cioè oltre il termine di 30 giorni dal momento in cui il procuratore generale ha avuto conoscenza dell’udienza ex art. 409 c.p.p. (cioè il 20/09/2019). Invero, soltanto dal momento in cui il procuratore generale ha avuto conoscenza dell’udienza può esercitare i suoi poteri di avocazione
Se dunque il termine dei 30 giorni previsto dall’art. 412 co. 1 c.p.p.  operasse anche per l’ipotesi prevista dall'art. 412 co. 2 c.p.p., esso decorrerebbe dalla notifica dell'avviso dell'udienza e non dal momento dell’emissione del decreto di avocazione, come ha sostenuto il procuratore generale nel ricorso per cassazione. 
A ragionare diversamente, il procuratore generale potrebbe impiegare discrezionalmente tutto il tempo che gli occorre per emettere il decreto di avocazione con il rischio di provocare una situazione di (inammissibile) stasi del procedimento. Il che non risponde né alla lettera né allo spirito del codice.
Invero, se il termine fosse di 30 giorni la decorrenza dovrebbe fissarsi al momento in cui il procuratore generale abbia conoscenza delle condizioni (qui l'avviso dell'udienza) in presenza delle quali gli è consentito il potere di avocazione.
Ma nel processo accusatorio, che è ispirato a princìpi di fairness, la decadenza dal termine è ancorata alla conoscibilità della facoltà ad esso collegataÈ così possibile, ad esempio, impugnare un provvedimento dal momento in cui se ne ha effettiva conoscenza (per esemplificare: il pubblico ministero e la difesa possono impugnare entro 15 giorni la sentenza con motivazione contestuale e il termine decorre dal momento della conoscenza, cioè della lettura in udienza. L'analogo potere di impugnazione del procuratore generale è invece collegato all’effettiva conoscenza della sentenza con la conseguenza che, nell'esempio dato, il termine di 15 giorni decorre non dal momento della lettura della sentenza ma da quello della notifica al Procuratore Generale).
Ritornando al caso in esame, il pubblico ministero ha chiesto il 2/5/2019 l’archiviazione (il termine di indagine scadeva il 24/7/2019, cioè 83 giorni dopo). 
Se, in ipotesi, il procuratore generale avesse avuto conoscenza della richiesta del pubblico ministero lo stesso 2/5/2019 e nel medesimo giorno avesse avocato le indagini, avrebbe certamente potuto utilizzare gli 83 giorni residui. 
Ma il procuratore generale ha avuto conoscenza della possibilità di avocare le indagini quando era spirato il termine. Il procuratore generale sostiene che gli 83 giorni residui andrebbero “in recupero”, e dovrebbero sommarsi con decorrenza dal momento dell’emissione del decreto di avocazione (03/10/19). Il che non pare condivisibile.
Infatti, la decorrenza del termine va computata dal momento in cui il procuratore generale ha avuto conoscenza della possibilità di esercitare i poteri di avocazione (cioè dal 20/9/19). Sostenere che i residui 83 giorni vadano “in recupero” significherebbe “abbandonare ad un tempo di nessuno” il periodo compreso tra il 24/7/19 e il 20/9/19 con conseguenze inammissibili
Dall'assunto in tesi discende che, ove si consideri la regola del comma 2 dell'art. 412 c.p.p. è soggetta al termine dei 30 giorni prevista dal comma 1, il termine sarebbe comunque spirato nella data in cui il procuratore generale ha chiesto la proroga delle indagini (8/11/19). Ed è quel che ha correttamente osservato il GIP nella sua ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità della richiesta di incidente probatorio. 
In alternativa, ma con conseguenze nel caso di specie sono analoghe a quelle appena esaminate, sarebbe più conforme al dettato codicistico ritenere che la regola dell’art. 412 comma 2 c.p.p. prescinda da un termine (e non a caso esso non è previsto dalla lettera della norma). 
Ne seguirebbe che il potere di avocazione previsto dall’art. 412 comma 2 c.p.p. sarebbe “svincolato” da quello finalizzato alle indagini previsto dal comma 1, e ciò in quanto il potere di avocazione qui in esame sarebbe esclusivamente finalizzato alla rivalutazione delle richieste del pubblico ministero; rivalutazione per la quale non avrebbe alcun senso prevedere un termine.
Come osserva correttamente il procuratore generale nel suo ricorso per cassazione le ipotesi di avocazione sono tante.
Tuttavia un fatto è certo: il procedimento penale è codificato sulla fisiologia del suo procedere (id est: un pubblico ministero che diligentemente compie le indagini), mentre non contempla, neppure in ipotesi, l'eventualità patologica (un organo inquirente che ometta le investigazioni. Peraltro, sarebbe un illecito).
Il codice prevede infatti le ipotesi di avocazione non per il caso della totale omissione, ma per l'eventualità della incompletezza delle indagini del pubblico ministero; incompletezza rilevabile da chi (PG oppure GIP) ha il compito di “verificarne” l'operato. 
In alternativa, ma con risultati analoghi, laddove il PM non si determini sulle richieste finali dell'indagine (archiviazione oppure azione penale), il codice prevede che lo stallo trovi soluzione nel potere del procuratore generale, ex art. 412 co. 1 c.p.p., di avocare a sé il fascicolo per completare le indagini. In questo caso, coerentemente, il legislatore ha previsto un termine (di 30 giorni) secondo le regole che disciplinano lo svolgimento delle indagini preliminari entro un “certo termine”.
L'ipotesi del comma 2 dell'art. 412 cit. è invece diversa: qui il procuratore generale “subentra” non in funzione della supplenza investigativa, ma con riferimento alle richieste e alle determinazioni assunte dal pubblico ministero in esito alle indagini. Ne abbiamo conferma nell’art. 421 bis c.p.p. che conferisce al giudice analogo potere di controllo con la facoltà di integrare l'incompletezza delle indagini del PM e di coinvolgere, in surroga a quest'ultimo, il procuratore generale. 
Infine, rispetto alle questioni in esame, non rilevano le altre ipotesi di avocazione connesse con il coordinamento degli uffici del pubblico ministero previste dall’art. 372 c.p.p.
In conclusione: il termine di indagini è certamente scaduto alla data del 24/7/2019. 
Il procuratore generale ha avocato la possibilità di determinare diversamente le richieste dell'organo inquirente ma non l'ha fatto ai fini di un'indagine ulteriore; l'ha fatto in funzione delle richieste da sottoporre al GIP. 
Ne segue che il procuratore generale avrebbe potuto, come ha fatto, revocare la richiesta di archiviazione ed esercitare l’azione penale oppure avrebbe potuto all’udienza camerale insinuare nel GIP il dubbio della incompletezza delle fonti di prova così da sollecitare i supplementi investigativi ex officio (previsti sia in questa fase sia in quella dell'udienza preliminare ex art. 421 bis c.p.p. ).
Il giudice per le indagini preliminari si è quindi correttamente pronunciato per un non liquet, ed ha rigettato la richiesta di proroga delle indagini avanzata dal procuratore generale, confermando la inammissibilità della richiesta di proroga giusta la irritualità e la decorrenza del termine.


Aggiornamento: è stata pubblicata la sentenza della Sez. IV Cass. pen. 30287-2020.

Ce ne siamo occupati nuovamente al 👉 link



29 ottobre 2020

Novità legislative: in Gazzetta Ufficiale il decreto legge RISTORI (n. 137/2020)

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge n. 137/20202 c.d. Ristoro che contiene importanti novità sullo svolgimento delle indagini e la celebrazione dei processi (art. 23) e alcune timide novità sul deposito degli atti a mezzo pec (art. 24).

Il decreto è scaricabile al link 👉 Decreto Legge n. 137/2020

Tieni il tempo ... Sulla durata (indefinita) delle indagini preliminari: il controllo giurisdizionale

Ci siamo più volte occupati, su questo blog, del tema dei termini di durata massima delle indagini preliminari e del controllo giurisdizionale (Giudizio immediato: un caso sull'inosservanza dei termini ...)
Torneremo a farlo domani con un'interessante ordinanza del GIP di Palermo che ha rigettato la richiesta di proroga della Procura Generale, che aveva avocato le indagini.


Il caso di oggi riguarda un procedimento penale nel quale il pubblico ministero, a distanza di anni dall'iscrizione - peraltro a modello 44 -, e dopo aver chiesto per ben due volte la proroga dei termini di indagine, presenta (link 👉) richiesta di archiviazione con la seguente motivazione: <<oltre alla denuncia querela nessun elemento è stato acquisito nel corso delle indagini preliminari atteso che la polizia giudiziaria delegata non ha fatto pervenire gli esiti degli accertamenti neanche a seguito di sollecito ...>>.
Com'è agevole osservare, tra le ipotesi di archiviazione previste dal codice di rito non rientra né la difficoltà allo svolgimento delle indagini, né l'omessa risposta della polizia giudiziaria al pubblico ministero delegante. 
Se, come riteniamo, la premessa è corretta, il caso presenta aspetti di "singolarità", giacché il Gip dovrebbe rigettare la anomala richiesta del pubblico ministero, concedendo un tempo supplementare necessario a consentire di "raccogliere" quegli elementi di indagine che, nonostante i solleciti effettuati ai delegati, sono ancora mancanti al suo fascicolo. Tuttavia in tal modo si realizzerebbe di fatto un meccanismo di proroga delle indagini, non previsto dal codice.  
Siamo dunque in presenza di un conflitto: da un lato, gli interessi  (pubblico e della persona offesa) all'accertamento del fatto, che appaiono frustrati dall'inefficienza del sistema e dal decorso del tempo, dall'altro il diritto del "potenziale" indagato a non essere sottoposto ad un'indagine per fatti assai risalenti e per un tempo assai più ampio di quello previsto dal codice. 
Al GIP, posto davanti al predetto conflitto, il compito di controllare sul rispetto dei termini, posto che nessuno può essere indagato per un tempo indefinito.

28 ottobre 2020

L'insostenibile leggerezza della nomopoiesi, di Mario Tasquier



La recrudescenza del virus, nelle ultime settimane, ha portato in auge diatribe mai sopite, dubbi di costituzionalità ancora irrisolti, esponendo nuovamente i cittadini a una selva di stratificazioni normative di non immediata interpretazione e dal contenuto spesso incerto.
Se possiamo accogliere favorevolmente il tentativo dell’Ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri di disciplinare, con il provvedimento (DPCM) del 24 ottobre 2020, obblighi e prescrizioni in una sorta di Testo Unico dei DPCM, al fine di facilitare l’intellegibilità delle norme e di ricucire un tessuto normativo che appariva ormai sfaldato da novelle quasi settimanali, non altrettanto bonariamente si può recepire la tecnica degli interventi normativi che, condizionata dalla situazione emergenziale in atto, lascia spazio a inopportune ambiguità interpretative.
La prescrizione di “forti raccomandazioni” che seguono le “raccomandazioni” semplici dei precedenti DPCM, è solo la punta dell’iceberg delle difficoltà nomopoietiche: se certo è che le condotte violative del nuovo istituto giuridico della raccomandazione non possono di per sé essere oggetto di sanzione, è pur vero che potrebbero tuttavia rilevare in termini di contestazione all’agente di profili di imprudenza se non già di negligenza, finendo con il fondare la possibile imputabilità di condotte colpose.
Perplessità ancora maggiori emergono dalla constatazione che talune raccomandazioni (sia semplici che forti) siano rivolte a datori di lavoro e ad attività professionali, finendo con il sovrapporsi agli specifici protocolli già attivati, o talaltre attengano invece agli spostamenti delle sole persone “fisiche”, lasciando intendere che non si estendano alle esigenze di mobilità di società, enti e altre persone giuridiche.
Evidente frutto di mediazione tra diverse sensibilità politiche in sede al Governo, le raccomandazioni del Presidente del Consiglio scoprono un nervo dell’ordinamento tutto nuovo e sconosciuto, introducendo un ulteriore elemento di incertezza di cui, in questo momento così difficile, avremmo volentieri fatto a meno. 
Al ritorno dell’ipertrofica proliferazione dei DPCM si è accompagnata altresì la reviviscenza delle “autodichiarazioni”, altra invenzione normativa dei tempi del COVID destinata a trovare un posto di riguardo tra la burocrazia futuribile di questo Paese (ne sia indizio l’entusiasmo con il quale è stata accolta e riproposta da solerti pubbliche amministrazioni).
Più facile comprendere cosa NON sia l’autodichiarazione: non una dichiarazione sostitutiva di certificazione ai sensi dell’art.46 DPR 445/2000 (c.d. autocertificazione, a cui si può fare ricorso solo in ipotesi tipiche); non una dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi dell’art.47 DPR 445/2000 (che riguarda stati, qualità o fatti – già avvenuti – che siano a conoscenza della persona). È legittimo pensare che possa quindi trattarsi di una semplice dichiarazione, a cui è stato aggiunto maliziosamente il prefisso “auto” per riecheggiarne una comune matrice con l’autocertificazione: quell’auto appare un prefisso quantomeno tautologico, poiché una dichiarazione proviene sempre e per definizione dal dichiarante, non essendone ontologicamente concepibile un’eterogenesi.
Prescindendo da ogni considerazione in ordine alla legittimità di un obbligo di “autoincriminazione”, così come alla difficile tenuta costituzionale della prescrizione di un obbligo di rendere note al pubblico ufficiale, in definitiva, le circostanze più intime della propria vita privata (vieppiù in assenza di una norma incriminatrice di natura penale che si presuma violata dall’autodichiarante), si ritiene che l’eventuale mendacio in autodichiarazione non sia comunque idoneo a fondare una valutazione affermativa di responsabilità ai sensi dell’art. 483 c.p
Per immutata giurisprudenza del Giudice di legittimità, tale delitto si configura quando una norma giuridica obbliga il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente. La condotta di cui all’art. 483 c.p. riguarda pertanto solo attestazioni del privato che il pubblico ufficiale ha il dovere di documentare in un atto che sia destinato a provare la verità dei fatti narrati, sicché non pare ne ricorrano i requisiti in occasione di falsità in autodichiarazione, alla quale certamente tale funzione difetta (a meno che il mendacio non riguardi le generalità del dichiarante, nel qual caso troverà invece applicazione l’art.495 c.p.).
L’eventuale agente rimarrà quindi, a mio avviso, esposto alle sole sanzioni amministrative introdotte dall’art. 4 D.L. 19/2020 nel caso in cui la circolazione sia avvenuta in assenza di valida giustificazione, ma non per il fatto in sé di aver addotto una giustificazione insussistente.
Lungi dal voler istigare al mendacio, eticamente deplorevole soprattutto nella attuale emergenza epidemiologica, si vuole significare in questa sede come il Legislatore abbia frettolosamente utilizzato fonti normative secondarie rifuggendo la possibilità di ricorrere a strumenti legislativi più idonei a sostenere, adeguatamente e coerentemente, le finalità di circoscrizione dell’epidemia, magari mediante l’introduzione di peculiari sanzioni penali, ove se ne fosse riscontrata l’opportunità.
Il D.L. 6/2020 e ss.mm., nel legittimare il ricorso ai DPCM come strumento agile di gestione della crisi sanitaria, ha altresì all’art.3 co.2 autorizzato i Presidenti regionali e i sindaci a esercitare il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti in materia sanitaria, estendendo ad esse le sanzioni amministrative previste per la violazione dei precetti introdotti con DPCM.
La ripetuta sovrapposizione di norme statali e regionali, talvolta contraddittorie ed emanate a pochi giorni – se non ore – l’una dall’altra, completa in questo modo il nodo gordiano di precetti, obblighi, divieti e raccomandazioni tra i quali cittadini, professionisti, imprenditori quotidianamente devono districarsi.
Il D.L. n. 6/2020 aveva provato a precisare la gerarchia delle fonti della gestione dell’epidemia prescrivendo che gli enti locali potessero emanare provvedimenti emergenziali solamente “nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”, con l’ovvia finalità di evitare il rischio che i DPCM fossero stravolti, senza coordinamento e controllo, dalle ordinanze contingibili e urgenti delle Regioni e dei Comuni.
Gli argini tracciati dall’art. 3, co. 2, del DL n. 6/2020 non hanno retto al profluvio di ordinanze regionali e comunali di variegato contenuto, talché il Legislatore è dovuto nuovamente intervenire in merito prima introducendo con il DL n.19/2020 limiti stringenti al potere di adottare ordinanze regionali e comunali (sempre limitate temporalmente all’adozione di successivi DPCM), poi definitivamente abdicando la propria competenza esclusiva in favore del potere regionale con il DL n. 33/2020 e con il DL n. 125/2020, in dipendenza dei quali, al fine di garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, alle Regioni è data facoltà di introdurre ulteriori misure restrittive tra quelle prescrivibili con DPCM.
Alle Regioni è così stata concessa una competenza normativa propria, per certi aspetti addirittura sovraordinata a quella statale, nella misura in cui a un successivo DPCM più permissivo non è attribuito alcun potere derogatorio rispetto agli eventuali provvedimenti regionali maggiormente restrittivi.
È quanto è successo negli ultimi giorni: il DPCM del 24 ottobre 2020 non ha infatti in alcun modo derogato ai c.d. “coprifuochini” introdotti dai Presidenti di Regione e tra essi, in particolare dall’ordinanza n.51 del 24 ottobre 2020 emanata dal Presidente della Regione Siciliana, la quale continuerà ad applicarsi nella parte in cui prevede prescrizioni più restrittive rispetto a quelle statali.
Il nuovo discrimen tra la competenza normativa regionale e statale, pertanto, non è più devoluto alla gerarchia costituzionale delle fonti e all’attribuzione di specifiche competenze per materia, ma al grado di compressione delle libertà del cittadino, per quanto finalizzata al contenimento dell’epidemia, facendo così prevalere non la norma più liberale e garantista, ma quella più rigorosa e oppressiva delle libertà fondamentali.

27 ottobre 2020

La Corte di legittimità afferma, con qualche incertezza, la preclusione a costituirsi parte civile in udienza preliminare (Cass. pen. Sez. V 25581/2020)


La Corte regolatrice è tornata a pronunciarsi sul tema della preclusione a costituirsi parte civile in udienza preliminare. 
Al riguardo si rammenti che la preclusione de qua sussiste per la speciale udienza ex art. 447 c.p.p., giacché  il danneggiato dal reato, conoscendo in partenza l'oggetto del giudizio, ristretto alla decisione circa l'accoglibilità della richiesta di applicazione di pena su cui è intervenuto il patteggiamento tra imputato e pubblico ministero, non ha ragioni giuridiche per costituirsi parte civile (SS.UU. n. 47803/2008).
Proprio muovendo da tale ratio, le Sezioni semplici hanno osservato che identica preclusione può sussistere anche per l'udienza preliminare, nella misura in cui la stessa sia destinata al  medesimo perimetro cognitivo della speciale udienza di cui all'art. 447 c.p.p., e quindi nel caso in cui ante udienza l'imputato e il Pubblico ministero abbiano convenuto una richiesta concordata di pena e la stessa sia stata formalmente portata a conoscenza del danneggiato.
Tuttavia dalla lettura della pronuncia non è ben chiaro quali siano le modalità con cui concretamente la concorde istanza di applicazione di pena debba essere portata a conoscenza del danneggiato, per precluderne la costituzione di parte civile. In particolare ciò che risulta poco perspicuo è se all'uopo sia sufficiente che l'istanza confluisca nel fascicolo prima dell'udienza. Sez. V 25581/2020.
   

26 ottobre 2020

Divieto di domande suggestive per il giudice. La Cassazione conferma un suo precedente e le indicazioni delle linee guida del La.P.E.C. e Giusto Processo


Con la sentenza n. 15331 del 06.02.2020, Pres. Di Salvo Emanuele, Rel. Dawan Daniela, la Quarta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema dell’esame testimoniale, regolato dall’art. 468 cpp.
Il provvedimento della Corte affronta le problematiche connesse alle domande poste dal giudicante, risolvendo una delle questioni maggiormente complesse relative ai poteri del giudice in ordine alla prova orale. 
Dopo un excursus esegetico delle regole dell’esame incrociato, con particolare riferimento all’art. 6, par.3 lett .d) C.E.D.U. , all’art. 14, par. 3, lett. e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all’art. 111 co. I e III Cost., il Supremo Collegio sancisce, nel caso di specie, i limiti dei poteri officiosi del Giudice laddove questi decida di porre domande al testimone che, secondo il suo insindacabile giudizio, non abbia chiarito, nel corso della cross examination, alcune circostanze.
L’arresto giurisprudenziale chiosa le condotte dell’organo terzo che, con domande suggestive, violi i dettati normativi e soprattutto il disposto dell’art. 499 del codice di rito con particolare riferimento a quanto previsto al comma VI della medesima disposizione.
Il tema del divieto delle domande suggestive da parte del giudice, fisiologicamente poco affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, ha un precedente "storico" nella nota sentenza n. 7373 del 24.2.2012 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il divieto è posto a garanzia della qualità della prova assunta e costituisce uno dei punti qualificanti della c.d. linee guida per l'esame incrociato nel giusto processo, elaborate dal La.P.E.C. e Giusto Processo
Il testo delle linee guida, al numero 7, prevede infatti che <<il giudice non può formulare domande che tendono a suggerire la risposta alla persona esaminata>>. Il testo delle linee guida è stato approvato al Convegno Lapec di Venezia del 5 e 6 marzo 2010 dalla Commissione composta da: Giovanni Canzio (Presidente emerito della Corte di Cassazione), Bruno Cherchi (Procuratore della Repubblica di Venezia) e Carmela Parziale (Avvocato in Venezia).
Invero compito del Giudice è quello di assicurare, egli per primo, la genuinità delle risposte dei testimoni
Il mancato rispetto di questi canoni epistemologici determina la necessità di dichiarare la sentenza meritevole di censure. 

25 ottobre 2020

Caro Ministro ti scrivo ... così mi distraggo un po', di Gian Domenico Caiazza, Presidente dell'Unione delle Camere Penali Italiane



Con la rubrica “Caro Ministro ti scrivo” - sei domande a Gian Domenico Caiazza, Presidente dell'Unione delle Camere Penali Italiane - inauguriamo la sezione "Foro" del sito Foro e Giurisprudenza della Camera Penale di Trapani.
Prossimamente seguiranno altre pubblicazioni della sezione Foro del blog ("Caro Giudice ti scrivo", "Caro PM ti scrivo", "Caro Avvocato ti scrivo", "Caro Collega ti scrivo", "Caro Cancelliere ti scrivo").




24 ottobre 2020

La Toga: Avvocatura è cultura - di Piero Calamandrei, Ettore Randazzo e Paolo Camassa

Per la rubrica Opinioni e documenti, pubblichiamo gli scritti di Piero Calamandrei, Ettore Randazzo e la poesia dell'avvocato trapanese Paolo Camassa.





di Piero Calamandrei

«Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore.
Ma l'avvocato no. L'avvocato non può essere un puro logico, né un ironico scettico, l'avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in   assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce.
L'avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità.
Non credete agli avvocati quando, nei momenti di sconforto, vi dicono che al mondo non c'è giustizia.
In fondo al loro cuore essi sono convinti che è vero il contrario, che deve per forza esser vero il contrario: perché sanno dalla loro quotidiana esperienza delle miserie umane, che tutti gli afflitti sperano nella giustizia, che tutti ne sono assetati: e che tutti vedono nella toga il vigile simbolo di questa speranza...
Per questo amiamo la nostra toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero, al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso è servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso, e, soprattutto, a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia.»

***

di Ettore Randazzo (*) 

<<Difendo Serafino Famà, e quindi la Toga dell’avvocato, il diritto di Difesa, la Libertà di difendere ... e i loro tutori, appunto, la Camera Penale e l’Ordine Forense: sono “clienti” straordinari, che non sono stati sfiorati dalla gravissima intimidazione. Che anzi in essa hanno trovato una nuova linfa per esaltare le proprie funzioni e i propri valori, invincibili e immortali. Che soffrono la perdita di un difensore eccellente, di un combattente irriducibile, di un uomo vero.
Di un Avvocato. Ucciso per una logica distorta e balorda, prima ancora che crudele e perversa. Ad opera di chi ha poi dovuto ricorrere ad altri avvocati, augurandosi di trovarli altrettanto liberi, coraggiosi, fieri, intemerati. Ché queste sono le qualità che hanno richiesto ai loro difensori, e che ne garantiscono la professionalità.
Non li invidio: difendono, forse, gli assassini di un Avvocato.
Li invidio: sventolano il vessillo della Toga, ancora più bello e orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità, quando si fa strada controcorrente, in difesa pur sempre di presunti innocenti.
Serafino Famà è stato ucciso da pochi miserabili. La Toga, per nostra e loro fortuna, è immacolata, invincibile. La Toga vive anche nei Colleghi che li difendono.
La Toga non muore>>. 

(*) Conclusioni dell’avvocato Ettore Randazzo, difensore delle parti civili, al processo in Corte d’assise sull’omicidio dell’avvocato Serafino Famà, assassinato dalla mafia per aver svolto il suo dovere defensionale

***

di Paolo Camassa (*) - La Toga


E’ nera come un’ombra che ricopre un’anima.
E’ nera come un manto di dolori e di piaghe.
E’ nera come la notte che nasconde gli smarrimenti.
Basta indossarla, per raccogliere il peso
di tutti i dolenti, di tutti i colpevoli, di tutti i derelitti.
E’ un manto che va portato
come corona di spine.

(*) 
P. Camassa, La Toga, Festival Nazionale di Poesia – Roma, 1964 




Per coloro che volessero approfondire segnaliamo il link 👉 Serafino Famà,  Storia di un Avvocato


23 ottobre 2020

Difensore d'ufficio immediatamente reperibile: onere di verificare l'avviso al difensore di fiducia e di eccepire eventuali irregolarità

Con la sentenza che si segnala (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 settembre – 19 ottobre 2020, n. 28834 Presidente Liberati – Relatore Scarcellala Suprema Corte ha affermato che grava sul difensore di ufficio immediatamente reperibile verificare, eventualmente interpellando il giudice, la regolarità degli avvisi ai difensori di fiducia.


Val la pena ripercorrere brevemente il caso concreto:
l’imputato, condannato in primo grado alla pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione, oltre le pene accessorie, risultava assistito per il giudizio di appello da due difensori di fiducia. Sennonché l’avviso per il secondo grado di giudizio veniva regolarmente notificato ad un solo avvocato, essendo all’altro notificato un avviso con generalità dell’assistito difformi da quelle esatte. L’imputato era regolarmente citato.
All’udienza non risultava presente alcun difensore di fiducia e quindi veniva nominato un difensore di ufficio prontamente reperibile. Non veniva rilevata, né dedotta alcuna questione in ordine alla regolarità delle notifiche.
Nell’interposto ricorso per cassazione, si rilevava una nullità assoluta, stante l’inesistenza, per un difensore, della notifica dell’avviso ex art. 601 c.p.p.. La Corte riteneva infondata la questione, con una pluralità di argomentazioni che meritano di essere brevemente richiamate.
Il riferimento all’art. 171 lett. c.p.p. consente anzitutto di chiarire che non si verserebbe comunque in un’ipotesi di inesistenza della notifica, giacché la prefata norma, nell’indicare i casi di nullità della notificazione, individua tra le altre ipotesi di nullità proprio quella evocata dalla difesa, ossia il caso della "incertezza assoluta sull’autorità o sulla parte privata richiedente ovvero sul destinatario".
Tuttavia, ad avviso della Corte, la nullità non sarebbe integrata nel caso di specie, perché l’incertezza in ordine alla parte assistita non potrebbe dirsi assoluta. Infatti i riferimenti inequivoci all’impugnazione proposta in appello, con l’indicazione del numero di procedimento e la "vicinanza" tra il nominativo reale dell’assistito e quello effettivamente riportato sull’atto, farebbero sì che fosse facilmente evincibile a quale assistito pertinesse l’avviso di fissazione di udienza.
In ogni caso, l’eventuale nullità si sarebbe sanata, perché a regime intermedio. Infatti la Corte, richiamando alcuni precedenti, ha osservato che la nullità, derivante dall’omesso avviso dell’udienza a uno dei due difensori dell’imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione a opera dell’altro difensore comparso e a nulla rileva che nel caso di specie nessuno dei difensori di fiducia era comparso, giacché <<è onere del difensore presente, anche se nominato d’ufficio in sostituzione di quello di fiducia regolarmente avvisato e non comparso, verificare se sia stato avvisato anche l’altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione, eventualmente interpellando il giudice>>.
Quanto le concrete modalità di svolgimento dell’udienza con un difensore di ufficio, immediatamente reperibile, rendano praticabile tale onere è questione tutta da verificare.

21 ottobre 2020

L'eterogenesi dei fini sul principio della ragionevole durata del processo - di Daniele Livreri

Le riflessioni sul principio della ragionevole durata del processo, a margine di una comune giornata di un leguleio - di Daniele Livreri




Qualche giorno fa su questo blog, abbiamo riflettuto su una pronuncia di legittimità che amplia la nozione di superfluità della prova, in considerazione del principio della ragionevole durata del processo (Giusto processo: una ingiusta interpretazione del principio di ragionevole durata del processo rischia di fagocitare il diritto di difesa).

Si tratta di una sentenza che ci è parsa criticabile, poiché sacrifica ingiustamente le prerogative difensive, in conseguenza di una lettura del principio di “ragionevole durata” svincolata da quello del giusto processo e comunque frutto di un'esegesi assai estensiva della nozione di superfluità. Mi pare per contro che quel principio continui a non manifestare i suoi benefici in favore dell'indagato.

Proprio oggi un mio assistito, indagato in un procedimento per cui da alcuni mesi è stata formulata istanza di archiviazione, mi ha chiesto lumi sui tempi in cui vi sarà una decisione. Le sorti di quel procedimento determineranno per lui scelte importanti. 

La mia risposta è stata disarmante: semplicemente non ci sono tempi per decidere e so bene che tra udienze e vicende cautelari, altre decisioni incalzano. Tuttavia quello che un po' mi sorprende è non aver trovato soluzioni giurisprudenziali fondate sul principio della ragionevole durata, che a questo punto dovrebbe dar forma all'intero processo.

Ad esempio non si potrebbe ritenere che il termine di tre mesi introdotto dalla riforma Orlando per celebrare l'udienza, ove la richiesta di archiviazione non sia accolta de plano, integri un termine per decidere tout court? Sono disposto a convenire che sarebbe una lettura non troppo ossequiosa della littera legis, ma quante volte la lettera ha ceduto ad interpretazioni ispirate ad altri canoni? Epperò, anche a voler aderire a questa lettura riformata dell’art. 409 c.p.p., ove il Giudice non rispettasse quel termine, quali sarebbero le conseguenze?

Forse il vero tema è semplicemente che si è manifestata, rispetto al principio della ragionevole durata, introdotto in tesi a tutela del cittadino incolpato, un'eterogenesi dei fini.   

20 ottobre 2020

Corte Costituzionale n. 218 del 20 ottobre 2020: incostituzionale l'art. 512 c.p.p. nella parte in cui non consente la lettura delle dichiarazioni rese nell'interrogatorio di garanzia dal co-indagato

Per l'importanza della questione, diamo informazione della decisione della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 218 di oggi, 20 ottobre 2020, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 512 c.p.p. nella parte in cui non prevede che possa darsi lettura dibattimentale, per il caso di irripetibilità, delle dichiarazioni rese nell'interrogatorio di garanzia dall'indagato di reato connesso
La Consulta ha giudicato “irragionevole” che la norma censurata consenta la lettura, per irripetibilità, degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori e dal GUP, e non anche degli atti assunti dal GIP nell’interrogatorio di garanzia dell’imputato di reato collegato, qualora questi sia stato citato per essere sentito come teste in dibattimento.

Giudizio immediato: un caso sulla inosservanza dei termini di durata delle indagini. Illegittimità costituzionale dell'art. 455 c.p.p.? - di Marco Siragusa

Qui in commento - per la rubrica opinioni e documenti - una questione di nullità del decreto che ha disposto il giudizio immediato e di illegittimità costituzionale dell'art. 455 comma 1 c.p.p., che trae spunto da una vicenda processuale.


Il Caso. Nel 2017 il pubblico ministero iscrive nel registro notizie di reato i nominativi di alcuni indagati. Nel 2018 il pubblico ministero chiede l'archiviazione per tutti gli indagati. A seguito dell'udienza ex art. 409 comma 2 c.p.p., il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta e (i) ordina nuove indagini; (ii) ordina ulteriori iscrizioni nel registro notizie di reato a carico di soggetti (sino ad allora) non indagati. L'ordinanza del giudice per le indagini preliminari è del 21 dicembre 2018 e risulta depositata in pari data presso la sua cancelleria . Viene comunicata al pubblico ministero in data 21 gennaio 2019.
Se è così: a) il 21 gennaio 2019 il pubblico ministero aveva notizia che il giudice per le indagini preliminari gli aveva "ordinato" nuove iscrizioni nel registro notizie di reato; b) ma il pubblico ministero procedette alle nuove iscrizioni soltanto il 18 febbraio 2019. Da quella data (18 febbraio 2019), il pubblico ministero ha poi preteso di far decorrere il termine di novanta giorni per l'esercizio dell'azione penale nelle forme del rito immediato (la richiesta di giudizio immediato risulta depositata il novantesimo giorno, cioè il 19 maggio 2019, assumendo come termine di computo proprio il 18 febbraio 2019, anziché il 21 gennaio 2019).
La questione. La questione attiene agli obblighi del PM sulle iscrizioni nel registro degli indagati, alla decorrenza dei termini d'indagine per gli sbocchi processuali che da tale iscrizione derivano e, infine, al (possibile?) controllo giurisdizionale.
Il termine dei novanta giorni per l'esercizio dell'azione penale nelle forme del rito immediato c.d. ordinario: la decorrenza. Occorre, in primo luogo, stabilire se il termine di novanta giorni decorra da epoca immediatamente prossima al 21 gennaio 2019 oppure no. A fronte dell'ordine di iscrizione del giudice per le indagini preliminari, il pubblico ministero deve compiere la <<attività che presuppone necessariamente l'iscrizione, dovendosi osservare in materia le regole di legalità formale imposte dall'art. 335 c.p.p., al cui rispetto è in ogni caso obbligato l'organo inquirente>> (cfr. Cass. pen., SS.UU. n. 4319 del 28.11.2013, dep. 31.1.2014)Com'è noto, l'art. 335 c.p.p. prescrive che il pubblico ministero <<iscrive immediatamente ogni notizia di reato che gli perviene...>>. Per immediatamente deve intendersi subito, non appena avutane notizia. Nel caso in esame, il pubblico ministero ha notizia dell'ordine di iscrizione il 21 gennaio 2019, ma vi ha dato esecuzione soltanto il 18 febbraio 2019. Deve quindi concludersi nel senso che il termine dei novanta giorni, decorre dalla data di effettiva conoscenza (21 gennaio 2019).
Il termine è un requisito essenziale del giudizio immediato. Com'è noto, il giudizio immediato può essere richiesto (e può essere disposto) ricorrendo tre condizioni: 1) la non decorrenza dei novanta giorni dalla data di iscrizione della notitia criminis; 2) l'evidenza della prova; 3) l'interrogatorio (o l'invito a renderlo) dell'indagato. Risolvendo una annosa questione sulla natura (ordinatoria anziché no) del termine dei novanta giorni, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (cfr. Cass. pen., SS.UU., n. 42979 del 14.10.2014, Squicciarino) ha affermato che «l'omesso rispetto dei termini [de quibus] ... ha rilievo sia come insussistenza di un presupposto necessario ed equipollente agli altri ai fini della corretta instaurazione del giudizio sia come elemento negativo della evidenza della prova». In altri termini, inosservato il termine dei novanta giorni ne deriva un vizio sia formale sia sostanziale: la mancanza del requisito di evidenza della prova.
In casi simili, mancano quindi i presupposti del rito. Ne consegue, sempre secondo il dictum a SSUU da ultimo citato, che il giudice per le indagini preliminari, richiesto della emissione del decreto che dispone il giudizio immediato, deve rigettare la richiesta del pubblico ministero per mancanza dei presupposti. Infatti, l'assenza del requisito dei novanta giorni si traduce in una presunzione di assenza dell'evidenza della prova (<<traducendosi in una sorta di presunzione legale di non evidenza probatoria nei casi in cui le indagini si protraggano oltre tre mesi>>, cfr. Cass. pen., SS.UU., n. 42979 del 14.10.2014, Squicciarino).
Ma quid iuris se il GIP è disattento o non si avvede della violazione della regola del termine? La violazione è deducibile innanzi al giudice del dibattimento?
Occorre fare una breve premessa. Nella elaborazione giurisprudenziale è pacifico che:
a) il giudizio immediato, attraverso la eliminazione dell'udienza preliminare, <<non è privo di riflessi per i diritti difensivi, in quanto esclude il controllo dell'indagato sulla necessità e sulla opportunità del rinvio a giudizio: tale controllo si configura come un diritto procedimentale>> (Cass. pen., SS.UU., n. 42979 del 14.10.2014, Squicciarino);
b) <<... il punto di equilibrio tra le opposte esigenze – la rapidità del processo e il diritto a non subire un dibattimento immotivato – è garantito nel sistema attraverso il sindacato operato dal giudice per le indagini preliminari, effettuato inaudita altera parte>> (SSUU cit.).
In altri termini: a) l'udienza preliminare costituisce un diritto dell'imputato; b) ad essa si può ovviare a due condizioni: b.1) per rinuncia dell'imputato; b.2) per la ricorrenza dei presupposti previsti dall'art. 453 c.p.p.
In quest'ultimo caso, il controllo dei requisiti previsti dal sistema (90 giorni, evidenza e interrogatorio) è equipollente al giudizio prognostico del giudice dell'udienza preliminare, essendo assicurata una sorta di contraddittorio (con l'interrogatorio o con l'invito a renderlo). E' certamente differente, infatti, la condizione dell'imputato nei cui confronti l'azione penale sia esercitata in forma ordinaria: egli ha la possibilità di accedere al fascicolo del pubblico ministero e di chiedere un interrogatorio a “carte scoperte” (successivamente alla notifica dell'avviso ex art. 415 bis c.p.p.). Senza dimenticare che ha la possibilità di rendere dichiarazioni in udienza preliminare, alle medesime ordinarie condizioni di “conoscenza degli atti”. Diversamente nel caso del rito speciale, che proprio per questo è soggetto a regole ferree di deroga.
E, dunque, riassumendo: l'udienza preliminare è un diritto, surrogabile solo in presenza di una scelta legittima (rinuncia) o di un'opzione processuale del pubblico ministero, ma ricorrendo determinati presupposti a carattere tassativo.
In dottrina si è sostenuto che il mancato rispetto del limite temporale costituisce un vizio dell’atto ex art. 178 lett. c) c.p.p. in quanto <<non è seriamente dubitabile che qualora sia stabilito un modello legale tipico di giudizio nel quale si preveda che la richiesta del p.m. avvenga entro uno specifico termine, allora ciò significa che la specialità del provvedimento riposa anche nel rispetto del dato temporale e che il difetto di questo non può che comportare un vizio procedurale>>. La celebrazione dell’udienza preliminare, “filtro delle imputazioni azzardate”, è un autentico diritto dell’imputato.
Conforta l’interpretazione, avvallata dalla sentenza a SSUU citata, la espressa previsione legislativa di un vaglio giurisdizionale in ordine alla richiesta di rito immediato, dovendosi ritenere, argomentando a contrario, che diversamente il legislatore avrebbe dato facoltà al P.M. di esercitare direttamente l'azione penale (ubi lex voluit doxit ubi noluit tacuit). 
Proprio per la ragione da ultimo ricordata, il giudice per le indagini preliminari, destinatario della richiesta di emissione del decreto che dispone il giudizio immediato avanzata dal pubblico ministero, deve sempre verificare la sussistenza dei presupposti formali di accesso al rito speciale immediato invocato dalla pubblica accusa e, laddove rilevi la mancanza dei presupposti di legge, deve trasmettere gli atti al pubblico ministero e non emettere il decreto di giudizio immediato. 
Invero, secondo il già riferito orientamento giurisprudenziale, spetta al giudice di verificare la rispondenza dei requisiti (un “potere-dovere” previsto anche dalla legge delega al nuovo c.p.p., art. 44 L. 81/1987). Invero, la mancata celebrazione dell’udienza preliminare, attraverso l’accesso ad un rito immediato non ammissibile per carenza dei presupposti di legge, priva l’imputato di un diritto difensivo (quello all'avviso ex art. 415 bis  e alle prerogative ordinarie (l'interrogatorio a “carte note” e l'udienza preliminare).
Come ha osservato la dottrina <<esclusa l’inammissibilità, resta l’art. 178 lett. c) c.p.p.: l’imputato ha interesse all’udienza preliminare luogo di un contraddittorio utile alla difesa; il pubblico ministero l’ha saltata, fuori dai limiti temporali in cui poteva; l’imputazione risulta nulla e tale vizio contamina gli atti consecutivi (art. 185 c.p.p.); nullità rilevabile ex officio in primo grado; se nessuna l’ha dedotta ed il Giudice non la rileva, è sanata>>.
A ben vedere, nel caso in esame, il vizio del procedimento sembra riconducibili a tre nullità: le prime due, a regime intermedio, ex art. 178 lett. c) c.p.p. in relazione all'intervento dell'imputato (vocatio in iudicium) e alla sua assistenza (l'interrogatorio svolto su un materiale probatorio privo del requisito di evidenza e con “conoscenza limitata degli atti”); la terza, nullità assoluta, per violazione dell'art. 178 lett. b) c.p.p. con riferimento alla irritualità dell'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero.
Secondo la Corte di Cassazione «non è abnorme il provvedimento con il quale il tribunale dichiara la nullità del decreto di giudizio immediato per l’avvenuta trasmissione della relativa richiesta oltre il termine di novanta giorni, in quanto non si pone al di fuori dell'ordinamento giuridico, rientrando invece nel normale esercizio dei poteri e dei doveri che competono al giudice del dibattimento, né determina la stasi del processo, potendo il p.m. comunque promuovere il giudizio ordinario» (Cass. Sez. VI 31/01/2003 n. 8878) . Sennonché, proprio la sentenza a SS.UU., n. 42979 del 14.10.2014, ha statuito che «la decisione con la quale il giudice delle indagini preliminari dispone il giudizio immediato non può essere oggetto di ulteriore sindacato» . Posta in questi termini la questione sembrerebbe in effetti  preclusa ad ogni eccezione, con la conseguenza che omesso il controllo da parte del GIP sarebbe poi precluso ogni sindacato da parte del giudice del dibattimento. E si comprende: se il giudice del dibattimento per decidere la questione fosse costretto a "metter mani" nel fascicolo del PM, l'imputato potrebbe "decidere", magari agitando questioni dilatorie e infondate, il giudice del suo processo, rendendo di volta in volta incompatibile quello designato. 
Tuttavia, il principio di diritto di cui all'arresto a SS.UU. Squicciarino cit. deve essere letto in relazione alla questione deferita al Collegio di legittimità. Se in quel contesto, le SSUU hanno ritenuto preclusa al giudice del dibattimento la verifica sulla erroneità della decisione del giudice per le indagini preliminari sul rilievo che al tribunale non è dato verificare gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, e dunque gli è impedita la verifica della evidenza probatoria, ci si deve orientare diversamente laddove la verifica possa essere effettuata dal giudice dibattimentale senza "accedere" agli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento.
Invero, come s'è osservato, nella sentenza viene stabilita una relazione (una presunzione legale) tra il termine dei novanta giorni e l'evidenza probatoria, di tal che mancando il termine si presume manchi l'evidenza probatoria. Se è così, ci si deve diversamente orientare nel caso sopra segnalato, nel quale al giudice non è richiesto di verificare l'evidenza probatoria (ossia di accedere al fascicolo del pubblico ministero), ma semplicemente di accertare – sarebbe più corretto dire constatare - che i 90 giorni erano già decorsi al momento della richiesta del pubblico ministero (da questa inosservanza derivando l'assenza della evidenza probatoria, senza necessità di “accesso agli atti” del fascicolo del pubblico ministero).  Opinando diversamente, si dovrebbe infatti concludere per l'autarchia della delibazione del giudice per le indagini preliminari, anche nel caso in cui essa fosse manifestamente errata. Il che, ovviamente, non fa parte del sistema (solo il giudizio di legittimità ha connotati di autarchia, che peraltro va progressivamente perdendo). S'aggiunga che se la legge delega al nuovo codice di rito ha previsto il potere/dovere del giudice al controllo sull'azione penale esercitata dal pubblico ministero, sarebbe irragionevole circoscrivere tale sindacato ad un solo giudice (quello per le indagini preliminari) e non ritenerlo esteso anche ad altro giudice (quello del dibattimento).
A ritenere diversamente, la questione si presta del resto a rilievi di legittimità costituzionale dell'art. 455 c. 1 c.p.p. per violazione degli artt. 3, 24, 76 e 111 Costituzione. 
Sull'articolo 3 Costituzione si osserva: l'art. 550 c. 3 c.p.p. consente al tribunale di disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero laddove questi abbia esercitato l'azione penale con citazione diretta a giudizio anziché con richiesta di rinvio a giudizio. Stabilisce quindi un ulteriore diritto all'udienza preliminare per l'imputato tratto erroneamente a giudizio in via diretta. Ne segue che viola il principio di eguaglianza la mancata previsione di censurare l'errato esercizio dell'azione penale per i reati più gravi (quelli che “passano” dall'udienza preliminare), diversamente da quanto avviene per i “reati minori” da citazione diretta a giudizio. Ancora sull'art. 3 Costituzione si osserva: la mancata previsione per il giudice del dibattimento di controllare la (errata) decisione del giudice per le indagini preliminari, viola anche il principio di ragionevolezza. Ciò è tanto più vero sol che si consideri che dopo la sentenza a SSUU n. 42979/2014 il requisito della evidenza probatoria non richiede un apprezzamento da parte del giudice del dibattimento, essendone presunta la carenza dal mancato rispetto del termine. 
Sull'art. 24 Costituzione si osserva: se l'udienza preliminare è un diritto, la privazione di esso, su presupposti errati, viola il diritto di difesa. 
Sull'art. 76 Costituzione si osserva: l'art. 44 della legge delega al c.p.p. dispone il “potere/dovere” del giudice di decidere sulla richiesta del pubblico ministero. Non v'è ragione per ritenere che il “giudice” debba identificarsi con il giudice per le indagini preliminari e non anche con il giudice della fase e/o del grado successivi. 
Sull'art. 111 Costituzione si osserva: il diritto all'udienza preliminare trova ragione nelle esigenza dell'imputato di vedere definita in tempi rapidi la sua questione processuale. A tale diritto, nel sistema del giudizio immediato, supplisce l'interrogatorio che è però reso su un materiale probatorio consolidato, ignoto all'indagato (“evidente” nella definizione codicistica). Nel caso segnalato, manca l'evidenza per il decorso del termine di novanta giorni, con la conseguenza che l'interrogatorio non ha assicurato i requisiti richiesti dall'atto di garanzia, non essendo intervenuto su un compendio di “evidenza probatoria”.
Il caso evidenzia quindi, a parere di chi scrive, una nullità del decreto che ha disposto il giudizio immediato per violazione degli artt. 453 comma 1 c.p.p.. in relazione agli artt. 178 lett. b) c.p.p.. con profili, in alternativa, di illegittimità costituzionale dell’art. 455 comma 1 c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, 76 (in relazione all’art. 44 L. 81/1987) e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento possa delibare sulla ritualità del decreto che dispone il giudizio immediato e, verificatane la carenza dei presupposti, ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero.

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