la Suprema
Corte è investita del ricorso di un indagato avverso il provvedimento dei
Giudici territoriali che avevano respinto la sua istanza di sostituzione della
misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari.
Sin dalle
prime righe della sentenza di legittimità si evince la rilevanza degli
interessi in gioco:
infatti,
per quanto le esigenze cautelari non erano state ritenute di eccezionale rilevanza,
è pur vero che il detenuto, già gravato da precedenti penali, è allo stato indagato
per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso e per più
episodi di traffico di sostanze stupefacenti. Inoltre egli avrebbe partecipato
anche a dei summit per la spartizione dei proventi derivanti da estorsioni e gli
sarebbe stato commissionato un omicidio, poi non portato a termine. Per quanto si tratti di mere accuse, esse non sono certamente di poco momento.
Tuttavia l’indagato
è padre di un minore di cinque anni affetto da un grave disturbo dello spettro
autistico con compromissione intellettiva e del linguaggio (il piccolo utilizza
esclusivamente la parola mamma in maniera indifferenziata), associata a
disregolazione emotiva e atteggiamento oppositivo, con disturbi del sonno,
eteroaggressività e tendenza all’autolesionismo.
La necessità di coadiuvare la moglie nel problematico accudimento del minore è stata invocata quale motivo dell'invocata sostituzione della misura.
Orbene è evidente che la fondatezza dell'istanza dipende
dall’esegesi dell’art. 275 c.p.p., comma 4, a mente del quale il padre di prole
di età inferiore ad anni sei non può essere sottoposto alla custodia cautelare
in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, qualora
la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla
prole.
Ciò posto, dalla
lettura della sentenza di legittimità si coglie che il Tribunale del riesame aveva
rigettato la prefata istanza, considerando che:
1) la rilevanza del ruolo paterno
nell’ambito delle ipotesi di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4 risulta ancora
circoscritta all’ambito di una mera supplenza, onde l’incompatibilità con il
carcere sorge per il padre esclusivamente ove la madre sia in condizioni fisiche,
psicologiche od esistenziali, tali da non poter prestare assistenza ai minori,
condizioni che non ricorrevano nel caso di specie;
2) la madre
comunque potrebbe ricorrere a figure private o strutture pubbliche di sostegno,
per provvedere alle esigenze del figlio;
3) in ogni
caso sarebbe incongruente una soluzione che affidasse alla discrezionalità del
giudice penale l’apprezzamento, caso per caso, della particolare condizione del
minore, derivando da essa l’incoerente condizione di un giudice chiamato ad
applicare una misura nei confronti di un imputato sulla base di valutazioni
relative non già a quest’ultimo, ma ad un soggetto terzo (il minore) estraneo
al processo.
Tuttavia la Corte di cassazione sembra aver dato luogo ad un cambio di paradigma nell'interpretare il disposto di legge: il focus per cogliere la ricorrenza della richiamata "impossibilità" materna non è costituito dalle condizioni della genitrice, ma da quelle del minore.
Al riguardo la Corte regolatrice ha ritenuto che interpretare la
nozione di assoluta impossibilità della madre di accudire la prole sulla scorta della sola idoneità fisica, psicologica od esistenziale della
genitrice, senza avere riguardo alle concrete condizioni del minore, sia non
aderente alla ratio della norma ed ai valori costituzionali che l’hanno
ispirata.
In tale nuovo paradigma "l’assoluta impossibilità" di cui
all’art. 275 si apprezza soprattutto in considerazione del
rischio in concreto derivante per il minore dal "deficit"
assistenziale, dovuto alla mancata, valida ed efficace presenza di entrambi
i genitori. Al riguardo i Giudici hanno precisato che <<se la ratio
dei divieti di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4 è da ravvisarsi nella necessità
di salvaguardare l’integrità psicofisica di soggetti diversi dalla persona da
assoggettare a custodia in carcere, nella consapevolezza dei gravi effetti che
le mutazioni del rapporto affettivo possono provocare su soggetti in tenera età,
occorre effettivamente porre al centro del perimetro valutativo del giudice,
anche nell’analisi dell’"assoluta impossibilità" della madre ad occuparsi
della prole, proprio l’integrità psico-fisica del minore da accudire, in
relazione alla necessità di assistenza da parte dei genitori in un momento
particolarmente significativo e qualificante per la formazione fisica e,
soprattutto psichica, qual è quella fino ai sei anni di età>>.
Né la Corte ha mancato di rilevare che ciò che il Giudice della cautela deve
valutare è proprio la <<situazione concreta nella sua interezza su cui
la custodia cautelare in carcere del padre di prole di età inferiore a sei anni
va incidere>>.
All’esito
del suo scrutinio la Corte ha annullato il provvedimento, onerando i Giudici di merito, in sede di rinvio, di verificare, in concreto, la sussistenza per il
minore di un "deficit" assistenziale, sotto il profilo della
irreversibile compromissione del processo evolutivo-educativo per la mancata,
valida ed efficace presenza di entrambi i genitori.
La sentenza conferma che l'Italia non ha prigionieri di guerra e che vi sono dei Giudici a ricordarcelo.