La Corte di Giustizia dell'Unione Europea è stata adita, con rinvio pregiudiziale, per stabilire se i Giudici domestici possano disapplicare le normative nazionali che contrastino con l’articolo 20 della direttiva 2014/67 (che regola il distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi), sotto il profilo della proporzionalità della sanzione prevista.
In particolare il citato articolo prevede che: «Gli Stati membri stabiliscono le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per garantirne l’osservanza. Le sanzioni previste sono effettive, proporzionate e dissuasive».
Tuttavia, a fronte della normativa austriaca che sanziona la violazione delle disposizioni in tema di distacco dei lavoratori con un meccanismo punitivo che prevede un minimo di pena pecuniaria per ciascun lavoratore senza alcun limite massimo, i giudici nazionali hanno ritenuto la sanzione sproporzionata, interrogandosi se potessero disapplicarla e come.
La Grande Sezione della Corte con sentenza dell'8 marzo 2022 ha riconosciuto il potere di disapplicazione nei limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate (sentenza al link).
Al di là del caso concretamente deciso, la statuizione dei Giudici europei può aprire orizzonti molto più ampi.
Al riguardo deve rammentarsi che il riferimento alla proporzionalità della sanzione è contenuto in diverse fonti europee (si pensi ad esempio all'art. 84 del regolamento 2016/679 in tema di trattamento dati), ma, soprattutto, che l'articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, peraltro richiamata in un passaggio della pronuncia, fa espresso divieto di irrogare pene sproporzionate rispetto al reato.
E' evidente che si aprano ulteriori temi di riflessione. E ciò a maggior ragione che negli stessi giorni in cui maturava la decisione della Corte di Bruxelles, la nostra Corte costituzionale conduceva un'operazione del tutto analoga a quella tratteggiata dalla Grande sezione, "disapplicando" la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» prevista dall’art. 726 del codice penale, per introdurre quella costituzionalmente adeguata «da euro 51 a euro 309» (nostro post al link)
Il tema andrebbe poi colto nell'ottica della più generale imprevedibilità della pena nel sistema italiano, caratterizzato da forbici edittali sempre più ampie e con meccanismi sanzionatori, quali quelli della continuazione, palesemente incontrollabili.
Tutta
La corte sembra ritenere che il punctum dolens sia <<il cumulo senza limite massimo di ammende che non possono essere inferiori a un importo predefinito>>.
Il giudice del rinvio pregiudiziale <<chiede se ed, eventualmente, in che limiti tale normativa possa essere disapplicata>>.
Nella sua ordinanza del 19 dicembre 2019, Bezirkshauptmannschaft Hartberg-Fürstenfeld (C-645/18, non pubblicata, EU:C:2019:1108), la Corte ha dichiarato che l’articolo 20 della direttiva 2014/67 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che prevede, in caso di inosservanza di obblighi in materia di diritto del lavoro relativi alla dichiarazione di lavoratori e alla conservazione di documentazione salariale, l’irrogazione di sanzioni pecuniarie di importo elevato: – che non possono essere inferiori a un importo predefinito; – che sono irrogate cumulativamente per ciascun lavoratore interessato e senza un massimale, e – alle quali si aggiunge un contributo alle spese del procedimento pari al 20% del loro importo in caso di rigetto del ricorso proposto avverso la decisione che le irroga.
La Corte ritiene che <<qualora uno Stato membro oltrepassi il suo potere discrezionale adottando una normativa nazionale che prevede sanzioni sproporzionate in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della direttiva 2014/67, l’interessato deve poter invocare direttamente il requisito di proporzionalità delle sanzioni enunciato all’articolo 20 della direttiva stessa contro una normativa siffatta (v., per analogia, sentenze del 28 giugno 2007, JP Morgan Fleming Claverhouse Investment Trust e The Association of Investment Trust Companies, C-363/05, EU:C:2007:391, punto 61, nonché del 28 novembre 2013, MDDP, C-319/12, EU:C:2013:778, punto 51)>>.
<<Del resto, occorre rammentare che il rispetto del principio di proporzionalità, che costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, si impone agli Stati membri nell’attuazione di tale diritto, anche in assenza di armonizzazione della normativa dell’Unione nel settore delle sanzioni applicabili [v., in tal senso, sentenze del 26 aprile 2017, Farkas, C-564/15, EU:C:2017:302, punto 59, e del 27 gennaio 2022, Commissione/Spagna (Obbligo di informazione in materia fiscale), C-788/19, EU:C:2022:55, punto 48]. Qualora, nell’ambito di una siffatta attuazione, gli Stati membri adottino sanzioni aventi carattere più specificamente penale, essi sono tenuti ad osservare l’articolo 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), a norma del quale le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato. Orbene, detto principio di proporzionalità, che l’articolo 20 della direttiva 2014/67 si limita a richiamare, presenta carattere imperativo>>.