La sentenza n. 96/2022 della Corte Costituzionale (all link) pur decidendo "in ritardo", recte dopo la sopravvenienza della normativa emergenziale che ha esteso l'utilizzo della pec alle parti private, offre lo spunto per alcune considerazioni e lancia un chiaro avviso al Legislatore delegato.
Si legge infatti in sentenza:
È innegabile che dal quadro normativo precedente alla legislazione emergenziale del 2020, poc’anzi ricostruito, trasparisse una evidente disparità di trattamento tra le parti del processo penale.
Al pubblico ministero era infatti consentito in via generale l’uso della PEC per le notificazioni al difensore dell’imputato o indagato, laddove analoga possibilità era preclusa al difensore per le notificazioni al pubblico ministero.
E ciò ancorché il difensore fosse già tenuto a dotarsi di PEC e a comunicare il proprio indirizzo all’Ordine di appartenenza (art. 16, comma 7, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante «Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 28 gennaio 2009, n. 2), nonché ad adempiere ai doveri di corretta manutenzione della propria casella di posta elettronica certificata, delineati dall’art. 20 del d.m. n. 44 del 2011 (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 18 giugno 2018, n. 51464), onde poter ricevere le notificazioni dell’autorità giudiziaria. Al punto che, in difetto di istituzione o comunicazione dell’indirizzo di PEC, ovvero in caso di mancata consegna del messaggio di PEC proveniente dall’autorità giudiziaria per cause imputabili al destinatario, le notificazioni al difensore erano eseguite «esclusivamente mediante deposito in cancelleria» (art. 16, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012).
5.2.– Una tale disparità di trattamento non poteva, d’altra parte, ritenersi sorretta da ragionevoli giustificazioni.
Vero è che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: potendo una disparità di trattamento “risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia”» (sentenza n. 34 del 2020, e ivi numerosi precedenti citati).
E vero è, altresì, che tra queste esigenze, idonee a giustificare una transitoria differenza di trattamento tra pubblico ministero e difensore, ben potevano annoverarsi – allorché il legislatore introdusse, con il d.l. n. 179 del 2012, le notifiche telematiche al difensore – le difficoltà tecniche, per gli uffici del pubblico ministero, legate alla gestione di un gran numero di comunicazioni via PEC, con conseguente necessità di monitorare continuamente le caselle di posta elettronica e – in assenza di fascicoli digitalizzati – di stampare, registrare e inserire nei fascicoli cartacei i documenti inviati dai difensori.
Cionondimeno, tali indubbie difficoltà avrebbero potuto e dovuto essere affrontate – nell’arco dei ben sei anni trascorsi tra il d.l. n. 179 del 2012 e l’ordinanza di rimessione – attraverso appositi accorgimenti tecnici e organizzativi, come quelli posti in essere con immediatezza non appena scoppiata la pandemia da COVID-19 (supra, punto 2.4.). Il che avrebbe evitato il verificarsi, nel 2018, di situazioni singolari come quella, realizzatasi nel giudizio a quo, di un difensore che riceve legittimamente dal pubblico ministero via PEC la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari a carico del proprio assistito, ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen., e che si trova però nell’impossibilità di rispondere con la medesima modalità al pubblico ministero, per esercitare una delle più importanti facoltà – la richiesta di interrogatorio dell’indagato – previste dallo stesso art. 415-bis.
Questo ritardo nell’adeguamento della normativa sulle notificazioni e comunicazioni al pubblico ministero all’evoluzione tecnologica si è tradotto, d’altra parte, in un pregiudizio significativo a carico del difensore e dello stesso imputato. In effetti, la facoltà di utilizzare lo strumento telematico per le proprie notificazioni e comunicazioni è funzionale a una maggiore effettività del diritto di difesa, che l’ordinamento ha il dovere di garantire e di promuovere in forza dell’art. 24, secondo comma, Cost. Notificare un atto via PEC dal proprio studio professionale comporta evidentemente un significativo risparmio di tempi e di costi non solo rispetto all’ordinario procedimento tramite ufficiale giudiziario, ma anche rispetto alla pur semplificata modalità prevista dall’art. 153 cod. proc. pen., rappresentata dal deposito di copia dell’atto nella segreteria del pubblico ministero, dal momento che tale attività presuppone pur sempre l’accesso a un ufficio che potrebbe trovarsi anche a grande distanza dallo studio del difensore, con conseguente necessità per quest’ultimo di munirsi di un procuratore in loco, e per l’imputato di accollarsi i costi relativi (sull’effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost., sentenza n. 18 del 2022, punto 4.4. del Considerato in diritto, in fine; sentenza n. 10 del 2022, punto 9.2. del Considerato in diritto, e ulteriori precedenti ivi citati).
5.3.– Tuttavia, l’auspicata pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione censurata rischierebbe di determinare essa stessa nuove disarmonie e incongruenze.
Anzitutto, va considerato che l’introduzione della facoltà, per le parti e i difensori, di effettuare notificazioni al pubblico ministero tramite PEC presuppone una complessa attività di normazione primaria e secondaria, volta a creare le condizioni pratiche perché tale facoltà possa essere utilmente esercitata. È necessario, tra l’altro, assicurare il corretto funzionamento dei servizi di ricezione delle notificazioni telematiche da parte degli uffici giudiziari; stabilire le caratteristiche tecniche degli atti da notificare; disciplinare le modalità di attestazione della loro spedizione e ricevimento; gestire la fase di transizione dalle notifiche tradizionali a quelle telematiche e la necessaria formazione del personale degli uffici giudiziari. Il tutto nel più ampio contesto della realizzazione di un processo penale telematico, nel quale il legislatore è altresì chiamato a scegliere, in radice, se la modalità di trasmissione degli atti di parte al pubblico ministero durante le indagini preliminari debba essere individuata nella PEC, o in altro strumento telematico – come avvenuto, durante l’emergenza pandemica, in relazione all’uso del «portale del processo penale telematico» (PPPT) di cui all’art. 24, commi 1 e 2, del d.l. n. 137 del 2020 (supra, punto 2.4.3.).
Tutti ciò esorbita, ovviamente, dai poteri di questa Corte, (...)
D’altra parte, questa Corte non può non tenere conto del mutamento del quadro normativo intervenuto nel lunghissimo lasso temporale che separa l’ordinanza di rimessione dalla presente decisione, causato – per ironia della sorte – dalle difficoltà incontrate dalla cancelleria del giudice a quo nell’eseguire le prescritte notificazioni e comunicazioni al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle due Camere. Le modifiche normative fanno sì che la richiesta del giudice a quo di introdurre nell’art. 153 cod. proc. pen. la facoltà per il difensore di effettuare notifiche e comunicazioni al pubblico ministero via PEC sia ormai in conflitto con la diversa scelta compiuta dal legislatore del 2020 di prevedere – quanto meno sino al 31 dicembre 2022 – che memorie, documenti, richieste e istanze del difensore al pubblico ministero (compresa quella di interrogatorio dell’indagato ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen.) siano depositati sul menzionato portale del processo penale telematico (PPPT), anziché – appunto – inviati mediante PEC.
Al contempo, questa Corte non può, però, esimersi dal formulare il pressante auspicio che il Governo dia puntuale attuazione alla delega conferitagli dall’art. 1, commi 5 e 6, della legge n. 134 del 2021, confermando così anche per il futuro la facoltà per il difensore di giovarsi di modalità telematiche per l’effettuazione di notificazioni e depositi presso l’autorità giudiziaria. Ciò in coerenza con il dovere costituzionale di assicurare piena effettività al diritto di difesa, e assieme di superare definitivamente l’irragionevole disparità di trattamento tra parte pubblica e privata ravvisata, a ragione, dal giudice rimettente.