La settima sezione, con l'ordinanza n. 18830 del 22.04.2022, ordinanza
al link, ha dato continuità all'insegnamento di legittimità, secondo cui la
possibilità di ricorrere in cassazione avverso una sentenza di c.d.
patteggiamento, per motivi attinenti all'erronea qualificazione giuridica del
fatto, è possibile soltanto in caso nel caso in cui si denunci un errore
manifesto, configurabile quando tale qualificazione risulti, con indiscussa
immediatezza e senza margini di opinabilità, palesemente eccentrica rispetto al
contenuto del capo di imputazione (ex multis, Sez. 2, n. 14377 del 31/03/2021 Paolino,
Rv. 281116 -01; Sez. 5, n. 33145 del 08/10/2020, nonché 43898/21).
Si
tratta in realtà di un approdo maturato già antecedentemente alla
novella del 2017 che, nel riformulare l'art. 448, ha previsto la possibilità
di ricorrere soltanto per motivi attinenti all'espressione della volontà
dell'imputato stesso, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza,
all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o
della misura di sicurezza.
Tuttavia la littera
legis pare marcare una discontinuità con la giurisprudenza antecedente
alla riforma, non limitando in alcun modo la possibilità di ricorrere per vizi
inerenti alla qualificazione giuridica ai soli casi di errore manifesto.
Ma
la Corte regolatrice ha palesato sin da subito una diversa opinione.
Infatti,
Cassazione penale sez. I, 20/03/2018, (ud. 20/03/2018, dep. 06/04/2018),
n.15553, aveva considerato che <<la novella ha codificato, forse
con una imprecisa tecnica normativa, gli approdi giurisprudenziali
della Corte di legittimità la quale aveva ammesso la possibilità di proporre
ricorso avverso la sentenza di patteggiamento che presenti un'erronea
qualificazione giuridica del fatto>>. Non è
ozioso considerare che la Corte giungeva alla superiore conclusione attraverso
un'indagine che aveva a premessa anche lo <<scopo
di limitare l'abuso dello strumento processuale destinato altrimenti ad
aggravare ulteriormente il ruolo della Corte Suprema>>.
Eppure,
la Corte, nell'interpretare la novella, avrebbe potuto condurre un più serrato
confronto con le ragioni che indussero le Sezioni Unite n. 5 del 2000,
dirimendo il precedente contrasto, ad ammettere il ricorso avverso la
sentenza di patteggiamento per vizio di qualificazione giuridica. Al riguardo
il massimo consesso nomofilattico sottolineò che <<il potere del
giudice di controllare la corretta definizione giuridica è previsto a presidio
della obbligatorietà della legge penale, obbligatorietà che, è superfluo
rilevarlo, non può non essere sottratta per definizione alla disponibilità
delle parti>>, aggiungendo, per dirimere l'ammissibilità della
possibilità di ricorrere: <<se veramente
il legislatore volesse quel controllo e, però, impedisse la denuncia, in
sede di legittimità, con la quale si assumesse che il controllo è
stato male eseguito, vorrebbe dire che il legislatore vuole e, nello stesso
tempo, non vuole il controllo, che l'ordinamento giuridico ha interesse e,
nello stesso tempo, non ha interesse a quel controllo, vorrebbe dire, in altri
termini, che l'ordinamento giuridico, in questo caso, viola, infrange, il
principio di non contraddizione e lo viola, lo infrange, nonostante che la
qualificazione giuridica del fatto sia materia sottratta alla
disponibilità delle parti e che l'errore sulla qualificazione giuridica sia
un chiaro errore di diritto e, quindi, nonostante la ricorribilità per
cassazione di tutte le sentenze per violazione di legge, come prevede
l'articolo 111, comma 2, della Carta costituzionale>>.