19 settembre 2021

La Corte costituzionale detta le regole per l’azione civile in caso di sopravvenuta estinzione del reato: la probabile illegittimità costituzionale dell’art. 578 comma 1- bis c.p.p. introdotto dalla riforma ‘Cartabia’ - di Paolo Ferrua

Paolo Ferrua ci ha fatto un dono prezioso consentendo la pubblicazione in anteprima sul nostro blog del suo scritto destinato alla pubblicazione su Cassazione penale in una versione corredata da note bibliografiche.
Le riflessioni del prof. Ferrua, che muovono dalla sentenza n. 182/2021 della quale abbiamo dato notizia, proiettano la portata precettiva di quella decisione nel prossimo futuro della riforma Cartabia. Ne vien fuori uno scritto ineccepibile nel contenuto e nel rigore scientifico e logico; uno scritto che "apre" idee ad ogni riga.
Siamo grati al professor Paolo Ferrua.




1. La sentenza costituzionale n. 182 del 2021: nessuna presunzione di colpevolezza nell’art. 578 comma 1 c.p.p.

Con la recente sentenza n. 182 del 2021 la Corte costituzionale ha affermato la piena legittimità dell’art. 578 c.p.p. secondo cui «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili» (v. un primo commento di Marco Siragusa, su questo blog, Presunzione di innocenza, prescrizione e domanda di risarcimento. La Corte Costituzionale mette ordine? Tra dialogo tra Corti e prevedibili complicazioni dell'immediato futuro, al link).

Il giudice rimettente dubitava della legittimità di questa disposizione in rapporto al principio della presunzione di innocenza contemplato dall’art. 6 par. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e destinato, per il tramite dell’art. 117 comma 1 Cost., a fungere da norma interposta rispetto al nostro ordinamento. L’obbligo del giudice penale di decidere sull’azione civile, nonostante la sopravvenuta causa estintiva del reato, sarebbe lesivo della presunzione di innocenza perché imporrebbe al giudice di appello di formulare, sia pure in via incidentale ed al solo fine di decidere sulla pretesa risarcitoria, un nuovo giudizio sulla responsabilità dell’imputato; responsabilità che viene esclusa dalla declaratoria di estinzione del reato. 

La Corte costituzionale osserva, anzitutto, che, a differenza del codice abrogato ispirato al principio di preminenza della giurisdizione penale, il codice vigente è improntato, nelle relazioni tra processo civile e processo penale, al principio dell’autonomia e della separazione. Più in particolare, mentre in primo grado la condanna penale costituisce il presupposto indispensabile perché il giudice possa provvedere sulla domanda restitutoria o risarcitoria, nei gradi di impugnazione questa stessa regola «deflette a tutela del diritto di azione della parte civile», in forza di «norme particolari che attribuiscono al giudice del gravame o al giudice del rinvio in seguito a cassazione, il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur in presenza di una pronuncia di proscioglimento e quindi in assenza dell’accertamento della responsabilità penale».

Con queste disposizioni - prosegue la Corte costituzionale – il legislatore «ha voluto evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna, oggetto di impugnazione; finalità questa che si coniuga alla necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione».

Ciò premesso, secondo la Corte costituzionale, occorre distinguere tra quanto è rispettivamente disposto dagli articoli 578 e 578-bis c.p.p., entrambi riferiti alla sopravvenienza di una causa estintiva del reato, ma relativo l’uno alla decisione sull’azione civile, l’altro alla decisione sulla confisca già disposta in primo grado. In quest’ultimo caso, il giudice, anche in presenza di una causa estintiva del reato, è tenuto comunque a verificare la responsabilità personale dell’imputato, «sebbene sia sufficiente che tale giudizio risulti nella “sostanza dall’accertamento” contenuto nella motivazione della sentenza, non essendo necessario che assuma, in dispositivo, la “forma della pronuncia” di condanna».

Non così, invece, nell’art. 578 c.p.p. dove, nel conoscere della domanda civile, il giudice penale non deve minimamente «verificare se sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civile)». In altri termini, «la mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale in ordine al reato estinto per prescrizione non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l’accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale al pari di quella, per l’imputato, derivante dalla presunzione di innocenza». 

È vero che l’illecito civile si fonda «sull’elemento materiale e psicologico del reato», ma «risponde a diverse finalità e richiama un diverso regime probatorio», come emerge «riguardo sia al nesso causale, sia all’elemento soggettivo dell’illecito». In particolare, il giudice di appello, nel pronunciare la sentenza di non doversi procedere per sopravvenuta amnistia o prescrizione, «non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all’evento in base alla regola dell’“alto grado di probabilità logica”», valido per l’appunto nel settore penale. Si attiene, invece, trattandosi di illecito civile, al «criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente” che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell’ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584)». 

L’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile – nota ancora la Corte costituzionale - «non è revocata in dubbio dalla circostanza che esso si svolga dinanzi al giudice penale e sia condotto applicando le regole processuali e probatorie del processo penale (art. 573 c.p.p.)». L’applicazione dello statuto della prova penale «è pieno e concerne sia i mezzi di prova (sarà così ammissibile e utilizzabile, ad esempio, la testimonianza della persona offesa che nel processo civile sarebbe interdetta dall’art. 246 cod. proc. civ.), sia le modalità di assunzione della prova (le prove costituende saranno così assunte per cross examination ex art. 499 cod. proc. pen. e non per interrogatorio diretto del giudice), le quali ricalcheranno pedissequamente quelle da osservare nell’accertamento della responsabilità penale: ove ne ricorrano i presupposti, dunque, il giudice dell’appello penale, rilevata l’estinzione del reato, potrà – o talora dovrà (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio- 4 giugno 2021, n.22065) – procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili (art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.)». 

In definitiva - conclude la Corte costituzionale, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 c.p.p. - «la regola dell’accessorietà dell’azione civile (che comporta il sacrifico dell’interesse della parte civile)», valida nel primo grado di giudizio, «non trova applicazione allorché la dichiarazione di non doversi procedere dipenda dalla sopravvenienza di una causa estintiva del reato riconducibile a prescrizione o ad amnistia, nel qual caso prevale l’interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo, che continua dinanzi allo stesso giudice penale, sebbene sia mutato l’ambito della cognizione richiestagli, che va circoscritta alla responsabilità civile»; sulla base, quindi, di un «accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell’imputato per il reato estinto». 


2. Contenuto e criteri della decisione del giudice penale sull’azione civile ai sensi dell’art. 578 comma 1 c.p.p. 

La sentenza della Corte costituzionale appare pienamente condivisibile nella parte in cui esclude qualsiasi contrasto dell’art. 578 comma 1 c.p.p. con la presunzione di innocenza. 

La motivazione, a dir il vero, pare a tratti oscillare tra due diverse prospettive: una - a nostro avviso più convincente - secondo cui il giudice penale deve accertare, dal punto di vista fattuale, tutti gli elementi che compongono la fattispecie penale, astenendosi, tuttavia, dalle relative qualifiche penali e, quindi, da ogni richiamo alla responsabilità penale (così, ad esempio, quando la Corte parla di risarcimento del danno non patrimoniale «in tutte le ipotesi di derivazione del pregiudizio da un illecito civile coincidente con una fattispecie penale» ai sensi dell’art. 185 c.p.p.; o di un illecito civile che si fonda «sull’elemento materiale e psicologico del reato»); l’altra, secondo la quale il giudice si limiterebbe soltanto ad «accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ» in base alla regola di ‘atipicità’ ivi operante, prescindendo dalla «fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato»; nel qual caso potrebbe risultare indifferente la presenza del dolo o della colpa.

Analogamente, quanto allo standard probatorio nella valutazione della pretesa risarcitoria, si può a lungo discutere se il giudice penale debba davvero seguire il canone civilistico del ‘più probabile che non’, come afferma la Corte costituzionale, con la conseguente asimmetria tra i diversi criteri di valutazione da rispettare nel corso del processo; o se debba sempre attenersi al canone penalistico dell’alta probabilità o dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Ma, quale che sia lo standard probatorio da seguire, resta assorbente il rilievo che la decisione sulla pretesa risarcitoria riguarda il solo tema della responsabilità civile.

La circostanza che il giudice penale, per decidere sull’azione civile, debba accertare la sussistenza del fatto previsto dalla legge come reato non compromette in alcun modo la presunzione di innocenza: non solo perché ‘accertare’ e ‘presumere’ sono termini antitetici, ma perché ciò che si accerta non è il reato, ormai estinto, ma il ‘fatto’ che costituisce anche illecito civile; accertamento che, avendo come oggetto un fatto e non un reato, si svolge a pieno titolo in via principale, senza alcuna interferenza con la dichiarazione di estinzione del reato. 

Dunque, contrariamente a quanto assumeva il giudice a quo, non vi è alcun giudizio incidentale sulla responsabilità penale dell’imputato; esattamente come non vi è quando a decidere sulla pretesa risarcitoria è il giudice civile con le relative regole probatorie. Non si comprende perché mai la dichiarazione di estinzione del reato, che in nessun modo esclude la sussistenza o la commissione del fatto (altrimenti prevarrebbe la formula pienamente liberatoria), dovrebbe impedire, in nome della presunzione di innocenza che riguarda il settore penale, la ricostruzione di quello stesso fatto a fini risarcitori. Sia detto di sfuggita, ma quel che oggi vistosamente contraddice e vanifica la presunzione di innocenza non è certo la pronuncia del giudice penale sull’azione civile in presenza di una causa estintiva del reato; è l’uso, troppo disinvolto, della custodia cautelare.


3. La probabile illegittimità dell’art. 578 comma 1-bis c.p.p. introdotto dalla riforma ‘Cartabia’ 

Quid iuris nel caso in cui sia dichiarata la ‘improcedibilità’ per decorso dei termini di durata massima del processo, recentemente introdotta in sede di impugnazione dalla riforma ‘Cartabia’, approvata in prima lettura dalla Camera dei deputati? 

Deviando dalla regola contemplata dal primo comma dell’art. 578 c.p.p., il nuovo comma 1-bis, aggiunto alla medesima disposizione, stabilisce che «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale». 

È una scelta, a nostro avviso, fortemente sospetta di illegittimità costituzionale.

Anzitutto, non si comprende quale sia la ragione a base di una così vistosa deviazione dalla regola dell’art. 578 comma 1 c.p.p., ritenuto perfettamente legittimo dalla Corte costituzionale. Che anche nell’ipotesi della ‘improcedibilità’ nulla osti ad affidare al giudice penale la decisione sull’azione civile è documentato dalla circostanza che l’improcedibilità, al pari della estinzione del reato, è dichiarata con sentenza di non doversi procedere dal giudice di appello o di cassazione; e, come si è appena sottolineato, il giudice penale decide sull’azione civile esclusivamente a fini risarcitori. Anzi, nel caso della improcedibilità, a differenza di quanto accade con l’estinzione del reato, non esiste neppure una dichiarazione di non punibilità dell’imputato o una, pur minima, valutazione sul fondamento dell’accusa, dato che l’improcedibilità impedisce qualsiasi indagine di merito, prevalendo su ogni formula assolutoria; e, di conseguenza, viene meno persino quel parametro penalistico con il quale la decisione sull’azione civile potrebbe astrattamente porsi in conflitto.

Nessun ostacolo può, d’altro canto, derivare dalla circostanza che l’azione penale sia dichiarata ‘improcedibile’. Come giustamente osservato dalla Corte costituzionale, la regola dell’accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale - in base alla quale la condanna penale costituisce il presupposto indispensabile per il provvedimento del giudice sulla domanda civile – ben può deflettere, nei gradi di impugnazione, «a tutela del diritto di azione della parte civile, in forza di norme particolari che attribuiscono al giudice del gravame o al giudice del rinvio in seguito a cassazione, il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur […] in assenza dell’accertamento della responsabilità penale»; quindi, a maggior ragione, quando tale accertamento sia a priori interdetto, come nel caso della improcedibilità.

Immaginiamo, a questo punto, la possibile obiezione: la circostanza che, anche nel caso della improcedibilità, sia pienamente legittima la scelta di devolvere la decisione sull’azione civile al giudice penale, sulla scia di quanto stabilito dall’art. 578 comma 1 c.p.p., non dimostra ancora l’illegittimità della diversa scelta di prevedere la prosecuzione dell’azione risarcitoria davanti al giudice civile, come dispone il comma 1-bis che la riforma ‘Cartabia’ si accinge ad introdurre nell’art. 578 c.p.p. 

Anche a prescindere dalla irrazionalità di disciplinare in modo così difforme situazioni del tutto omologabili, è facile replicare che la prosecuzione dell’azione risarcitoria davanti al giudice civile si risolve in un pesante pregiudizio per la parte civile quanto a protrazione dei tempi processuali, dispendio di energie e spese difensive. Lo sottolinea ripetutamente, a chiare lettere, la Corte costituzionale, parlando della opportunità di «un bilanciamento tra le esigenze sottese all’operatività del principio generale di accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale […] e le esigenze di tutela dell’interesse del danneggiato costituito parte civile»; della necessità che, in caso di dichiarazione di non doversi procedere per la sopravvenienza di una causa estintiva del reato «preval[ga] l’interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo che continua dinanzi allo stesso giudice penale»;  di evitare che le «cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna, oggetto di impugnazione»; e, infine, della «necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione».

Come si potrebbero ritenere realizzati i valori del giusto processo e della sua ragionevole durata - ai quali tutte le parti hanno diritto e che costituiscono garanzie oggettive di buon funzionamento della giurisdizione - se la parte civile fosse costretta a proseguire l’azione di fronte al giudice civile, vedendo vanificata, a causa di un ritardo processuale a lei non imputabile, la pretesa risarcitoria già accolta in primo grado? Come negare che una disciplina del genere sia gratuitamente punitiva per la parte civile, senza che nulla possa giustificare l’arbitraria deviazione da quanto disposto nell’art. 578 comma 1 c.p.p. per la sopravvenuta estinzione del reato?

Dopo avere irrazionalmente aggiunto alla prescrizione ‘sostanziale’, operante in primo grado, la ‘improcedibilità’, operante nei gradi successivi (v. di chi scrive su questo blog Le ragioni di un rifiuto al link; Id., La singolare vicenda della “improcedibilità”, in Il Penalista, 27 agosto 2021), la riforma ‘Cartabia’, altrettanto irrazionalmente, si allontana con il nuovo comma 1-bis dell’art 578 c.p.p. dalla più coerente disciplina contenuta nel comma 1 della medesima disposizione. La sola via per non incorrere in una declaratoria di illegittimità per contrasto con gli artt. 3 e 111 comma 2 Cost. sta nel modificare, prima che sia deferita alla Corte costituzionale, la disposizione dell’art. 578 comma 1-bis c.p.p., uniformandola a quanto contemplato nel primo comma dello stesso articolo. 


4. Questioni concettuali: presunzione di innocenza, standard probatorio, dichiarazione di estinzione del reato e accertamento della responsabilità 

Nella sentenza in esame vi sono alcune affermazioni, a nostro avviso, meritevoli di qualche chiosa, senza che ciò incida sulla solidità dell’iter argomentativo e sulla correttezza delle conclusioni. 

Primo. In questa, come in altre sentenze, la Corte costituzionale parla di un principio di ‘presunzione di innocenza’ o ‘di non colpevolezza’ che sarebbe contenuto nell’art. 27 comma 2 Cost., in analogia con quanto previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 6 par. 2). Premesso che ‘presunzione di innocenza’ e ‘presunzione di non colpevolezza’ sono formule del tutto equivalenti (il ‘non colpevole’ è un innocente e viceversa, come d’altronde sottolinea l’etimo della parola ‘in-nocente’), la Costituzione, a differenza della CEDU, non prevede alcuna ‘presunzione’ o ‘considerazione’ né di ‘innocenza’ né di ‘non colpevolezza’ (P. Ferrua, La prova nel processo penale, vol. I, Struttura e procedimento, 2 ed., Giappichelli, Torino, 2017, 56 s.). 

Lungi dall’obbligare a ‘considerare’ o a ‘presumere’ alcunché, l’art. 27 comma 2 Cost. vieta, invece, di considerare o di presumere l’imputato colpevole. Tale il senso della formula «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»: come si può agevolmente constatare, ciò che si nega non è la qualifica di ‘colpevole’, ma il verbo ‘considerare’, equivalente a ‘presumere’. In altri termini, si è in presenza di una ‘negazione passiva’ (l’imputato non è considerato colpevole), dove il ‘non’ precede il verbo, ben distinta dalla ‘negazione attiva’ nella quale il ‘non’ precede la qualifica di ‘colpevole’ (l’imputato è considerato non colpevole). Chiunque comprende che il divieto di presumere è agli antipodi dell’obbligo di presumere.

Ciò detto, muovendo dal presupposto che la Costituzione sia un testo più politico che giuridico, si può anche in via interpretativa convertire un divieto di presumere la colpevolezza in un obbligo di presumere l’innocenza; a condizione, tuttavia, che si sia ben consapevoli dell’ardito salto logico in cui si incorre.

Secondo. L’affermazione secondo cui nel processo civile si segue lo standard probatorio del ‘più probabile che non’ o della ‘probabilità prevalente’ - a differenza del processo penale dove vale la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio o dell’alto grado di probabilità logica - riflette una diffusa giurisprudenza che, peraltro, non trova conferma in alcuna disposizione di legge. Non vi è ragione, a nostro avviso, perché il concetto di ‘provare’ e di ‘è provato’ debba mutare a seconda del contesto di riferimento. Nella triade che compone l’operazione probatoria - prove, proposizione da provare, atto del provare o standard probatorio - a variare non è lo standard probatorio, ma sono le prove e la proposizione da provare. Nell’ambito del settore induttivo, rectius abduttivo, a cui appartiene il processo, lo standard probatorio resta il medesimo, rappresentato dalla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che segna il livello massimo e, al tempo stesso, minimo, perché una qualsiasi proposizione possa ritenersi ‘provata’. 

Indebolire il concetto di ‘provare’, sino a renderlo compatibile con la presenza di ragionevoli dubbi, equivale ad entrare nella zona delle ipotesi, delle illazioni e dei sospetti (La prova, cit., 92 s.). L’aggettivo ‘ragionevole’ è già sufficientemente elastico da offrire ampi margini alla discrezionalità del giudice e consentire adattamenti ai diversi contesti processuali, senza alcuna necessità di abbassare ulteriormente lo standard probatorio. 

Ciò premesso, se nel processo civile si intende agevolare la prova del nesso causale rispetto a quanto si richiede nel processo penale, occorre modificare non già lo standard probatorio, che uscirebbe pericolosamente indebolito su ogni elemento della fattispecie, ma la singola proposizione da provare, sostituendo alla prova del ‘nesso causale’ la prova del ‘probabile nesso causale’. Così avviene, ad esempio, nei provvedimenti cautelari del processo penale: a variare rispetto all’alternativa condanna/proscioglimento non è lo standard probatorio che resta immutato, ma la proposizione da provare, rappresentata dalla ‘probabile colpevolezza’, anziché dalla ‘colpevolezza’: con i ‘gravi indizi di colpevolezza’ si allude, per l’appunto, alla ‘probabile colpevolezza’. In altri termini, il ‘probabile’ non appartiene allo standard probatorio, ma alla proposizione da provare. Non è solo una questione terminologica: si tratta di evitare lo svilimento del concetto di ‘provare’ che rischierebbe di essere rimesso all’arbitrio del giudicante in tutti i casi in cui non sia accompagnato dall’espresso richiamo alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, a nostro avviso già implicita nel concetto stesso di provare.

Terzo. L’affermazione che l’estinzione del reato viene dichiarata con una sentenza di ‘non doversi procedere’, appartenente come tale al genere delle decisioni meramente processuali o di improcedibilità, riflette puntualmente la terminologia codicistica; ma non è, a mio avviso, corretta, perché in realtà la decisione di estinzione del reato è, almeno parzialmente, di merito, dovendo il giudice accertare, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., che non risulti evidente l’innocenza dell’imputato, in presenza della quale va data precedenza alla formula pienamente liberatoria. 

Se la dichiarazione di estinzione del reato avesse carattere schiettamente processuale, non potrebbe accertare alcunché sul fondamento dell’accusa e dovrebbe essere disposta con precedenza assoluta su ogni altra formula: così, infatti, accade con l’improcedibilità che va dichiarata quand’anche vi fosse la prova di innocenza dell’imputato. La migliore classificazione nell’ambito delle sentenze penali resta la fondamentale tripartizione tra sentenze meramente processuali (o di improcedibilità), sentenze di proscioglimento (nell’ambito delle quali rientra anche la dichiarazione di una causa estintiva del reato) e sentenze di condanna; anzi, nulla vieterebbe di ritenere sinonimi proscioglimento o assoluzione, ferma restando in quell’ambito la distinzione tra le diverse formule di proscioglimento o di assoluzione. Come osserva Franco Cordero (Procedura penale, 9 ed., Giuffrè, Milano, 2012, 985), «che il reato sia estinto è la formula d’una decisione assolutoria: visibilmente, attiene al merito; tutto sta nel vedere in quale rapporto stia con quelle fondate su premesse negative concernenti fatto e rilevanza penale». 

Quarto. Sulla scia della precedente giurisprudenza (cfr. la sentenza costituzionale n. 49 del 2015, nonché Corte EDU, 28 giugno 2018, G.I.EM. srl e altri contro Italia; Cass. 8 novembre 2018, n. 5936), la Corte ritiene sufficiente, ai fini di una conferma della confisca ai sensi dell’art. 578-bis c.p.p., che il giudizio sulla sussistenza della responsabilità penale «risulti nella “sostanza dell’accertamento” contenuto nella motivazione della sentenza, non essendo necessario che assuma, in dispositivo, la “forma della pronuncia” di condanna». 

Ora, è vero che, nel dichiarare l’estinzione del reato, il giudice nella motivazione può affermare di ritenere provata la colpevolezza dell’imputato. Tuttavia, perché un fatto possa dirsi giuridicamente ‘accertato’ nel senso proprio del termine, non basta che ne renda conto la motivazione; serve anche una precisa assunzione di responsabilità sulla sua sussistenza da parte del giudice, la quale deve risultare dal dispositivo. In altri termini, l’accertamento ha due componenti. Una componente ‘cognitiva’ espressa nella motivazione che spiega le ragioni a sostegno dell’esistenza del fatto e una componente ‘imperativa’ espressa nel dispositivo che contiene il fiat, l’enunciato performativo con cui il giudice dichiara, certifica l’accertamento del fatto. Mancando l’una o l’altra componente, l’accertamento è monco.

Si può anche convenire che la confisca non implichi necessariamente la pronuncia di una condanna e sia, quindi, compatibile con la dichiarazione di estinzione del reato; ma occorre, che il fatto, ricostruito nella motivazione, trovi esplicito riscontro nel testo del dispositivo. Il discorso, svolto in forma narrativa nella motivazione, è spesso variamente interpretabile e indefinito nei contorni, mentre solo dagli enunciati categorici del dispositivo emerge con chiarezza l’oggetto della decisione, ossia i fatti realmente accertati; ferma restando, ovviamente, l’esigenza di verificare se le ragioni esposte in motivazione sorreggano adeguatamente il contenuto del dispositivo. 

La nostra giurisprudenza, nel disporre il proscioglimento per estinzione del reato, non menziona nel dispositivo l’eventuale sussistenza del fatto; se si vuole che ne consegua la confisca, occorre che, a dispetto della radicata prassi, il fatto sia espressamente dichiarato sussistente nel dispositivo.


Paolo Ferrua

Professore emerito di procedura penale 

nell'Università di Torino

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