22 settembre 2021

Di diritto, in autunno...- di Luigi Tramontano (*)

 Prosegue sul nostro blog il dibattito sulla Riforma Cartabia (il piano completo al link). Dopo gli interventi di Giorgio Spangher (link), Bartolomeo Romano (link), Paolo Ferrua (link), il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), e gli interventi di Daniele Livreri (link) Michele Passione (link), Daniele Carra (link) di Filippo Giunchedi (link), di Aldo Casalinuovo (link),  ospitiamo con vero piacere l'intervento del socio di questa Camera penale, Luigi Tramontano.


La salute dello stato di diritto viene severamente compromessa, come si sa, dal proliferare di virus estremamente contagiosi ed aggressivi come l’emergenza, la necessità, l’urgenza, tutti agenti patogeni che fagocitano in poco tempo le norme di legge, attaccandone il fondamento e la logica e giustapponendo, a libertà e diritti, doveri ed obblighi non più giuridici, ma morali, di buon senso, o di opportunità, in ogni caso indiretti e non scritti. 

La deriva del contenuto della legalità in un senso sempre più sostanziale, e patologico, ha già stravolto ad esempio – senza abrogarlo – l’istituto della prescrizione penale. È un fenomeno inesorabile lo scorrere del tempo tra la commissione di un reato e il suo accertamento definitivo. La prescrizione in materia criminale regola semplicemente le conseguenze di tale decorso, per la ragione naturale e umana che una punizione è avvertita sempre meno giusta quanto più si allontani dal fatto da punire. Ora, che si condivida o meno tale fondamento, una volta che sia maturato il relativo termine la prescrizione è ancora prevista nel nostro ordinamento come diritto di ogni accusato, tant’è che l’art. 157 c.p. contempla la possibilità di rinunziarvi. E non si equivochi: parlo appunto del diritto che sorge a prescrizione avvenuta, non del diritto a puntare alla estinzione del reato per decorso del tempo (ogni accusato avendo semmai diritto ad essere giudicato nel merito mediante un processo, come più volte ha dovuto chiarire la Suprema Corte).

Quanto avvenuto a scapito del diritto alla prescrizione è ben noto. Complice una martellante campagna di (dis-)informazione, nella concezione diffusa esso ha del tutto perduto la sua natura, per assumere le forme di una vergogna. La rinuncia dello Stato alla punizione – che, passato un certo tempo dal fatto, segna uno dei tipici momenti di equilibrio tra autorità e libertà in un dato ordinamento – è stata invero considerata ad un certo punto moralmente inaccettabile, sulla scorta del duplice argomento – talmente erroneo in diritto da risultare persino falso – che ad essa vi si giungerebbe a causa delle tattiche dilatorie dell’imputato (non dunque per una vera scelta dello Stato), e che essa sarebbe un danno (o una beffa) per le parti offese.

Ovviamente, non è la prescrizione in sé il vulnus del sistema, ma piuttosto il numero troppo alto di prescrizioni che quotidianamente vengono dichiarate dai nostri tribunali, ossia il fatto che i nostri processi penali hanno una durata eccessiva.

Ma il diritto, e la logica, appunto, non hanno contato più. Vale allora la pena di ricordare, oggi, quanto fin da subito segnalato da diversi esponenti dell’avvocatura al riguardo. Ossia, che il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, proprio perché non accorcia la durata dei procedimenti ma li allunga, consente di conseguenza alla pubblica accusa, una volta esercitata l’azione penale, di ottenere il risultato che l’accusato rimanga sotto processo per un tempo assai più esteso. Dacché, non decorrendo più la prescrizione dopo la sentenza di prime cure (anche se di assoluzione, non si dimentichi), l’imputato dovrà attendere in ogni caso una pronuncia nel merito, con carattere definitivo. Questo, invero, l’effetto oggettivo che la crociata anti prescrizione – in buona o in mala fede, non importa più accertarlo – ha comportato. Ecco perché valuto con favore, sia pur estremamente cauto, quanto si è verificato in questi ultimissimi mesi. Gli equilibri delle forze politiche attualmente alla maggioranza non permettevano, com’è evidente, di ritornare d’èmblée all’istituto della prescrizione ante riforma Bonafede, o addirittura di recuperarne l’originario e autentico significato. E allora, facendo uso proprio delle stesse armi brandite da chi si è tanto impegnato per togliere di mezzo la prescrizione (un diritto), additandola quale male in sé (una vergogna), si è usato il trucco di cambiare nome a quest’ultima, chiamandola improcedibilità. Chi di spada ferisce, di spada perisce, verrebbe da dire. In tale maniera si è riusciti però, quanto meno, a contenere di molto gli effetti nefasti e innaturali che quella mistificatoria operazione avrebbe potuto da qui a poco tempo generare. Il “correttivo” così congegnato pone di nuovo un limite, infatti, al potere della pubblica accusa – vero disequilibrio del sistema – di mantenere sotto processo l’accusato ad libitum o comunque per un tempo abbastanza lungo da sottrarlo, senza possibilità di ritorno, dal contesto sociale o politico in cui era inserito; in quanto, pur dopo il congelamento della prescrizione con la pronuncia di primo grado, il processo dovrà comunque terminare in appello e/o in cassazione – salve le disuguaglianze aggiunte nel corso dei lavori – entro un termine tutto sommato ristretto, altrimenti si estingue.

Non mi si equivochi: il mezzo di giocare con le parole non mi piace, perché provoca solo pasticci, e genera a sua volta incertezza. Vero è pure, però, che il nuovo termine (improcedibilità) assunto in sostituzione del primo (prescrizione) non è intrinsecamente falso. In tanti ordinamenti europei – ad esempio, giusto in Francia – ciò che si prescrive è proprio l’azione di accusa, non il reato. E, del resto, pure da noi alla causa processuale della sospensione si è fatto ampiamente e direi anche fin troppo abbondantemente ricorso, finora, giusto per contraddire il senso stesso della prescrizione. Mentre nel nuovo progetto un istituto di carattere processuale viene introdotto, all’opposto, per far rivivere proprio l’effetto estintivo connesso all’inutile decorso del tempo. 

Ora, nella stessa direzione – ed anzi ancora più a fondo – mi pare converga un’altra importante novità prospettata dal progetto Lattanzi/Cartabia, sulla quale (per fortuna) i crociati della imprescrittibilità a tutti i costi non si sono punto concentrati, prigionieri essi stessi del demone cornuto da combattere che avevano creato, e che ormai unicamente vedono i loro occhi.

Mi riferisco alla norma che muta la regola valevole per archiviare un procedimento. Non sarà più una prognosi di non potere efficacemente sostenere l’accusa in giudizio, bensì la diagnosi che il materiale probatorio raccolto al termine delle indagini preliminari non abbia buone probabilità di condurre ad una condanna, in prosieguo.

Poter fondatamente sostenere l’accusa in giudizio è all’evidenza compito ben meno impegnativo di quello di raccogliere elementi tali da poter giungere con buone probabilità ad una condanna. Nel primo caso, infatti, bastano degli indizi, che rimangono con ogni fondamento cavalcabili da chi accusa fino a quando non smontati o contraddetti da altri elementi di prova (introdotti dalla difesa, o acquisiti d’ufficio). Di solito, quindi, ex post, ossia al dibattimento o comunque nel giudizio di merito.

Non può quindi negarsi che il restringere il potere/dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale nei soli casi in cui tale azione possa assai ragionevolmente condurre alla condanna dell’accusato, si muova lungo la stessa direttrice della riaffermata preclusione che l’accertamento giudiziario penale duri senza limiti di tempo. La nuova regola, infatti, fissando in modo più restrittivo le condizioni per cui l’azione penale possa dirsi doverosamente esercitata, circoscrive già alla base il potere delle Procure di sottoporre un cittadino a processo e può quindi contribuire a togliere finalmente di mezzo quell’altro dannoso fraintendimento che ha preso purtroppo piede fin dall’entrata in vigore del codice Vassalli: non è infatti l’avvio e il mantenimento di un procedimento penale ad essere obbligatorio a norma dell’art. 112 Cost. – se pure l’iscrizione di ogni notitia criminis nel registro delle notizie di reato sia anch’esso atto dovuto, per come impone l’art. 335 c.p.p. – bensì appunto, e soltanto, l’esercizio dell’azione penale, ossia la contestazione formale di un’accusa. L’obbligatorietà costituzionale non può invero che riferirsi ad un’azione penale che in tanto può dirsi doverosa in quanto più che probabilmente fondata, solo questa potendo concepirsi rientrare nella funzione primaria dello Stato di rendere giustizia.

Come già segnalato da diversi appassionati del diritto in queste stesse pagine, però, l’innovazione in parola meriterebbe di essere più compiutamente strutturata, perché così com’è nella legge di delega approvata da un ramo del Parlamento pare possedere ancora un respiro troppo corto. Da più parti si teme, infatti, che la nuova regola verrà comunque interpretata nella prassi come la precedente, continuandosi cioè ad esercitare l’azione penale (rectius: a non chiedersi l’archiviazione) anche in presenza di elementi già in partenza contraddittori (ad esempio due versioni contrastanti sulla verità di una testimonianza) o insufficienti (per esempio, una sola chiamata di correo) e ciò quanto meno tutte le volte in cui non appaia di tutto principio esclusa la possibilità di risolvere le antinomie o di colmare le lacune, in seguito. Timore, questo, certamente condivisibile, che invero non pare potersi sgombrare per il solo fatto che la riforma abbia previsto di estendere il controllo giurisdizionale circa il rispetto della nuova regola anche a tutti i reati per cui debba procedersi a citazione diretta, attraverso la cosiddetta udienza predibattimentale, di nuovo conio (v. art. 6, lett. d, del disegno di legge in parola), che andrà ad aggiungersi, per gli altri reati, all’udienza preliminare.

Ora, il motivo per cui l’udienza preliminare non ha di fatto mai funzionato è noto a tutti. Risiede non solo, o non tanto, nel carattere tutto sommato evanescente del criterio decisionale assegnato al GUP, quanto, a monte, nel fatto che quest’ultimo non deve motivare il decreto che dispone il giudizio, essendo tenuto a giustificare invece la sentenza di proscioglimento che rigetti la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero. Differente disciplina dei due possibili esiti dell’udienza che, com’è altrettanto noto, il codice del 1988 ha previsto in nome del carattere eminentemente accusatorio che si voleva contrassegnasse la fase del dibattimento, dato che un provvedimento scritto in cui un giudice precedente avesse motivato perché l’imputato meritasse di andare a giudizio avrebbe potuto influenzare il giudice successivo. Ciò ha però comportato, paradossalmente, la previsione di un momento processuale ad equilibrio distorto perché, pur essendo a contraddittorio necessario, la difesa dell’imputato non ha in effetti, in esso, alcun diritto ad una risposta motivata del giudice sul non accoglimento della propria richiesta di non luogo a procedere, neppure laddove oltre ad averla semplicemente avanzata la abbia anche (più o meno compiutamente) argomentata o addirittura basata su prove documentali tempestivamente depositate. Qui, a mio sommesso parere, il vulnus decisivo della fase in parola, che ha finito per impedire, nella prassi applicativa, che essa funzionasse effettivamente da filtro dei processi che non vi sarebbe stato alcun bisogno di celebrare, come pure si sarebbe voluto.

Lo stesso elemento di debolezza presenta, di conseguenza, la modifica di cui sto parlando. Lasciare la scelta se chiedere o no l’archiviazione per improbabilità di una condanna al solo pubblico ministero rischia invero di vanificare gli scopi della riforma, così com’è indiscutibilmente avvenuto per l’udienza filtro preliminare.

Se si è d’accordo sul fatto che sia stata proprio la diseguaglianza tra le facoltà di richiesta dell’accusa e della difesa ad aver fatto sì che l’udienza preliminare mancasse al proprio compito, varrebbe allora davvero la pena di spendersi affinché, in attuazione della delega, il Governo non reiteri questo stesso errore nel disciplinare il momento di valutazione del “nuovo” criterio di archiviazione.

Posso immaginare, così su due piedi, una soluzione del genere. Prevedere un incidente processuale, al posto dell’udienza preliminare e della (programmata) udienza predibattimentale (che potrebbero eliminarsi del tutto), da innescare eventualmente, e solo, subito dopo la conclusione delle indagini preliminari. Dal relativo avviso, potrebbe infatti stabilirsi un termine di decadenza entro il quale la difesa, ove lo ritenga, possa formalmente chiedere l’archiviazione del procedimento per una delle ragioni previste dal codice, compresa naturalmente quella, di nuova introduzione, per cui gli elementi raccolti dall’accusa non consentano ragionevolmente di giungere all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, anche e soprattutto alla luce della condizione comunque invalicabile posta dall’art. 533, comma 1, c.p.p. Sulla relativa richiesta il giudice chiamato a pronunciarsi – che dovrà essere ovviamente diverso da quello a cui potrebbe essere assegnato il successivo eventuale giudizio – sarà quindi tenuto a motivare tanto l’accoglimento quanto il rigetto della archiviazione invocata dalla difesa.

Quest’ultima valuterà con ogni prudenza il rischio di una simile iniziativa. Perché, almeno emotivamente, è chiaro che l’eventuale rigetto (motivato) della sua richiesta di archiviazione per addotta improbabilità di condanna peserà non poco nel prosieguo del giudizio. Tale effetto – sia pur solo giuridicamente – potrebbe invero contenersi sol disponendo che la pronuncia del giudice sulla richiesta di archiviazione avanzata o dalla difesa o dall’accusa (sotto questo profilo l’identità del richiedente risulta invero indifferente) non possa mai entrare a far parte del fascicolo del dibattimento, salvo che lo chiedano concordemente le parti. Ma va pure considerato che la questione della possibile influenzabilità del giudice successivo è forse meno rilevante di quanto appaia a prima vista, perché un rigetto del genere produrrebbe semmai, nella più parte dei casi, un significativo – ma corretto – impulso deflattivo, in quanto, secondo logica, dovrebbe indurre di solito la difesa a indirizzarsi subito dopo, ove possibile, verso un rito alternativo al dibattimento.

 

Mi preoccupa non poco, infine, la progettata modifica del modus procedendi ordinario nei giudizi di impugnazione, da orale a cartolare. È un fatto che la comprensione di un ragionamento altrui risulta assai più impegnativa dalla sola lettura di ciò che abbia scritto piuttosto che dall’ascolto diretto. Soprattutto se, come inevitabilmente accade a tutti i nostri giudici, si hanno migliaia di carte da leggere in poco tempo. Sfido chiunque di noi avvocati ad affermare che ogni volta si sia imbattuto in una sentenza la abbia immancabilmente e dettagliatamente compresa alla prima lettura. Lo stesso, credo, non potrà onestamente sostenere un giudice con riguardo ad ogni atto di appello o ricorso per cassazione che abbia letto. Il tema meriterebbe evidentemente maggiore approfondimento, tuttavia, andando subito al nocciolo, non credo sia discutibile che un giudizio cartolare comporti minori garanzie per le parti rispetto a quello orale.

Auspico, dunque, che la scelta di non discutere l’impugnazione sia lasciata esclusivamente alla parte che abbia proposto l’impugnazione medesima. In molti casi la discussione può risultare effettivamente superflua, e chi ha predisposto il gravame lo sa. Allora sarà lui stesso a rinunciarvi. Del resto, proprio in questo senso è la prassi (virtuosa) che in molte corti di appello e in Cassazione si è radicata da più di qualche anno: all’inizio dell’udienza il presidente chiede chi, tra i diversi appellanti o ricorrenti, intenda semplicemente insistere sui motivi e chiama subito il relativo processo mettendolo in decisione. La progettata novella, invertendo questo rapporto, capovolge pericolosamente il principio che vi sta alla base: dovrà essere l’appellante o il ricorrente a chiedere espressamente, ed eccezionalmente, la discussione orale, e quindi svolgerla sostenendo in qualche modo che quanto i giudici avrebbero prima facie colto dal suo scritto non è esattamente ciò che egli avrebbe voluto dire. Il che significa, in buona sostanza, lasciare intendere che i giudici siano stati eventualmente poco attenti o superficiali lettori. Non scommetterei che molti di loro sarebbero sempre pronti ad accettarlo. Io non lo accetterei. Ma proprio per niente. E per chi deve essere ascoltato, le conseguenze di porsi subito male nei confronti di chi lo debba ascoltare mi paiono del tutto evidenti.

 

(*) Luigi Tramontano:  avvocato del Foro di Palermo dal 1998 e iscritto all’Albo dei Cassazionisti dal 2010, ha collaborato, per diversi anni, con la rivista “Il Foro Italiano”, sezione penale, sotto la direzione del Prof. Giovanni Fiandaca, pubblicando diverse note a sentenze e
una decina di articoli.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo
quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facolta di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.

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