Nei giorni passati ci siamo occupati della nuova "regola" di celebrazione dei giudizi di impugnazione con i commenti del prof. Filippo Giunchedi (link) e di Daniele Livreri (link).
Il tema - vorrei dirlo con parole semplici, senza banalizzarlo - è quello della pubblicità dei processi e della presenza del pubblico in aula. Ma, soprattutto, è quello della presenza dell'imputato al suo processo.
Ora, le prossime riforme intendono rendere "camerale e non partecipata" la celebrazione delle udienze di impugnazione (appello e giudizio di cassazione).
Non intendo occuparmi degli aspetti giuridici né della disciplina prossima ventura. M'interessa di più qualche riflessione sull'essenza del processo.
Nel suo commento (link), Daniele Livreri ha richiamato le norme internazionali e nazionali sulle quali fonda il principio di pubblicità delle udienze (e a quel contributo mi permetto di far rimando).
Vorrei quindi concentrare ogni riflessione sull'essenza della funzione del giudicare.
Primo. L'ordinamento attribuisce a un suo pubblico dipendente il potere di giudicare e di farlo in nome del popolo. Di tutto il popolo.
Secondo. Non esiste alcun'altra funzione che sia esercitata in nome di tutti noi. Non quella del governare né quella del legiferare. E neppure gli atti della pubblica amministrazione sono emanati in nome di tutto il popolo.
Terzo. Non a caso, in passato, la funzione del giudicare era riservata al Re, rappresentazione terrena di Dio. Era funzione sacerdotale, divina. Dunque infallibile per definizione. L'opposto di quel che avviene nei sistemi democratici, fondati su meccanismi di controllo e compensazione dei poteri.
Quarto. Il bilanciamento "democratico" impose la restituzione al popolo della funzione, nel cui nome oggi è esercitata.
Dunque, come si può esercitare il giudizio in nome di qualcuno che non è presente?
Può pronunciarsi sentenza in nome del popolo italiano assente?
E che ne è del corollario della pubblicità, cioè il controllo del mandante (il popolo) sull'esercizio del potere delegato?
S'aggiunga che in un sistema di giudici professionali, non eletti dal popolo sovrano, l'amministrazione della giustizia in nome del popolo mandante impone il controllo democratico sulla funzione. Altrimenti rischia di divenire una nuova forma di potere sacerdotale, divino, per di più esercitato per conto di chi non lo ha delegato né può verificarne l'esercizio.
Davvero vogliamo minare le fondamenta di queste elementari regole, portando fuori dai tribunali i cittadini?
Davvero vogliamo trasformare il Foro in una stanza?
O forse non riteniamo che queste modalità di esercizio della funzione su mandato di terzi ai quali non si deve neppure render conto non siano tanto pericolose da attentare alla regola costituzionale?
Io credo che recidere il controllo pubblico faccia perdere alla giustizia la possibilità di essere espressione della sovranità popolare. Anzi del popolo italiano.