Inauguriamo la nuova sezione del nostro blog "Processo e Linguaggio", ospitando con vero piacere il contributo del collega romano Riccardo Radi, pubblicato sul portale Filodiritto.com, che da oggi potrete trovare sui siti amici del nostro blog.
L’articolo pubblicato il 3 febbraio 1965 sul quotidiano “Il Giorno”, descrive l’uso inconsapevole dell’antilingua, cioè di un italiano surreale che avrebbe contagiato la lingua italiana quotidiana, la cui sostanza è semplice e chiara.
Nonostante siano passati 56 anni dalla stesura dell’articolo, le parole che leggiamo sono molto attuali e ci fanno riflettere sulla sorte non solo della lingua italiana, ma di tante altre lingue che si confrontano ogni giorno con i forestierismi e con la tendenza che molti settori e “intellettuali” hanno di complicare una lingua semplice.
Anche nel diritto, spesso inconsapevolmente gli “addetti ai lavori”, avvocati, giudici, carabinieri creano una lingua in una modalità ormai automatica. Anzi, si potrebbe scomodare Italo Calvino e dire che si crea una “antilingua”.
Caratteristica principale dell’antilingua giuridica è quella di tramutare in linguaggio giuridico i vocaboli in uso nella vita comune, nello slang giovanile, nel dialetto. Nell’articolo “La distorsione inconsapevole del parlato in ambito giudiziario” (Link) ho tratteggiato quanto accade normalmente nella stesura di verbali che spesso non vengono fonoregistrati.
Ma questa trasformazione converte le parole pronunciate in vocaboli vaghi e sfuggenti. Proprio così, vago e sfuggente, perché l’antilingua giuridica trasporta le parole e quindi il loro significato a un livello che, nelle intenzioni di chi scrive, dovrebbe essere “superiore” o “colto”, ma che nella realtà genera confusione e caos.
Un esempio calzante di antilingua giuridica è proprio l’articolo di Italo Calvino:
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”.
Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante».
Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua.
Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se “fiasco” “stufa” “carbone” fossero parole oscene, come se “andare” “trovare” «sapere» indicassero azioni turpi. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per sé stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. Abbiamo una linea esilissima, composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi verbi svuotati della loro forza, come ben dice Pietro Citati che di questo fenomeno ha dato un’efficace descrizione.
Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: «io parlo di queste cose per caso, ma la mia «funzione» è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia «funzione» è più in alto di tutto, anche di me stesso ».
La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua viene uccisa.
Se il linguaggio «tecnologico» di cui ha scritto Pasolini (cioè pienamente comunicativo, strumentale, omologatore degli usi diversi) si innesta sulla lingua, non potrà che arricchirla, eliminarne irrazionalità e pesantezze, darle nuove possibilità {dapprincipio solo comunicative, ma che creeranno, come è sempre successo, una propria area di espressività); se si innesta sull’antilingua, ne subirà immediatamente il contagio mortale, e anche i termini “tecnologici” si tingeranno del colore del nulla.
L’italiano finalmente è nato, – ha detto in sostanza Pasolini – ma io non lo amo perché è “tecnologico”.
L’italiano da un pezzo sta morendo, – dico io, – e sopravvivrà soltanto se riuscirà a diventare una lingua strumentalmente moderna; ma non è affatto detto che, al punto in cui è, riesca ancora a farcela.
Il problema non si pone in modo diverso per il linguaggio della cultura e per quello del lavoro pratico. Nella cultura, se lingua “tecnologica” è quella che aderisce a un sistema rigoroso, – di una disciplina scientifica o d’una scuola di ricerca – se cioè è conquista di nuove categorie lessicali, ordine più preciso in quelle già esistenti, strutturazione ne più funzionale del pensiero attraverso la frase, ben venga, e ci liberi i di tanta nostra fraseologia generica. Ma se è una nuova provvista di sostantivi astratti da gettare in pasto all’antilingua, il fenomeno non è positivo né nuovo, e la strumentalità tecnologica vi entra solo per finta.
Ma il giusto approccio al problema mi pare debba avvenire al livello dell’uso parlato, della vita pratica quotidiana. Quando porto l’auto in un’officina per un guasto, e cerco di spiegare al meccanico che “quel coso che porta al coso mi pare che faccia uno scherzo sul coso”, il meccanico che fino a quel momento ha parlato in dialetto guarda dentro il cofano e spiega con un lessico estremamente preciso e costruendo frasi d’una funzionale economia sintattica, tutto quello che sta succedendo al mio motore.
In tutta Italia ogni pezzo della macchina ha un nome e un nome solo, (fatto nuovo rispetto alla molteplicità regionale dei linguaggi agricoli; meno nuovo rispetto a vari lessici artigiani), ogni operazione ha il suo verbo, ogni valutazione il suo aggettivo. Se questa è la lingua tecnologica, allora io credo, io ho fiducia nella lingua tecnologica.
Mi si può obiettare che il linguaggio – diciamo così. – tecnico-meccanico è solo una terminologia; lessico, non lingua. Rispondo: più la lingua si modella sulle attività pratiche, più diventa omogenea sotto tutti gli aspetti, non solo, ma pure acquista “stile”.
Finché l’italiano è rimasto una lingua letteraria, non professionale, nei dialetti (quelli toscani compresi, s’intende) esisteva una ricchezza lessicale, una capacità di nominare e descrivere i campi e le case, gli attrezzi e le operazioni dell’agricoltura e dei mestieri che la lingua non possedeva.
La ragione della prolungata vitalità dei dialetti in Italia è stata questa. Ora questa fase è superata da un pezzo: il mondo che abbiamo davanti, – case e strade e macchinari e aziende e studi, e anche molta dell’agricoltura moderna, – è venuto su con nomi non dialettali, nomi dell’italiano, o costruiti su modelli dell’italiano, oppure d’una interlingua scientifico-tecnico-industriale, e vengono adoperati e pensati in strutture logiche italiane o interlinguistiche. Sarà sempre di più questa lingua operativa a decidere le sorti generali della lingua …
Il dato fondamentale è questo: gli sviluppi dell’italiano oggi nascono dai suoi rapporti non con i dialetti ma con le lingue straniere. I discorsi sul rapporto lingua-dialetti, sulla parte che nell’italiano d’oggi hanno Firenze o Roma o Milano, sono ormai di scarsa importanza. L’italiano si definisce in rapporto alle altre lingue con cui ha continuamente bisogno di confrontarsi, che deve tradurre e in cui deve essere tradotto … La nostra epoca è caratterizzata da questa contraddizione: da una parte abbiamo bisogno che tutto quel che viene detto sia immediatamente traducibile in altre lingue; dall’altra abbiamo la coscienza che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé stante, intraducibile per definizione. Il libro ormai famoso di Georges Mounin (di cui è imminente un’edizione italiana adattata dalla stesso autore con esempi italiani) ha detto tutto quel che può essere detto sulla possibilità e l’impossibilità di tradurre, e non credo ci sia per ora nulla da aggiungere, se non sul piano delle previsioni del futuro.
Le mie previsioni sono queste: ogni lingua si concentrerà attorno a due poli: un polo di immediata traducibilità nelle altre lingue con cui sarà indispensabile comunicare, tendente ad avvicinarsi a una sorta di interlingua mondiale ad alto livello; e un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza, e di cui saranno investiti istituti diversi come l’argot popolare e la creatività poetica della letteratura.
L’italiano, nella sua anima lungamente soffocata, ha tutto quello che ci vuole per tenere insieme l’uno e l’altro polo: la possibilità d’essere una lingua agile, ricca, liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d’una varia gamma di ritmi della frase.
L’antilingua invece esclude sia la comunicazione traducibile, sia la profondità espressiva.
Tratto da “Il Giorno”, 3 febbraio 1965.
(*) Riccardo RADI: Avvocato Cassazionista del Foro di Roma, componente Commissione difensori di ufficio Consiglio Ordine Avvocati di Roma, componente commissione Linguistica Giudiziaria della Camera penale di Roma. Curatore di rubriche sul portale filodiritto.com e consulente giuridico di ErroriGiudiziari.com, condirettore della rivista Percorsi Penali edita da filodiritto.