Nei giorni in cui gli avvocati si riuniscono in congressi per discutere dei massimi sistemi, qualche pensiero sul quotidiano, dal versante penale, ch’è quello mio, si può azzardare.
Sul progressivo slittare della giustizia dalla cruda giurisdizione verso la rasserenante amministrazione.
Mi spiego. Giudicare è terribile; anche nel senso di qualcosa che tiene l’animo in sospeso. È decidere se una persona è responsabile o no. Decidere se deve essere privata della libertà e per quanto. E chi giudica e chi contribuisce, come parte, al giudizio, si assume, deve assumersi la responsabilità del giudizio, deve, per dirla colloquialmente, metterci la faccia.
Ed invece, nel processo che è la patria delle regole vere, ci siamo inventate mille regole accomodanti, prassi rasserenanti. Quando è il momento in cui chi giudica si ritiri in solitudine, subito dopo aver ascoltato quei progetti di sentenza propostigli dalle parti, per poi - dopo minuti,o ore, o giorni - uscire e leggere il suo giudizio; in quel momento abbiamo inserito il rinvio per repliche. Repliche che, perché le parole diventano autonome rispetto a chi le pronuncia e dimostrano più di quanto si vorrebbe, chiamiamo e scriviamo “formali”. Così che la terribilità del giudizio, la sua prossimità con l’ultimo contraddittorio, si stempera, si diluisce omeopaticamente, fino ai casi, più estremi ma anche più comuni, in cui il giudizio non viene detto davanti alla parti, ma diventa un foglietto da fotocopiare chiamato dispositivo.
A me pare questo l’ultimo sintomo - l’ultimo relativo, non so se assoluto - di quella trasformazione sopra denunciata: dalla giurisdizione all’amministrazione.
Che già s’era palesato. Mi sovvengono i maxi processi, in cui le pene più gravi venivano applicate a sconosciuti confusi in gabbie affollate e poi, man mano, in pixel su monitor.
Chissà se fra i discorsi sull’equo compenso, sulla monocommittenza, sul ruolo sociale, questi dubbi, queste trasformazioni, si insinuano, affiorano.
Che dire, alla fine di questa confusa riflessione. Che lo slittamento, la trasformazione denunciata, fa parte di quel mutamento antropologico che ci vuole tutti deresponsabilizzati.
Di quel “e chi se la prende la responsabilità?” ch’è diventato un motto, anche di chi per assumersi quella responsabilità è pure retribuito.
(*) Carmelo Passanisi: Avvocato del Foro di Catania è stato Presidente della Camera Penale "Avv. Serfanino Famà" e Presidente del Consiglio delle Camere Penali Italiane. È un vero amico, del quale siamo lieti di ospitare le riflessioni, sempre argute.