Questo scritto vuole essere un intervento divertito e - si spera - divertente sul tema della separazione delle carriere.
Scriverne in modo serio è infatti esercizio ozioso e pericoloso: ozioso perché ne hanno scritto e detto tutti; pericoloso perché, ove si prenda posizione, il rischio è di sembrare partigiano, tifoso di una delle due "squadre" che, a suon di argomenti tecnici e politici, si contendono il campo.
E allora, ecco l'idea: parlarne in modo scherzoso.
Si potrebbe obiettare che le facezie mal si addicono a una tematica così importante ove campeggiano la Costituzione, valori di civiltà democratica, la conformazione del processo penale, l'equilibrio di poteri, il benessere dei cittadini.
Ma, si sa, il confine tra serio e faceto è spesso labile: come ammoniva il marchese del Grillo, "quando si scherza, bisogna essere seri". Senza dimenticare Winston Churchill: "gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre".
Proviamo dunque ad abbozzare, per burla, una proposta originale: al più, per dirla con Sanial-Dubay, "chi cerca di parere originale, se non sempre vi riesce, è sicuro per lo meno di riuscire ridicolo", obiettivo programmatico di queste righe.
Così, mentre viene approvato dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025, in sede di prima deliberazione, il testo della legge costituzionale contenente "Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare", mentre le toghe requirenti e giudicanti, ad onta della ventilata separazione, sfilano insieme in segno di protesta durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario sotto l'egida dell'ANM, mentre l'Unione delle Camere penali a suon di pamphlet stigmatizza la presa di posizione dei magistrati, mentre l'art. 111 Cost. è richiamato come un mantra da ambo i lati, mentre il magistero di Giovanni Falcone viene scandagliato in profondità per cercarne conferme o smentite, sorge un dubbio: e se avessero tutti ragione?
Chi vuole la separazione, ha argomenti forti, con radici robuste, che sembrano affondare, in effetti, nella legge fondamentale e nel modello accusatorio che caratterizza - almeno nelle sue linee essenziali - il nostro sistema processuale: ogni processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale.
La comune carriera di pubblici ministeri e giudici, l'essere altro dall'avvocato, sembra contraddire l'assunto: pubblici ministeri e giudici non sono uguali, ma sono più uguali di quanto non siano giudici e avvocati.
L'idea che un giudice possa acriticamente avallare l'iniziativa dell'organo requirente è strisciante: "non è vero, ma ci credo", per riprendere una nota commedia del Teatro Napoletano.
D'altra parte, è chiaro che l'equidistanza del giudice, riflesso di imparzialità, appare meglio assicurata se vi fosse uno iato secco tra organo giurisdizionale e attore istituzionale.
Un giudice, già in passato pubblico ministero, potrebbe essere portato a ricercare nel dibattimento prove, piste investigative, elementi d'accusa.
Un pubblico ministero, già giudice, potrebbe essere portato a pensare che gli atti d'indagine preliminare, tutti da verificare nel dibattimento nella dialettica tra le parti, siano già prove certe, che non ammettono repliche, e che la richiesta di rinvio a giudizio sia una sentenza.
Chi è contro la riforma e vuole mantenere l'attuale assetto, vanta argomenti altrettanto forti: separare le carriere non ha senso, si rischia di allontanare il pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione, trasformandolo in un super poliziotto. Peggio: si indebolisce la magistratura, finendo col porre le premesse del controllo del pubblico accusatore da parte dell'esecutivo, incrinando l'equilibrio dei poteri e annacquandone l'indipendenza. Una involuzione della giustizia, insomma.
Per la verità, l'attuale riforma preserva l'indipendenza: in nuce, si rimarca che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, solo specificandosi che “è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente” (art. 3 del d.d.l., che sostituisce l’art. 104, co. 1, Cost.).
Nell’art. 107, co. 3 Cost., si introduce il principio delle “distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”, la cui concreta declinazione risulta demandata alla legge ordinaria sia con riguardo alla disciplina del concorso (un unico concorso o due diversi?) sia in ordine alla competenza per la formazione dei magistrati (un’unica Scuola Superiore della Magistratura o due?).
Infine, all’unico organo di autogoverno della magistratura, il CSM, succedono tre nuovi organi: due CSM ed un’Alta Corte disciplinare.
Insomma, più che di minorata indipendenza, quest'ultima ne esce forse rafforzata e raddoppiata.
Ma... non è questo il punto.
Abbiamo detto che hanno tutti ragione, giusto?
E allora, volemose bene.
Anziché separare giudici e pubblici ministeri, uniamoci tutti: avvocati, magistrati giudicanti e requirenti in un unico ordine.
Scriviamo in Costituzione che facciamo tutti parte di un unico apparato, servente rispetto a ideali di giustizia.
Scriviamo in Costituzione che siamo tutti indipendenti e, nell'ambito delle rispettive funzioni, perseguiamo la verità e lottiamo per la libertà.
E, in questo utopico disegno, prevediamo un unico accesso, concorso o esame di Stato poco importa: un'unica carriera, quella di giurisperito, in cui si possa liberamente passare dal ruolo di avvocato a quello di giudice o requirente, e viceversa.
Un'unica anima in tre corpi diversi.
Ma, andiamo oltre - dopotutto, è un gioco - prevediamo che, non solo a livello ordinamentale, ma pure nell'ambito dello stesso processo, si possa passare da un ruolo ad un altro. Si pensi ad un pubblico ministero che, ad un certo punto, debba spogliarsi della veste dell'accusa e indossare la toga d'avvocato: forse, le sue granitiche certezze sulla colpevolezza dell'imputato lascerebbero lo spazio a tesi alternative, forse penserebbe che in realtà, tutto sommato, mica sono prove ma solo elementi di mero sospetto, forse l'innocenza gli sembrerebbe non meramente presunta ma certa.
Si pensi ad un avvocato che d'un tratto diventi accusatore: forse l'innocenza sembrerebbe meno importante quale valore da tutelare, forse, tutto sommato, diventerebbe prioritario salvaguardare la collettività e tutelare la vittima del reato, forse gli argomenti della difesa gli sembrerebbero, ora, meri esercizi teorici, suggestiva arte oratoria e nulla più.
E poi, il giudice che diventa avvocato: tutte le eccezioni rigettate a suo tempo, forse, potrebbero apparirgli lesive della funzione difensiva. Forse, il modo di condurre l'esame dei testi, effettuato dal nuovo organo giurisdizionale, fatto di reiterazione di domande, anche suggestive, lo porterebbe a pensare: però, perché a me non è permesso?
E avvocati che divengono giudici...
E così, a seguire, in un gioco di ruoli interscambiabili a cadenze asincrone, governato dal caos o, perché no, da indecifrabili algoritmi dell'intelligenza artificiale.
Del resto, Calamandrei osservava: “bisognerebbe che ogni avvocato, per due mesi all'anno, facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all'anno, facesse l'avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi e reciprocamente si stimerebbero di più”.
A quel punto, in questa unione e commistione casuale di ruoli, l'imputato anelerebbe solo alcune cose: l'onestà intellettuale e la capacità di tutti gli attori.
E allora, uniamoci tutti, con onestà intellettuale e capacità, separandondoci da chi non coltiva l'onestà e lo studio. Separiamoci dagli incapaci.
Ecco, uniamo i capaci e separiamoli dagli incapaci: forse, saremo tutti d'accordo, e, certamente, così, si migliorerebbe la giustizia.
Ma siamo sicuri che saremo tutti d'accordo?
Forse sulla carta sì, ma vai a capire come decidere chi sia capace e chi non lo sia... ma questa è un'altra storia!
È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale e Caporedattore della Rivista La Giustizia Penale.
È Autore di oltre 60 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.