Da qualche mese ci stiamo occupando della riforma del processo penale esaminato dalla commissione c.d. Cartabia e prossimamente all'attenzione del Parlamento.
Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e un docente universitario.
Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.
Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.
Proseguiamo oggi con la sezione La riforma della prescrizione, per il quale abbiamo rivolto le nostre domande a Francesca Zavaglia (giudice), Giulia Amodeo (pm), Maurizio Gemelli (avvocato) e Guido Todaro (docente).
1- Il legislatore intende riformare per la terza volta, dal 2017, l’art. 159 c.p.: non era meglio riformare l’istituto della prescrizione nel suo complesso?
La risposta del giudice: La riforma complessiva della prescrizione è impresa sempre ardua perché sul campo ci sono grandi tematiche che vanno dalle cause strutturali della eccessiva durata dei processi, alle risorse effettive di cui gode il sistema Giustizia fino ad involgere principi fondamentali quali quello della stessa obbligatorietà dell’azione penale. Si tenga poi sempre a mente che, stante la natura sostanziale dell’istituto, le riforme della prescrizione determinano, qualora introducano clausole dotate di effetto in bonam partem, effetto retroattivo e difficilmente sono scevre da problematiche interpretative.
Si tratta pertanto di “scosse” inferte al sistema processuale che non ne agevolano certo la funzionalità complessiva e sono auspicabili solo se fondate su principi certi e condivisi e quindi dotate di lunga prospettiva di vigenza temporale. Valga la pena a questo proposito rammentare che la stessa riforma sulla prescrizione introdotta con l. 103/2017, la c.d. “riforma Orlando”, trova le sue radici negli effetti derivati dalla modifica dell’istituto attuata con la l. 251/2005, la c.d. “ex Cirielli”, la quale, sostituendo il “sistema a fasce” previgente, ha notevolmente ristretto i termini di prescrizione per numerose fattispecie di reato, comportando - anche a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 11/10/2006 n. 393, ritenne incostituzionale l’opzione adottata dalla disciplina transitoria di subordinare l’efficacia retroattiva della lex mitior alla formalità dell’avvenuta apertura del dibattimento - che numerosi processi, già giunti al vaglio dibattimentale, siano terminati con sentenze dichiarative di estinzione del reato. Ciò con un evidente “spreco” di risorse materiali e umane e nello smarrimento delle parti processuali, in particolare modo le parti civili costituite.
L’Italia, negli anni a seguire la riforma della prescrizione introdotta con la “ex Cirielli”, è stata più volte sollecitata in ambito internazionale a modificare il regime dell’istituto sì da garantire che in particolare alcuni reati, quali quelli contro la pubblica amministrazione o i reati tributari, abbiano una possibilità concreta di giungere ad accertamento e connessa sanzione.
Da operatore del sistema, quindi, temo le riforme che introducono il germe di riforme che inevitabilmente verranno perché tocco con mano i costi di questi “esperimenti”. Non intendo però sostenere che la prescrizione, nel sistema ad oggi vigente così come stratificatosi ad opera delle varie modifiche normative e degli interventi della Corte costituzionale, non meriterebbe un ripensamento generale. Invero, anche alcuni capisaldi su cui si basa l’istituto mostrano le loro criticità. Così, se è vero che dalla maggiore gravità del reato e dal particolare allarme sociale generato derivi una «resistenza all’oblio nella coscienza comune più che proporzionale all'energia della risposta sanzionatoria» (Corte cost. sent. 8/4/2014, n. 143), d’altro canto è agevole rilevare che talvolta i reati gravi presentano profili di accertamento assai più semplici rispetto a reati sanzionati meno gravemente. Mentre per un delitto di rapina aggravata, magari commesso da soggetto recidivo, la prescrizione sostanzialmente non esiste, alcune contravvenzioni (spesso rilevate dopo un determinato lasso temporale dal loro compimento e che certamente non possono “beneficiare” dello status soggettivo del recidivo) hanno difficoltà a raggiungere in tempo una tappa che ne decreti la sopravvivenza.
La risposta del pm: Assolutamente sì. Più in generale, ritengo che un (ennesimo) circoscritto -seppur assai “impattante”- intervento in materia diprescrizione evidenzi ancora una volta un’occasione persa rispetto a ben più pressanti esigenze di riforma, invocate da decenni: infatti in un sistema che prevede – costituzionalmente – il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, gli obiettivi del giusto processo e della corretta e tempestiva risposta punitiva dello Stato dovrebbero essere perseguiti non tanto “allungando” il tempo necessario a prescrivere, ma soprattutto adottando serie e precise scelte deflattive, in ottica squisitamente di politica del diritto, e di rinuncia al ricorso alla risposta punitiva (quantomeno di tipo prettamente penale) per tutta una serie di illeciti di scarso allarme sociale (le note fattispecie “bagatellari”, che pure, per quanto noto, intasano i ruoli dei pubblici ministeri e quelli di udienza). Si pensi ad esempio al notevole impatto che potrebbe avere la previsione del regime di procedibilità a querela per tutta una serie di illeciti (ad esempio l’art. 610 c.p.: perchè una fattispecie, il più delle volte odiosa e potenzialmente pericolosa, come lo stalking, è procedibile a querela, e non deve esserlo un reato istantaneo come la violenza privata?) di scarso allarme e, di riflesso, il benefico impatto sul sistema giustizia, che potrebbe così veder concentrati gli sforzi e le – ancora scarse – risorse su vicende meritevoli di una attenzione e di uno studio più intensi di quello che allo stato può essere dedicato.
Aggiungo che anche per illeciti di natura contravvenzionale, spesso comunque sintomi di malfunzionamento sistematico di un determinato settore (ad esempio le contravvenzioni del datore di lavoro) risulterebbe assai più efficace la previsione diretta di sanzioni amministrative di natura pecuniaria e/o interdittiva piuttosto che l’attivazione di un procedimento penale che, nel caso in cui non si opti, ove possibile, per l’ottemperanza alle prescrizioni volte alla estinzione del reato, è destinato – salvo il caso di emissione del decreto penale, comunque sempre opponibile – a concludersi dopo i 5 anni e dunque con una dichiarazione di avvenuta estinzione del reato per prescrizione; nella prassi risulta infatti del tutto inattuata la previsione della sospensione del procedimento penale nelle more dell’adempimento delle prescrizioni imposte dall’organo di vigilanza.
La risposta dell'avvocato: La prescrizione rimane un istituto centrale nella nostra cultura giuridica, che non può essere esaminato attraverso gli slogans mediatici, tipici dell’approccio populista-giudiziario.
Non sono bastate neppure ben tre riforme negli ultimi anni (la ex Cirielli, la riforma Orlando, la riforma Bonafede, che, a tacer d’altro, ha ritenuto di abrogare la precedente disciplina prima ancora che se ne potessero verificare gli effetti e la paradossalità di questa ultima opzione legislativa mi pare di tutta evidenza!). Figurarsi quindi se si avverte ancora il bisogno dell’ennesima riforma dell’intero istituto, che rimane a prevalente matrice sostanziale, più che processuale. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ce lo ha ricordato più volte.
Parimenti condivisibile mi pare l’orientamento della Corte Costituzionale, espresso nella sentenza n. 23 del 2013, che contempla il riconoscimento del diritto all’oblio dei consociati.
La stessa Corte di Cassazione, in una efficace sentenza, seppur ormai risalente del 2006, ha affermato che la prescrizione rappresenta una garanzia dell’imputato a non vedersi sottoposto al procedimento penale sine die.
Aveva perfettamente ragione Beccaria, quando ci ricordava che “il decorso del tempo consente di divenire migliori”. Già secondo gli illuministi, essa costituiva strumento di garanzia complementare al principio di legalità, segnatamente nel senso di sottrarre all’arbitrio del potere non solo i modi, ma persino i tempi del suo esercizio.
Arturo Rocco, non certo un antesignano del garantismo ad ogni piè sospinto dei nostri tempi, a proposito della prescrizione, amava ripetere che “il tempo, con la sua lenta e continua azione demolitrice, non può non influire sulla vita e sui rapporti giuridici che i fatti di reato hanno originato”.
Forse bisognerebbe riuscire a comprendere una volta per tutte che la prescrizione è, in buona sostanza, una questione antropologica, prima ancora che giuridica, che non intercetta il solo diritto sostanziale e processuale penale. E, comunque, essa non è sempre e comunque una patologia, al contrario ha una sua moralità, ambigua, incerta quanto si vuole, ma ha pur sempre una sua ragionevolezza, anche se dovesse servire semplicemente a sanzionare l’inosservanza del principio di ragionevole durata del processo.
Non possiamo negare la precarietà della giustizia umana e il legislatore non può fare finta che non esista l’effetto del decorso del tempo.
La risposta del docente: Partiamo dalle basi. La prescrizione del reato è un istituto di diritto penale che limita entro un tempo massimo – variamente modulato in base alla gravità del reato – la potestà punitiva dello Stato. Se non si addiviene entro un lasso di tempo più o meno lungo all’accertamento definitivo di responsabilità, lo Stato non può più esercitare la sua vis punitiva. Essa è una causa estintiva del reato collegata al decorso del tempo, dunque.
Così concepita, la prescrizione si collega ad importanti principi del diritto penale e alla stessa ragion d’essere della pena, sia dal punto di vista della funzione general-preventiva, sia dal punto di vista della funzione special-preventiva. Dal punto di vista della funzione general-preventiva, ha poco senso – sotto il profilo della dissuasione nei confronti della generalità dei consociati e dell’effetto deterrente – punire una persona a notevole distanza di tempo dall’accadimento di fatti astrattamente sussumibili in una norma incriminatrice. Dal punto di vista della funzione special-preventiva, ha poco senso punire, in ottica deterrente, una persona dopo che siano decorsi molti anni dai fatti: qui viene in rilievo, peraltro, anche il principio costituzionale in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.). Ecco, la funzione rieducativa della pena è di massima importanza: una pena applicata a notevole distanza temporale dai fatti equivarrebbe a sanzionare una persona diversa da quella che in ipotesi aveva commesso il reato, essendo certamente mutata la sua personalità. Una pena siffatta sarebbe dunque percepita come diseducativa, difficilmente potendo assolvere alla funzione che le è assegnata dall’Ordinamento.
Insomma, la prescrizione è un istituto di grande civiltà giuridica che, oltretutto, impedisce di sottoporre il singolo individuo ad una teoricamente illimitata potestà punitiva da parte dello Stato, estrinsecabile senza alcun limite temporale, ed assicura il diritto all’oblio rispetto ai fatti per cui non è più percepibile alcun allarme sociale. Ovviamente, non tutti i reati sono prescrittibili essendoci dei fatti ritenuti dall’Ordinamento così gravi da meritare sempre e comunque una possibile punizione.
Non solo. La prescrizione si collega anche ad importanti principi che governano il nostro processo penale. Basti pensare al diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.) e alla conseguente difficoltà, se non una vera e propria impossibilità, di reperire prove “a discarico” che il decorso del tempo potrebbe aver cancellato (si pensi alla morte di un possibile testimone, allo smarrimento o al deterioramento di documenti, ecc.). In certa misura, la prescrizione si collega anche alla ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.): l’orizzonte dei termini prescrizionali definisce infatti uno spazio temporale oltre il quale non si può andare e dovrebbe pertanto funzionare da acceleratore, inducendo la Magistratura a fissare i processi in tempo utile per l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità.
Venendo specificamente alla domanda, vista la grande importanza dell’istituto e tutti i principi che vengono coinvolti, intervenire nuovamente in modo estemporaneo, rapsodico, senza una visone organica, sul solo art. 159 c.p., non è propriamente lungimirante: l’impressione è di mettere un’ulteriore toppa, quasi si trattasse di un vestito di Arlecchino. Sennonché, i concetti di Carnevale e Giustizia evidentemente non vanno molto d’accordo poiché la Giustizia è una cosa seria e deve essere maneggiata con cura. Dunque, sarebbe stato certamente preferibile riformare l’istituto della prescrizione nel suo complesso, sì da recuperarne la ratio originaria, andata progressivamente perduta negli ultimi anni, percorsi da un’ondata populista e da una certa demagogia che ha portato ad un innalzamento, di fatto, dei termini prescrizionali: si pensi all’attuale comma 2 dell’art. 159 c.p. (la cui formulazione si deve alla l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 1° gennaio 2020) che prevede un blocco del corso della prescrizione dalla pronuncia della sentenza di primo grado sino alla sentenza irrevocabile: di fatto, il processo di appello potrebbe essere celebrato senza alcun limite di tempo (così come il giudizio in Cassazione), così dando luogo all’aberrante figura del “fine processo mai”.
2- Nel merito della riforma è stato osservato che la novella introdurrebbe una distinzione tra condannato e assolto, all’esito del primo grado di giudizio, lesiva della presunzione di innocenza, quale il suo giudizio al riguardo?
La risposta del giudice: Non ritengo che sia ravvisabile un tale pregiudizio, che tale non era nel sistema introdotto dalla “l. Orlando”, secondo il quale - si rammenta - il corso della prescrizione era sospeso dal deposito della motivazione della sentenza di condanna (di primo grado o di appello) sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza del grado successivo di giudizio, per un tempo comunque predeterminato e “recuperabile” in caso di sopravvenuto proscioglimento o annullamento della condanna.
Dai lavori preparatori della l. 103/2017 si evince che il nucleo della riforma faceva leva proprio sulla sentenza di condanna di primo grado che «affermando la responsabilità dell’imputato, non può che essere assolutamente incompatibile con l’ulteriore decorso del termine utile al cosiddetto oblio collettivo rispetto al fatto criminoso commesso». Si era scelto, però, di non far cessare da quel momento la prescrizione (come avviene oggi), ma di introdurre “specifiche parentesi di sospensione” per permettere lo svolgimento dei giudizi impugnatori, così impedendo che cadesse la scure della prescrizione dopo il riconoscimento della fondatezza della pretesa punitiva dello Stato consacrata dalla sentenza di condanna non definitiva, evenienza che il sistema Giustizia ha avvertito come intollerabile. Detto in altre parole, l’intervento di una pronuncia di condanna, anche solo in primo grado, è evento processuale che non può essere considerato neutro ai fini del decorso della prescrizione ovvero assimilabile ad una pronuncia assolutoria: non lo è per l’imputato, il cui diritto a non essere più giudicato per il decorso del tempo recede a fronte di una pronuncia, pur non irrevocabile, di responsabilità; non lo è per le vittime, nei cui riguardi la pronuncia aumenta le aspettative; non lo è per il sistema intero, che ha prodotto un risultato, ancorché parziale.
La risposta del pm: Senza timore di apparire eccessivamente “giustizialista”, ritengo che l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, ancorché in primo grado, costituisca un avvenimento – fatto storico e giudiziario (seppure suscettibile di revisione nell’ottica fondamentale del principio, costituzionalmente garantito, del doppio grado di giudizio, per divenire cosa giudicata) - da non considerarsi neutro; in altre parole non mi sembra che, almeno in astratto, la novella in riferimento contenga una soluzione lesiva di diritti fondamentali, ma piuttosto un apprezzabile tentativo volto ad evitare che il dibattimento, lungi dall’essere opzionato (in alternativa ai riti speciali) e svolto per l’accertamento della verità nel contraddittorio delle parti, si riduca, come ancora nella prassi troppo spesso avviene, a parentesi vuota di tempo, spese ed energie, finalizzata ad ottenere la prescrizione (nei successivi gradi di giudizio). In altre parole il diritto dell’individuo di essere considerato innocente sino alla sentenza definitiva non è di per sé incompatibile con il diritto dello Stato a giungere ad una pronuncia definitiva senza incappare nella scure della prescrizione; ovviamente limite ultimo di tale concezione è pur sempre rappresentato dal principio della giusta e ragionevole durata del processo, con tutto ciò che ne consegue, o ne conseguirebbe, in termini di obblighi – questi sì, gravanti istituzionalmente solo in capo allo Stato – di investimento nello sviluppo di nuove risorse, umane e strutturali, nel sistema Giustizia. Per questo motivo la novella singolarmente intesa, non affiancata da scelte di depenalizzazione ispirate dal principio della extremaratio, di cui sopra, rischia di rivelarsi insufficiente ovvero controproducente.
In quest’ottica una proposta alternativa nella medesima direzione di ridurre le impugnazioni strumentali – sul presupposto che non tutte lo sono - sarebbe a mio sommesso avviso rappresentato dalla eliminazione del divieto di reformatio in pejus, che la nostra Costituzione non i impone.
La risposta dell'avvocato: Con più specifico riguardo ai possibili profili di incostituzionalità in genere del regime, che si vorrebbe introdurre con la novella in discorso, prima facie, intravedo la possibile violazione dell’art. 2 Cost., sotto lo specifico profilo che questo potere punitivo, esteso sine die, finisce per pregiudicare seriamente il diritto dell’imputato a programmare le proprie scelte esistenziali, a rifarsi una vita, a reinserirsi nelle formazioni sociali “ove si svolge la sua personalità”.
Il condannato in primo grado, sostanzialmente equiparato al colpevole definitivo, potrebbe altresì configurare la parallela violazione della presunzione di non colpevolezza.
Occorre, però, sul piano più squisitamente operativo, riflettere sull’ulteriore rilievo che l’accoglimento di una eventuale eccezione di legittimità costituzionale, orientata costituzionalmente in quella direzione, a mio sommesso avviso, non cancellerebbe la riforma Bonafede, ma tutt’al più provocherebbe un riallineamento della posizione del condannato in primo grado con quella dell’imputato assolto.
Se poi si considera il rilievo inerente alla selettività della prescrizione, certo distribuita geograficamente in modo variegato (a Napoli, Roma, Venezia, Bologna, più intensa che in altri fori), e magari per di più distribuita socialmente in modo discriminatorio, nel senso che finisce per trovare scarsa applicazione, rispetto alla platea generale, nei confronti delle classi socialmente periferiche, con possibile parallela violazione del principio di uguaglianza e con altrettanto pericoloso, scivolamento del nostro apparato punitivo verso un vecchio o nuovo diritto penale d’autore, sarebbe possibile astrattamente ravvisare una irragionevolezza di quella previsione sub specie art.3 Cost., sulla quale ultima, però, poi in concreto occorrerebbe misurarsi con i significati che nelle più recenti pronunce ha attribuito la Corte Costituzionale a quel pur ricorrente principio.
Né, per altro verso, può condividersi la scelta, operata ancora una volta acriticamente in chiave comparatistica dal legislatore della Bonafede, di emulare le opzioni privilegiate dell’ordinamento tedesco e di quello di common law, a proposito della sospensione della prescrizione in corso di giudizio, segnatamente dopo il giudizio di primo grado.
Forse si è trascurato di considerare che in Germania, che pare sia stato il modello al quale il legislatore di casa nostra ha inteso prevalentemente ispirarsi, si è introdotta la sospensione della prescrizione durante il giudizio, o comunque dopo il primo grado, ma solo per fare fronte alla esigenza di perseguire reati assai risalenti nel tempo (es: crimini di guerra) e assai gravi, rendendoli retroattivi.
Nei sistemi di common law, poi, la logica è assolutamente diversa, di natura tutta processuale ed è motivata dalla esigenza di fronteggiare i rischi di uno svilimento del momento genetico della prova, che venga assunta a distanza di lungo tempo dalla commissione del fatto di reato contestato.
Non intravedo, al contrario, alcuna violazione del parametro dell’art.111 co.3 Cost., perché la ragionevole durata del processo si pone su un piano assolutamente differente da quello della prescrizione.
Come ha correttamente osservato la dottrina (BRONZO), la prescrizione non risolve il problema della irragionevole durata del processo, ma lo dissolve.
L’irragionevole lunghezza si risolve con altri rimedi peculiari del processo penale che lo accelerino.
Una prescrizione, costituzionalmente orientata alla ragionevole durata del processo, renderebbe incostituzionali i reati imprescrittibili, malgrado la eccezionalità del loro regime, persino di quelli imprescrittibili di fatto ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp che, pur con tutte le interruzioni, non intercettano i termini massimi.
Per non tacere del rilievo che, mentre la irragionevole durata del processo viene di fatto calibrata sulla complessità degli accertamenti da compiere, la misura del tempo della prescrizione è parametrata alla gravità dei reati contestati.
I termini prescrizionali, così come previsti dal dettato normativo, sono normalmente sufficientemente ampi, rispetto alla “ideale” ragionevole durata del processo, nel senso che un processo anche complesso, sempre che non cominci in epoca lontanissima dai fatti, dovrebbe concludersi ampiamente entro i termini prescrizionali, sempre che il sistema riuscisse a funzionare al meglio.
La prescrizione, poi, è rinunciabile dall’imputato che del tutto legittimamente aspiri ad essere assolto con formula ampiamente liberatoria, mentre il diritto alla ragionevole durata del processo è normalmente sottratto alla disponibilità dell’imputato, e se pure lo volessimo costruire come un diritto soggettivo, come un diritto potestativo, dovremmo a quel punto, anche per coerenza interpretativa, riconoscerlo a tutte le parti (persino alla parte civile), e non solo all’imputato.
Peraltro, se l’imputato rinuncia alla prescrizione, non rinuncia alla durata ragionevole e mantiene il diritto all’indennizzo ex lege Pinto, ogni qual volta il processo dovesse avere una durata sproporzionata.
Insomma, le soluzioni al problema della irragionevole durata non vanno ricercate nelle riforma della prescrizione sostanziale, ma nella seria, effettiva, responsabilità dei magistrati, ai quali sia addebitabile il ritardo, nella soluzione prospettata dalla dottrina della prescrizione del processo, differenziata a seconda che la sentenza fosse stata appellata dal PM o dall’imputato, nella opzione tedesca della riduzione proporzionale della pena, per le assoluzioni tardive, nel riconoscimento di un indennizzo ben più consistente di quello ex lege Pinto, liquidato dal giudice che ha emesso la sentenza tardiva. E sono tutti rimedi che ben potrebbero essere modulati in funzione delle singole fasi processuali.
La risposta del docente: Anche qui occorre partire dalle basi. Per le coordinate costituzionali di riferimento del nostro processo penale, l’imputato non è – e non deve – essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva (quella avverso la quale non sono più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione) (art. 27, comma 2, Cost.).
La presunzione di innocenza, per essere sintetici, significa due cose: come regola di giudizio, essa addossa l’onere della prova sul pubblico ministero che deve dimostrare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, mentre a quest’ultimo è sufficiente instillare nell’Organo Giudicante un dubbio ragionevole in ordine al fatto che possa essere innocente; come regola di trattamento, essa impone che l’imputato sia trattato come non colpevole durante l’intero arco del procedimento. Ciò significa che dovrebbero essere banditi trattamenti deleteri che si colleghino ad un ritenuto, e non giustificato dalla nostra Costituzione, affievolimento della presunzione d’innocenza.
Venendo alla domanda, la riforma che si commenta vorrebbe introdurre una distinzione tra condannato e assolto in primo grado collegando il blocco della prescrizione, già sopra visto, alla pronuncia della sola sentenza di condanna: appare evidente come, così ragionando, la novella determinerebbe la sospensione del corso della prescrizione sulla base di una sentenza di condanna non definitiva, evidentemente motivata da un giudizio di attenuazione della presunzione di innocenza che contrasta però con la disposizione costituzionale sopra menzionata che, come detto, male tollera simili graduazioni.
Quindi, una certa lesione della presunzione di innocenza si può riscontrare. Banalizzando, il ragionamento dei riformatori suona così: siccome c’è già una sentenza di condanna di primo grado, forse l’imputato non è poi così innocente e, per evitare che lucri una possibile prescrizione in appello, noi ne blocchiamo il decorso. Detta così, è brutale ma è questo il retropensiero che si cela dietro la novella: e allora, sì, confermo, la tensione rispetto alla presunzione di non colpevolezza pare evidente.
Il contrasto suona ancora più evidente considerato che è notizia di qualche settimana fa che la Camera dei Deputati ha dato il proprio ok al recepimento integrale della Direttiva n. 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza. Certo, quest’ultima incide anche su altri aspetti – evitare di indire conferenze stampa e di presentare la persona indagata o imputata come colpevole agli occhi dell’opinione pubblica prima della condanna definitiva – ma è quantomeno curioso che si assista alla discussione di una riforma che qui si commenta e che stride con altre lodevoli iniziative, come appunto il recepimento della suddetta direttiva.
Comunque, questa possibile riforma si innesta su una norma già incoerente e deleteria di suo: lo abbiamo detto sopra. È difficile dire se la toppa sia meglio o peggio del buco.
3- L’art. 14 del progetto di legge prevede la sospensione del corso della prescrizione ove venga appellata la sentenza di assoluzione, se almeno uno dei reati per cui è proposto il gravame si prescriva entro un anno dal termine di cui all’ art. 544 c.p.p. Non era più corretto prevedere la sospensione soltanto per il reato prossimo a prescriversi?
La risposta del giudice: La norma in commento, invero, si connota di determinatezza (fissando un criterio temporale certo) rispetto alla “prossima prescrizione”, che lascerebbe maggiore incertezza interpretativa, quindi non mi pare censurabile nella sua più precisa formulazione.
Mi limito a notare, però, la peculiarità del dies a quo da cui scatta la condizione processuale prevista per la sospensione della prescrizione (che, altrimenti, nel congegno normativo previsto, in ipotesi assoluzione, non opererebbe), fissato nella scadenza del termine per la stesura della motivazione e non dalla pronuncia della sentenza. In tal modo si conferisce al giudice il potere di far scattare o meno la condizione a seconda del termine che lo stesso individua per la stesura dei motivi della sentenza (ad esempio, i termini di prescrizione del reato potrebbero non maturerebbe entro l’anno in caso di motivazione contestuale ed invece rientrare in tale ipotesi in caso di motivazione differita). E si rammenta che il giudice non è tenuto a motivare sui termini indicati per la stesura dei motivi, sì da potere ritenere eccessivo ed incontrollato l’esercizio tale potere, foriero di queste innovative conseguenze in tema di prescrizione. Ancora, si evidenzia che, normalmente, i tempi necessari alla stesura della motivazione della sentenza non determinano alcuna sospensione della prescrizione, siffatta sospensione potendo verificarsi solo nel caso degli imputati sottoposti a custodia cautelare per i quali il giudice disponga la sospensione dei termini di custodia ex art. 304 lett. c) e c bis) c.p.p., con ordinanza adottata de plano (appellabile avanti al Tribunale del Riesame ex art. 310 c.p.p.) che fa scattare anche la sospensione della prescrizione del reato a norma dell’art. 159 co. 1 c.p..
La risposta del pm: Come prima impressione direi logicamente di sì. La prospettata soluzione differenziale consentirebbe almeno su un piano astratto – tralasciando i potenziali impatti pratici che fatico a prevedere – di garantire il rispetto del principio di parità delle parti (imputato e pubblica accusa), che, se correttamente inteso, deve pur sempre fare i conti con la circostanza che il P.M., concluse le indagini, assume la responsabilità di richiedere il rinvio a giudizio, nella convinzione di avere raccolto elementi sufficienti a provare nel dibattimento la penale responsabilità dell’imputato; conseguentemente mi sembra ragionevole che, dopo un primo grado assolutorio, l’imputato non si veda costretto a soggiacere ad una sospensione della prescrizione indifferenziata per tutti i reati in ordine ai quali la pubblica accusa non è riuscita a provare la sua penale responsabilità.
La risposta dell'avvocato: Si certo. Astrattamente, la soluzione prospettata nel superiore quesito sarebbe la più logica.
Occorrerebbe, però, come al solito, verificarne le ricadute nelle prassi applicative, in termini di effetti collaterali della separazione delle imputazioni cumulative.
Più in dettaglio, mi chiedo, esaminando l’art.14 del progetto di legge Bonafede dalla angolazione del PM impugnante la sentenza di assoluzione, magari soltanto in funzione strumentale, vale a dire per giungere all’obiettivo della sospensione dell’intero processo, quali strumenti di tutela specifica verrebbero apprestati per l’imputato già assolto in primo grado contro quelle situazioni certo patologiche?
Parallelamente, stavolta dalla angolazione dell’imputato già assolto, mi viene da pensare alle difficoltà di prova, sub specie dispersione della stessa, che potrebbero scaturire, nei reati dall’accertamento più complesso (es: reati informatici, ambientali e commerciali, reati dei cc.dd. white collars) per effetto del lasso di tempo trascorso a seguito della intervenuta sospensione, una volta che venisse riaperto il processo “congelato”.
Ed ancora.
La sospensione della prescrizione, sia pure limitata al reato prossimo alla prescrizione, provocherebbe certo, come primo effetto immediato, la parcellizzazione dei relativi giudizi di appello (magari persino dei reati mezzo dai reati fine), scaturiti dalla impugnazione del PM o del PG e/o della parte civile, e questo siamo proprio sicuri che gioverebbe all’imputato assolto in primo grado che sarebbe chiamato ad affrontare due giudizi, a distanza di molto tempo l’uno dall’altro, magari in condizioni psico-fisiche e ambientali profondamente differenti e persino con un giudice diverso e dunque con il rischio, quantomeno potenziale, di conflitto tra giudicati ?
Non ne sarei del tutto certo, almeno questa è la mia sensazione a caldo.
La risposta del docente: Intanto, va riconosciuta al legislatore una certa dose di fantasia: creare tutti questi distinguo e queste tempistiche diversificate è un qualcosa di arzigogolato e forse non giova alla intellegibilità del diritto che richiede, per contro, norme semplici, piane, di agevole comprensione.
Detto ciò, una volta che si intenda prevedere la sospensione del corso della prescrizione in caso di appello della sentenza di proscioglimento ove almeno uno dei reati si prescriva entro un anno dal termine di cui all’art. 544 c.p.p. (il termine per la redazione della sentenza, per intenderci), forse, il testo attuale, all’esame in sede referente della Commissione Giustizia, è più logico poiché l’ipotesi di una sospensione della prescrizione limitata al solo reato prossimo a prescriversi creerebbe non poche difficoltà pratiche e potrebbe essere foriera di veri e propri paradossi: solo a titolo d’esempio, se viene impugnata una sentenza di proscioglimento relativa a due reati, uno più grave per cui non v’è lo spettro della prescrizione entro un anno, e l’altro meno grave suscettibile di prescriversi entro l’anno, se la prescrizione rimanesse sospesa solo per quest’ultimo, potrebbe verificarsi lo scenario per cui sia fissata udienza in appello allorché il reato più grave si sia comunque prescritto (nonostante i tempi di prescrizione ab origine più lunghi), non potendosi giovare della sospensione della prescrizione, mentre non lo sarebbe il reato meno grave proprio a cagione della sospensione.
In generale, e concludo, sono comunque sbagliati tutti questi meccanismi sospensivi della prescrizione a seguito della sentenza di primo grado. Lo abbiamo detto sopra. Essi consegnano l’immagine di un imputato che sia sempre e comunque colpevole: se sia lui l’impugnante contro una sentenza di condanna, viene presentato come il delinquente che propone appello solo per inseguire la prescrizione e non, come dovrebbe essere, come il presunto innocente che – ritenendo di essere stato ingiustamente condannato in primo grado ed esercitando il suo diritto inviolabile di difesa che si estrinseca anche nella possibilità di impugnare – sta cercando semplicemente di fare affermare la propria innocenza; se sia il pubblico ministero l’impugnante avverso una sentenza di proscioglimento, viene passato come giusto il messaggio che si possano allungare i tempi dell’accertamento per evitare che l‘imputato, che l’ha fatta franca in primo grado, possa non ricevere la giusta punizione nei gradi successivi.
Un messaggio sbagliato, completamente distonico rispetto ai principi del diritto penale classico e della procedura penale che dovrebbe essere intesa essenzialmente come garanzia: e ritorniamo e chiudiamo con la presunzione di innocenza, rinnegata da queste riforme che assecondano pulsioni populiste che non dovrebbero trovare terreno fertile e diritto di cittadinanza in uno Stato democratico.